Ci sono voluti meno di ventidue mesi per ricostruire i 1.067 metri del ponte di Genova, mentre per rifare i 270 metri del viadotto Himera sull’autostrada A19 Palermo-Catania sono stati necessari oltre cinque anni
Il 10 aprile del 2015 cedette, lungo la A19 Palermo – Catania, il viadotto Himera. L’interruzione, causata da una frana, divise in due la Sicilia. Nell’isola, infatti, non esiste un’altra autostrada che la attraversi da Nord a Sud o da Est a Ovest. Per diversi mesi gli automobilisti furono costretti a fare il giro da Polizzi Generosa. E gli autoarticolati per raggiungere Catania dovevano passare addirittura da Messina. Ancora oggi è obbligatorio utilizzare la bretella costruita dall’Anas. L’azienda pubblica ha comunicato che i lavori di ripristino del cavalcavia saranno completati entro la fine di luglio, ma visti i continui rinvii, forse sarebbe stato meglio non fare previsioni. Pochi giorni fa il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha assistito alla posa dell’ultima campata del nuovo ponte di Genova. Il tutto in diretta televisiva.
Per rifare un viadotto di nemmeno trecento metri non sono stati sufficienti oltre cinque anni, mentre per realizzare un ponte di 1.067 metri sono bastati meno di ventidue mesi. Il committente delle due opere è sempre lo stesso, eppure, l’efficienza organizzativa e burocratica è diversa, perché?
Non è solo una questione di procedure amministrative o di capacità imprenditoriali. Piuttosto è un fatto di scelte politiche ed economiche. La viabilità di una città settentrionale è, per chi ci governa, molto più importante che ripristinare un’arteria autostradale che collega cinque milioni di siciliani. Non è la prima volta che si verifica questa disparità di trattamento. Il Sud, spesso, è abbandonato a sé stesso, come se fosse un peso per l’opulento e operoso Settentrione.
Due pesi e due misure. Due Italie. È sempre stato così. Dalla nascita dello Stato unitario la priorità è sempre stata quella di favorire lo sviluppo economico del Nord. Sia chiaro, i meridionali hanno tante responsabilità, ma forse la più grave è quella di non aver saputo imporre gli interessi e le esigenze economiche e sociali del proprio territorio. Spesso, troppo spesso, i ‘terroni’ si sono limitati ad accettare quel poco che il resto del Paese era disposto a concedere, cioè poco o niente.
Ora la storia potrebbe ripetersi. Stiamo affrontando una gravissima crisi sanitaria. Ad essa seguirà un crollo del Pil peggiore di quello del 1929. E non è necessario essere un indovino per prevedere che a pagare saranno i più deboli ed i territori con un’economica più fragile, Mezzogiorno compreso. Ovviamente, il tutto avverrà nell’indifferenza di chi governa e di chi è governato, ma anche questa non è una novità.