Tante rabbie di categoria, nessuna rabbia di classe. Anzi, per Maurizio Landini il “Decreto Rilancio” del governo tutto sommato va pure abbastanza bene: l’avverbio di quantità riguarda quell’IRAP cancellata per tutte le aziende, senza scindere quelle che hanno subito danni dal Covid-19 da quelle che non ne hanno nemmeno sentito passare l’onda sulla propria struttura.

Le tante rabbie di categoria riguardano, dal punto di vista della cosiddetta “riapertura” economica, soprattutto il commercio al dettaglio, la ristorazione a vari livelli (pub, bar, ristoranti, locali specializzati in determinati ambiti del consumo di prodotti tutti italiani e cosi via…), i mercati rionali, quelli settimanali nelle vie e nelle piazze delle nostre città; per non parlare dei tanti negozi che fanno servizi alla persona: estetisti, parrucchieri, fisioterapisti, dentisti.

Tutte queste rabbie derivano dal fatto che è praticamente impossibile riaprire in sicurezza, seguendo quindi le norme dettate dall’INAIL, e al contempo avere un ritorno economico, se non pari, quanto meno “sostenibile” e che consenta quindi di avere un margine di profitto al netto di spese di sanificazione (che sono ingenti anche per un piccolissimo locale: si va dai 30 agli 80.000 euro) e delle retribuzioni del personale addetto (escluse le tassazioni attualmente sospese, ivi comprese le bollette per consumi di acqua, gas, luce).

Sono tutte rimostranze comprensibili, fatte nel nome di un richiamo all’equazione stabilita quasi dogmaticamente secondo cui senza la ripartenza del commercio, muoiono intere città. Siano esse grandi, siano esse piccole.

Vi è da dire che è molto commovente l’adeguamento alla necessità di proteggere la salute, in quanto bene assolutamente primario per tutte e tutti, da  parte di tutte le aziende che investono in pubblicità televisiva per sponsorizzare i loro prodotti. Non ve ne è una che non unisca il patriottissimo riferimento al tricolore con la parola “ripartenza” e che leghi il tutto a splendide immagini di armonia familiare, di unità al di là delle differenze di classe sociale. Tutti insieme appassionatamente, per ristabilire quella “pace sociale” invocata anche oggi da Zingaretti in un colloquio che ha avuto con testate nazionali che l’hanno prontamente riportata.

Vedete, paiono dire le colonne di quei giornali, da Landini a Zingaretti, la sinistra sindacale e quella politica (il che è opinabile, ma facciamo finta che sia così), fino a Confindustria e alle altre associazioni “sindacali” (virgolette stigmatizzanti), sono tutti concordi – più o meno – che siamo entrati nella fase di un nuovo patto tra imprenditori grandi, medi e piccoli e lavoro dipendente.

Pare quasi che il Coronavirus sia già scomparso e che quindi si possa agevolmente porre la questione, da parte del mondo dei ristoratori, sul distanziamento tra i tavoli: INAIL, giustamente, dice che servono almeno 2 metri tra un tavolo di astanti e un altro e che ogni cliente deve avere intorno a sé uno spazio di almeno 4 metri quadrati per poter essere garantito nella sua salute. Replica: no, non va bene, così dimezziamo i coperti e non possiamo riaprire.

Non c’è che dire, la matematica non è un’opinione e quindi non si può piegarla alle illogicità di questo o quel discorso. Ma il punto è quale sia la materia prevalente, il bisogno maggiore rispetto a quello minore. Se la salute tanto propagandata dalle patetiche pubblicità televisive, ridondanti escrescenze di una piaggeria mercantilista che sembra voler rabbonire piuttosto che sostenere lo sforzo generale del Paese, è davvero da mettere al primo posto rispetto al primato dell’economia, allora non c’è storia che possa tenere.

Salus populi suprema lex esto“, dicevano gli antichi. La salute del popolo è la legge suprema, il comandamento principale. Laddove si intendeva, in altre versioni del vecchio detto, la salute della res publica, quindi del bene comune, dello Stato in senso lato del termine. Se così è e deve essere pure oggi, ne consegue che il primato della salute prevale su quello dell’economia e che lo sforzo economico che viene oggi richiesto, ad esempio, alla grande industria, ai grandi cumulatori di profitti, agli industriali quotatissimi in borsa e transnazionali nello sguardo che osserva i loro capitali da una parte all’altra degli oceani, è uno sforzo sostenibile che non avrebbe avuto alcun bisogno dell’abolizione temporanea dell’IRAP indiscriminatamente.

Ma tant’è, si impongono tante singole rimostranze e rabbie di categoria e manca la vera rabbia, quella sociale, quella unitariamente tale, formata dalla discriminazione dei settori più sfruttati del mondo del lavoro che invece vengono legati mani e piedi alla sorte dei loro padroni e fatti sentire in questo frangente una “grande famiglia comune“, salvo poi separare i propri destini tra padroni e dipendenti una volta che il pericolo della perdita dei profitti sarà nuovamente scampato.

Probabilmente gli interventi che il governo avrebbe dovuto fare, come ha fatto, a debito, andavano indirizzati specificamente sul rilancio concreto di determinati ambiti tanto della produzione su vasta scala, quella che dà praticamente inizio alla filiera produttiva e costruttiva dell’economia liberista, quanto su media-piccola scala, sostenendo per alcuni mesi tante attività che oggi vacillano e si contorcono nel dilemma su riapertura o mantenimento della chiusura in base al calcolo tra costi e ricavi.

Se esistono tante mancate garanzie sanitarie nelle grandi imprese che, così facendo, mettono a serio rischio e pericolo le lavoratrici e i lavoratori, continuano anche ad esistere tutti i canoni dello sfruttamento liberista ante-Coronavirus. Non è scomparso nulla. Anzi, da questa situazione di emergenza globale gli affaristi e i profittatori hanno cercato di trarre fin da subito ogni possibile vantaggio, a tutto scapito dei ceti sociali più indebitati, meno tutelati e senza alcun fondo di garanzia richiedibile alle banche (protette dal finanziamento governativo) se non dimostrando di poter far fronte con i loro beni a probabilissime impossibilità nella restituzione del credito richiesto.

Beni che questi moderni proletari non hanno, perché il risparmio di parte del salario percepito o di parte della pensione è pressoché sempre stato impossibile in questi decenni di vorace inviluppo privatizzatore che ha aumentato i costi di qualunque cosa gli sia venuta a tiro: primi fra tutti i costi dei servizi essenziali per la salute (sì, proprio quelli…) e per l’assistenza.

Non si può ragionevolmente pensare di distruggere lo stato-sociale e, allo stesso tempo, convertendo ogni settore pubblico in privato gestire successivamente una fase di emergenza sanitaria globale e nazionale soltanto facendo ricorso ad indebitamenti sempre e solamente dello Stato per evitare il tracollo del privato che non vuole assumersi nessun rischio e nemmeno vuole fare alcun sacrificio!

Che cosa rappresenterebbe, altrimenti, la richiesta di Confindustria, accettata dal governo, di livellare l’IRAP nei confronti di tutte le imprese senza operare alcuna distinzione? E’ una misura di classe, un provvedimento che va a tutto beneficio dei padroni e che non si riversa minimamente nelle tasche dei lavoratori.

Così nemmeno va a giovamento del medio commercio che deve sottostare a regole giustamente molto restrittive e che, altrettanto giustamente, se ne lagna perché non ha alternative se non continuare con l’asporto di pizze, sushi, kebab, piadine, panini… Invece i grandi industriali hanno non solo la forza di resistere al Covid-19 per due o tre mesi di sospensione delle attività produttive (tenendo conto non solo delle defiscalizzazioni di cui giovano ma pure dell’allungamento dei tempi di elargizione degli ammortizzatori sociali garantiti sempre e solo dallo Stato), ma hanno pure libertà di scelta nei tempi di recupero della produzione, gestendoli in base alla domanda che è attualmente fortemente contratta e che si libererà gradualmente del peso gravoso del virus.

Un reddito di base per tutte e per tutti, una patrimoniale sulle ricchezze enormi (dagli 800.000 euro annui in su), riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali a parità di salario, regolarizzazione di tutto il lavoro sommerso, compreso quello dei migranti, partendo da una regolamentazione del ruolo padronale in questo versante dove il caporalato si fregia delle sembianze di un vero e proprio schiavismo da fazenda brasiliana, sarebbero state le vere misure da introdurre nel “Decreto Rilancio“.

Misure rivoluzionarie? Indubbiamente, se si guarda alla linea politica su cui sono venute crescendo le norme economiche messe nero su bianco nel decreto dal compromesso tra le forze governative. Ma sarebbero state, per una volta, misure che avrebbero capovolto l’azione di un esecutivo nella gestione di un problema sanitario, sociale ed economico al tempo stesso.

Commuoversi per i braccianti, nuovi schiavi dei moderni campi di raccolta, e stare in Italia Viva è una contraddizione così palese da permettere di citare Ivan Della Mea: “Se io sto con chi lavora, io non sto con il padrone“. Di ministri liberisti che si commuovono per la povertà e la miseria causata dal sistema che sostengono non dobbiamo sapere che farcene.

Il tipo di servaggio cui saranno costretti i migranti, che da schiavi diventavano veri e propri servi della gleba, è rappresentato  dal vincolo che legherà i cosiddetti “regolarizzati” al loro caporale-padrone sarà doppio. Se vorranno essere assunti dovranno essere regolarizzati e se vorranno rimanere regolari dovranno fare quanto stabilirà il loro padrone. Non avranno alcun diritto e tutela nell’eventuale contestazione contrattuale.

Va sottolineato ancora, ed abbondantemente, che sarebbe stato necessario intervenire sulla figura del padrone per regolarizzarla in merito alla gestione dei latifondi e del rapporto conseguente con la forza lavoro. Invece, si è soltanto fatto un regalo a questi aguzzini che ora avranno la possibilità di negoziare ancora più al ribasso prestazioni di lavoro certamente “emerse” ma solo formalmente. Esistono. Ma non sono lavoratori, sono veri e propri servi della gleba moderni.

Del resto, non era immaginabile poter chiedere a questo governo liberista e populista di costruire una barriera di classe alle richieste, ovviamente classiste, del padronato e dei tanti altri sfruttatori che si possono chiamare con nomi differenti rispetto ad “imprenditore“. Conte e i suoi ministri hanno realizzato un contenitore di elargizioni che tamponano alcune situazioni realmente in emergenza e altre che invece ricevono delle prebende di cui non avevano alcun bisogno immediato, quindi reale.

Ma la colpa, come ha scritto molto chiaramente Paolo Ferrero, non è del governo, tanto meno dei padroni: è nostra. Di noi che non siamo proprietari di alcuna azienda, di alcun mezzo di produzione e che continuiamo a non accorgerci di essere sfruttati, di essere sotto la gestione economica della politica e non viceversa. E, allo stesso modo, non prendiamo coscienza del nostro ruolo di classe: dai disoccupati ai precari, dai pensionati ai lavoratori dipendenti.

Questa è la colpa singola e collettiva di un popolo di sfruttati che vede negli sfruttatori dei benefattori. Su questo paradosso reale possono giocare tutte le partite di compromessi che vogliono e continuare a fare finta e a dimostrare che i decreti di rilancio dell’economia sono un vantaggio universale. Lo spettacolo deve continuare…

MARCO SFERINI

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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