Vanno di moda i programmi televisivi sulle “parole“. Pure quelle che vengono volutamente equivocate nella loro originalità (e originarietà) etimologica che le colloca in una certa parte del discorso e in un contesto ben preciso della logica del medesimo, quindi del “ragionamento“. Vanno di moda parole nuove, inglesismi, neologismi misti, fatti con pezzi d’italiano e pezzi di altri idiomi. Saranno pure mode, ma siccome non c’è futuro senza passato, anche senza recentissimo passato, per intenderci “l’ieri che diventa oggi, non ritornerà domani” (I Nomadi, “Riverisco“), diventa dirimente capire e farsi capire in questa società tutta presa da tante nuove parole.

Prendiamone alcune che sono entrate nella vulgata comune in questi mesi di chiusura totale e di quarantena: “lockdown“, oppure “recovery fund“. Oppure ancora “rating“, “outlook“, e così via… Si riferiscono tutte alla condizione socio-economica che stiamo vivendo; alcune sono anche già piuttosto conosciute perché quando il nostro Paese entra in una spirale ciclica di crisi del liberismo moderno, vengono immediatamente adoperate quando si far riferimento ad una agenzia privata che valuta le potenzialità della nostra economia e la sua capacità di risposta tanto alla concorrenza internazionale quanto al debito che contrae e che aumenta di anno in anno.

Mentre i programmi televisivi che si occupano del linguaggio più che altro parlato, rispetto a quello scritto, decantano termini della nostra lingua in forma aulica, per mostrare quanto sia meraviglioso il mondo in cui viviamo grazie alle sole parole, i termini inglesi che descrivono il quadro economico e sociale non solo italiano ma europeo non sono niente affatto rassicuranti.

La chiusura totale iniziata i primi di marzo e terminata ieri, 18 maggio, il “lockdown“, conseguenza del prorompente dilagare del Covid-19 nella nostra Penisola, ha gettato nella constatazione di una totale impreparazione tutto il mondo imprenditoriale, ricordandogli che non ha diritto di essere tale per divina investitura e che, oltre alle crisi cicliche molto bene descritte da Marx ed Engels (nonché da Rosa Luxemburg), è determinato, circoscritto quanto meno “legalmente” dal dettame costituzionale che prevede l’espropriazione della proprietà privata in caso di estrema necessità volta alla tutela della salute pubblica o, comunque, alla salvaguardia dell’incolumità dei cittadini della Repubblica.

Davanti ad un governo liberista, influenzato da tinteggiature di rosa riformista pallido, Confindustria è corsa ai ripari: non tanto temendo una impossibile tassa patrimoniale – esclusa da Giuseppe Conte ancor prima che venisse citata tanto da ambienti sindacali quanto con stigma da ambienti padronali – o l’ipotesi della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. L’associazione degli imprenditori ha tenuto immediatamente a rimarcare il suo primato, in quanto espressione del “motore economico” del Paese; il tutto in un silenzio pressoché assordante da parte della CGIL che, in questi giorni, approva persino la richiesta di “prestito” pubblico da parte di FCA: 6 miliardi di euro ad una azienda che paga le tassi nemmeno in Italia, ma nel Regno Unito.

Se persino si indignano le forze riformiste e liberali come il PD, vuol dire che la richiesta è davvero ascrivibile ad una disperazione da barra padronale impazzita nella tempesta del Coronavirus con ricerca del massimo profitto mediante il minor investimento di capitale privato in una fase di crisi che amplia il perimetro delle incertezze da parte della classe imprenditoriale.

Mentre FCA fa sfoggia di tutta questa plateale spregiudicatezza, altri comparti industriali come l’ex-ILVA, fanno ulteriore richiesta di cassa integrazione, non portano a termine la scrittura di un piano industriale che faccia intravedere il rilancio dell’impianto siderurgico di Taranto e di tutto l’indotto produttivo italiano che gli è legato e, visto il primo sciopero dei lavoratori al tempo del Coronavirus, a Genova, in cui si rivendicano diritto pieno alla tutela della salute nella fabbrica di Cornigliano (e in tutte le strutture del gruppo Arcelor-Mittal) e il diritto sindacale a tenere le assemblee unitarie delle RSU, rispondono con un nulla di fatto.

Le parole che spaventano i padroni, “lockdown“, “rating” e “outlook” sono fantasmi allontanabili grazia ad un più deciso intervento classista nei confronti del mondo del lavoro. Il giudizio di Moody’s e di altre agenzie di valutazione di incidenza del debito pubblico sull’economia nazionale e internazionale, mette in crisi solo apparentemente le certezze di uno sviluppo della macchina di sfruttamento del lavoro e di aumento della produzione mediante investimenti in nuova automazione, ingegneria informatica e quindi in elaboratissime e al tempo stesso semplicissime funzioni di produzione legate esclusivamente alla robotica.

Tutte le altre imprese italiane plaudono allo sconsiderato livellamento universale dell’IRAP decretato dal governo. Un favore fiscale niente male di questi tempi, messo sul piatto della bilancia di un profitto mancato per due mesi.

Due soli mesi: sessanta miserabili giorni a fronte di un conteggio di decenni di accumulazione di somme sui cadaveri di centinaia e centinaia di operai morti per la noncuranza delle misure di sicurezza, per l’accelerazione dei ritmi di produzione, per la generazione di una angoscia causata da una vita impossibile, frutto della precarietà e della disumanizzazione alienante di lavori legati soltanto alla sorte altalenante dello “spread” e dei calcolati “rating” affaristici privi di qualunque umanità.

Tante parole nuove sono state coniate in questi anni per dipingere i tratti di un mercato del lavoro sempre più feroce nei confronti dei moderni sfruttati tornati ad una proletarizzazione forzata: non fanno certamente figli per avere ricchezza, i poveri di oggi, i lavoratori e le lavoratrici che si spezzano la schiena, che si logorano la mente e l’animo sempre più preda dell’alienazione estraniante prodotta dal capitale.

Non fanno figli per avere ricchezza, ma fanno sempre più debiti, impegnano sempre più vecchie gioie di famiglia, ricordi cari cui i capitalisti non rinunciano di certo. Fino ad ora, quelli che chiedono allo Stato italiano prestiti da 6 miliardi di euro, hanno prodotto dividendi aziendali eguali: si sono arricchiti spostando le loro sedi legali ad Amsterdam e a Londra, con abili giochi tattici perfettamente legali.

Ma ai lavoratori non è consentito finanziarsi la pensione tagliando le trattenute dai loro stipendi. Nessun lavoratore può far emigrare il suo domicilio fiscale oltre le Alpi e pensare così di ottenere di più dal suo già misero salario.

Ancora una volta, tra le parole italiane, inglesi, tra termini economici, borsistici, finanziari e speculativi, propri di un liberismo modernissimo nel rigenerarsi come attualità della storia di un mondo che, nel bene o nel male, prosegue il suo ingiusto cammino, le classi dirigenti, la nuova grande borghesia che punta tutto sulle fusioni e i cartelli, sulla concentrazione dei capitali con la minima spesa in forza-lavoro e tutela della medesima dentro e fuori gli impianti produttivi, ha già superato la fase presuntuosamente critica del Coronavirus.

La perdita della ricchezza nazionale italiana, così come quella dei singoli paesi europei, il ricorso al “recovery fund“, sono già da ora messi a debito, anche a fondo perduto. Tanto la perdita del 9% del Prodotto Interno Lordo quanto i presunti 500 miliardi richiesti da Macron e Merkel all’Unione Europea, saranno gestiti da questa indirettamente e direttamente: il PIL sarà condizionato dalla reintroduzione dei vincoli di bilancio appena terminata la fase dell’emergenza sanitaria, mentre il resto verrà gestito in prima persona dalla UE stessa.

Il che significherà una concessione di fondi valutata in base alle esigenze delle nazioni più trainanti l’economia dell’Unione Europea: l’Italia chiede 100 di quei 500 miliardi? Una richiesta sensata ma che il governo ammette essere “esigente“. Un lancio ardito sul tavolo verde di un casinò dove la partita è sempre truccata.

Toccherà imparare nuove parole, dunque. Ma non quelle dei padroni. Nuove parole nostre, per decriptare tutti i files nascosti di una crisi economica che si vuol far pagare alla classe dei lavoratori, a tutti gli sfruttati, alleggerendone ancora una volta il potere di acquisto ma, al contempo, spingendoli a incrementare la domanda con bisogni sempre più fittizi, con indebitamenti personali sempre maggiori.

La vera assurdità che ci siamo lasciati raccontare, che tanti hanno introiettato senza farsi domande, sta nella abilità con cui è stata alterata la naturale sovrapposizione, anzi si potrebbe dire “coincidenza“, tra i piani di “crisi economica” e sociale (intesa come crisi dell’economia pubblica, generale del Paese) e “crisi strutturale” del sistema capitalistico in questo contesto di pandemia. Il precipizio in cui rischiano di cadere milioni di indigenti non è frutto del caso, di un dio malvagio o di qualche altro accidente metafisico: è la conseguenza di politiche aziendali figlie di un sistema economico ben determinato che, da oltre duecento anni, per utilizzare una felice e storica sintesi, “incamera i profitti e socializza le perdite“.

Non è ancora troppo tardi per cogliere l’occasione di approfittare del leggero disorientamento padronale per innestare contraddizioni maggiori nella complessità macchinosa del capitale. Ma per farlo servono forze sociali che siano un contraltare efficace all’arroganza e alla violenza, all’odio e al disprezzo che lor signori hanno nei nostri confronti. La mancata percezione di questo odio di classe è la misura della mancata coscienza di classe dei lavoratori, dei precari, dei disoccupati di oggi. Al tempo o meno che sia del Coronavirus.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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