E’ indispensabile dotarsi collettivamente di lenti per orientarsi nel nuovo scenario dei “conflitti migranti”: tra rimozioni, critica del riduzionismo e degli immaginari, quattro punti sul dibattito attorno alla regolarizzazione in piena pandemia.
1. SENZA MEDIAZIONI
Il dibattito istituzionale che ha condotto alla predisposizione di un meccanismo di regolarizzazione per chi è privo di un titolo di soggiorno è esemplificativo di quali siano le lenti attraverso le quali l’attuale governo osserva le migrazioni. Il perimetro della discussione è stato saldamente presidiato dai temi dell’utilità economica e della necessità di braccia, a partire dal settore agricolo.
La riduzione delle soggettività migranti al congiunturale e temporaneo bisogno di manodopera è lo sfondo sul quale si staglia l’azione del governo.
Lo strumentale utilizzo del lessico dei diritti ha non di rado accompagnato l’introduzione di riforme legislative peggiorative della qualità della vita delle e dei migranti. In tema di regolarizzazione, viceversa, i confini della discussione sono limpidi e non contemplano equivoci. Il richiamo alla necessità di riconoscere i diritti è confinato sottotraccia, inerme. Gli assi portanti del provvedimento – la limitazione ad alcuni comparti produttivi e il carattere precario dei permessi di soggiorno riconosciuti – sono orientati al conseguimento dell’utilità economica, senza mediazioni.
2. DOPPIA RIMOZIONE
È oltremodo evidente: la riduzione delle e dei migranti a braccia è una violenta operazione di selezione e rimozione. Né la sfera dei bisogni né – tanto meno – quella dei desideri della forza lavoro migrante hanno avuto cittadinanza nel dibattito istituzionale. Nonostante le importanti mobilitazioni delle lavoratrici e dei lavoratori, dei movimenti e delle organizzazioni solidali, l’iniziativa del governo ha prodotto un provvedimento non generalizzato, settoriale e temporaneo.
Sono strutturalmente rimosse le specifiche caratteristiche del lavoro migrante.
I livelli salariali, le tipologie contrattuali, le peculiarità delle prestazioni lavorative richieste, la dimensione alloggiativa e le condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori sono temi tendenzialmente espulsi dall’ordine del discorso pubblico. Questa è la prima, macroscopica rimozione all’interno della quale si iscrive il decreto del governo.
C’è una seconda, fondamentale rimozione: la possibilità che le e i migranti esprimano conflitti. Non ci sono scorciatoie: il riconoscimento dei diritti è doppiamente intrecciato al dispiegamento di lotte, mobilitazioni, disobbedienze, comportamenti non collaborativi. L’introduzione di nuovi diritti è spesso il risultato finale delle mobilitazioni oppure, viceversa, tale riconoscimento avviene, con finalità di prevenzione e contenimento, nei confronti di una specifica parte della popolazione ritenuta potenzialmente nelle condizioni di mobilitarsi e confliggere. Nella discussione istituzionale sviluppata su questo tema, la possibilità che le e i migranti possano mobilitarsi è sostanzialmente rimossa. A dispetto di questa sistematica rimozione, il conflitto migrante può rappresentare l’utile imprevisto dei prossimi mesi.
3. ALTRE POSTURE
Il lavoro migrante in agricoltura è dominato da un immaginario preciso. Il lavoratore nero, docile raccoglitore di pomodori, è il sottotesto – esplicito e implicito – di gran parte dei discorsi sulla regolarizzazione. Più in generale, l’immaginario dominante che caratterizza la percezione diffusa della forza lavoro migrante è colonizzato da rappresentazioni tendenzialmente vittimizzati: l’utilizzo indistinto della parola «schiavo» ne è la rappresentazione più puntuale.
«The docile negro is a myth», sottolineava C.L.R. James ottant’anni fa. Il dispiegamento dei movimenti anticoloniali, le rivolte nelle metropoli postcoloniali, i diffusi e radicali conflitti nel lavoro migrante non hanno scalfito questa percezione. Le classi dirigenti ritengono la forza lavoro migrante strutturalmente remissiva. Non si tratta, ovviamente, di un errore prospettico o di un equivoco: è una lettura razzializzante. L’azione sindacale e politica, la capacità di darsi un’organizzazione, la presa di parola sono considerati appannaggio di chi, da un punto di vista politico e giuridico, ha cittadinanza. Basterebbe uno sguardo ai conflitti nel lavoro in Italia negli ultimi dieci anni per cogliere la centralità della composizione migrante, a partire dall’agricoltura e dalla logistica. Si tratta di un aspetto tendenzialmente rimosso nella rappresentazione dominante delle migrazioni e delle e dei migranti.
In che termini la rimozione della conflittualità migrante è in relazione con il tema della regolarizzazione? L’iniziativa del governo inquadra il tema della forza lavoro unicamente dal punto di vista della produzione e dei produttori. Il tema dei bisogni, dei diritti e dei desideri delle cittadine e dei cittadini di origine straniera è omesso.
Quale impatto questa tipologia regolarizzazione può avere sulle e sui migranti? L’idea che, nel complesso, il provvedimento sarà accolto con sostanziale passività, inerzia, disciplina è un abbaglio prodotto della sistematica rimozione dei conflitti migranti.
È verosimile immaginare che la fase immediatamente successiva all’entrata in vigore del provvedimento possa essere caratterizzata dall’attivazione di risorse individuali e collettive principalmente indirizzate ad ottenere, tra le pieghe del meccanismo configurato, il massimo dei benefici. È realistico immaginare che, in una fase immediatamente successiva, possano configurarsi posture di altro tipo.
4. IL TEMPO DEL DOPO
Chi sarà escluso dal meccanismo delineato, chi non riuscirà a rinnovare o convertire il permesso di soggiorno riconosciuto provvisoriamente e chi ha fatto ingresso nel mercato del lavoro ufficiale in ragione della regolarizzazione può trovarsi, a vario titolo, nella necessità, nelle circostanze o nel desiderio di esprimere conflitto. Non si tratta di un’ipotesi astratta o di una prospettiva idealizzata. La storia recente è scandita da rilevantissime mobilitazioni dei cittadini e delle cittadine di origine straniera e anche il presente è scandito da rifiuti, proteste, comportamenti non collaborativi tutt’altro che marginali.
L’immaginario secondo il quale le cittadine e i cittadini di origine straniera si incanaleranno docilmente del meccanismo di regolarizzazione predisposto dal governo, accettando con remissività di esserne esclusi – in mancanza dei requisiti iniziali oppure per l’impossibilità di rinnovare o convertire il permesso di soggiorno ottenuto – stride con la materialità dei conflitti agiti nell’ultimo decennio dalle e dai migranti impiegati in agricoltura e nella logistica, accolti nei centri di accoglienza e trattenuti nei CPR.
Attraversiamo una fase di passaggio. In attesa di valutare, nel dettaglio, l’impatto, la portata e i margini operativi della regolarizzazione, è indispensabile dotarsi collettivamente di lenti per orientarsi nel nuovo scenario. Il conflitto migrante è la posta in gioco: il determinarsi di questa possibilità può, a cascata, modificare la postura dei movimenti antirazzisti.
Non si tratta di un’utopia né di auspicio: la cronologia dei conflitti agiti dalle e dai migranti è lunga e fitta. Oltre al dato quantitativo, anche dal punto di vista dell’intelligenza tattica e strategica, della densità politica e della capacità organizzativa, i confitti migranti sono stati spesso caratterizzati da sperimentazioni importanti.
La rimozione, da parte delle classi dirigenti, della conflittualità migrante può capovolgersi in opportunità: l’irruzione sulla scena di soggetti con posture non previste è potenzialmente in grado di rivosciare l’attuale ordine del discorso. Sono ancora le parole di C.L.R. James a indicare quale postura assumere dentro e oltre il dibattito attuale sulla regolarizzazione: «l’unico luogo dove i neri non si sono ribellati è nelle pagine degli storici capitalisti».