Riceviamo e pubblichiamo
Era il 31 luglio 2015: un fanatico israeliano lancia nottetempo una bomba incendiaria nella casa della famiglia Dawabsheh. Ali, 18 mesi, muore per primo. Poi muore il padre Saad nell’anniversario di matrimonio con Reham, che muore per ultima nel giorno del suo compleanno. Ahmed di 4 anni sopravvive, col corpo devastato da ustioni al 70% e orfano. E’ occorso un lustro alla Giustizia israeliana per emettere il verdetto di colpevolezza contro Amiram Ben-Uliel.
Questo blog si era già occupato della tragedia: Rogo di una famiglia palestinese e astuzie dello Shin Bet, quando, per placare l’indignazione montante, era stato fermato con accuse generiche un blogger gerosolimitano già sotto osservazione del servizio segreto. Era temibile il rischio di un depistaggio, mentre i congiunti delle vittime venivano fatti oggetto di altri attentanti. Non ha potuto andare così perché, come scrive Gideon Levy in An Exceptional Verdict in Palestinian Family’s Murder Proves the Rule Israel Won’t Admit About Its Judiciary :
“Quando una Molotov viene lanciata in una casa dove dorme una famiglia innocente, non puoi più nasconderti, sfocare, reprimere o negare. Anche se sono palestinesi. Anche in Israele” […] Quando avevo visitato la casa di Duma che Ben-Uliel aveva dato alle fiamme mentre la famiglia era dentro, sentivi ancora l’odore del fumo, il televisore era sciolto, il forno a microonde carbonizzato. Il passeggino di Ali al centro della casa, era stato coperto da una bandiera palestinese, come monumento in suo onore. Sopra qualcuno aveva appeso una foto della famiglia, del tipo che compare sul frigorifero di quasi tutte le case, ma in quella foto c’erano solo dei morti.”
Levy riflette sul sistema giudiziario israeliano ricordando in parallelo un altro crimine d’odio: l’assassinio dell’adolescente palestinese di Gerusalemme Est, Mohammed Abu Khdeir, nel luglio 2014. Il colpevole israeliano Yosef Chaim Ben-David, aveva fatto appello contro la condanna adducendo l’infermità mentale; proprio nei giorni scorsi la Corte suprema lo ha respinto.
“Lunedì Amiram Ben-Uliel è stato condannato per tre accuse di omicidio, due accuse di tentato omicidio, tre accuse di incendio doloso e di cospirazione per aver commesso un crimine di matrice razziale. Il giovane, che faceva lavori di ristrutturazione ed è stato descritto come uno dalle “mani d’oro”, seguace del rabbino Eliezer Berland e “giovane di spicco”, è stato dichiarato colpevole e sarà presto emesso il verdetto di condanna.
In teoria si potrebbe sospirare di sollievo e persino provare soddisfazione e orgoglio. Giustizia è fatta, l’assassino condannato e il sistema legale funziona, anche quando le vittime sono Palestinesi e l’assassino Ebreo. In entrambi questi omicidi, Israele ha agito come se il suo sistema di applicazione delle leggi fosse equo e giusto. Ma l’orologio era ed è ancora rotto, anche se in questo caso segna l’ora giusta con precisione svizzera.
Non è un caso che sia Ben-Uliel sia Ben-David, provengano dal campo nazionalista, né è una coincidenza che in entrambi i casi vi siano stati dei minori coinvolti. Sono la feccia dell’impresa degli Insediamenti per esercitare le molestie, l’erbaccia che si presume faccia apparire il resto “puro” [kosher].
Né è una coincidenza che entrambi questi crimini particolarmente scioccanti abbiano ottenuto una copertura eccezionale nei media israeliani, nonostante l’origine nazionale delle vittime. Quando un adolescente viene bruciato vivo o quando una bomba viene gettata per dare fuoco a una famiglia innocente e addormentata, non si può più nascondere, oscurare, reprimere o negare, anche se le vittime sono palestinesi, anche se ciò avviene in Israele.
Questi non erano soldati che sparavano a una ragazza con le forbici, un comandante di brigata che sparava a un adolescente in fuga o coloni che bruciano campi e attaccano i pastori. In questi casi, non c’è scelta: deve esserci un’indagine, un processo e persino una punizione.”
Questi due crimini erano diversi: toccavano la coscienza personale, al di là delle appartenenze etniche. Tutti erano in stato di choc, a denti stretti dovettero darne dimostrazione anche il Presidente e il Primo Ministro, pertanto il servizio di sicurezza Shin Bet e la polizia non hanno avuto altra scelta che intraprendere un’azione vigorosa, anche se a rilento.
“Hanno torturato Ben-Uliel quasi tanto quanto torturano di routine i Palestinesi (cosa che non dovrebbe mai succedere) ovviamente non hanno demolito la sua casa, come fecero altre volte alla famiglia di un terrorista palestinese (ed è bene che non l’abbiano fatto). Né c’è stata richieste di pena di morte – questo è un ebreo, dopo tutto. Il sangue della famiglia Dawabsheh ha gridato dalla sua casa bruciata molto più forte del sangue delle case di altre vittime palestinesi, motivo per cui questa volta non è stato possibile nasconderlo.”
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Ahmed-Dawabsheh: una serie di complicati interventi chirurgici, dimesso nel 2016 con previsione di ulteriori interventi di chirurgia plastica. Il nonno materno: “Oggi il ritorno a casa di Ahmed porta sentimenti contrastanti. Da un lato, sta tornando a casa dopo essersi ripreso dall’essere in condizioni molto gravi e sta iniziando un lungo processo di riabilitazione, e dall’altro, sta tornando a casa da solo, dopo aver perso i genitori e il fratello. Cercheremo di dare ad Ahmed tutti i nostri amore e cercheremo di compensare la perdita dei suoi genitori – speriamo che cresca in un’atmosfera diversa senza odio e morte”