La scuola, come gli altri settori sociali, è stata investita dalla pandemia del Covid-19 mostrando tutta la sua impreparazione strutturale che si è accumulata in anni di tagli agli investimenti pubblici nel settore. La crisi è stata affrontata demandando agli insegnanti, alla loro tradizionale disponibilità a colmare le carenze del sistema, il compito di affrontare l’emergenza. L’esperienza ci insegna che i dispositivi messi a punto nelle crisi emergenziali, negli ‘stati d’eccezione’, ridefiniscono i rapporti di potere, tendono a stabilizzarsi e continuano a essere operativi nel “ritorno alla normalità”.
Proviamo a capire come la gestione dell’emergenza può influire sulle prospettive dell’insegnamento futuro nei suoi aspetti didattici, nelle ricadute economiche e nelle possibilità che si aprono per un maggior controllo autoritario da parte degli organismi dirigenti.
È necessario partire dall’introduzione massiccia della “didattica a distanza”, resa necessaria dalla chiusura degli edifici scolastici e quindi dell’impossibilità della “didattica in presenza”. L’emergenza ha quindi prodotto l’introduzione di un “modello in remoto” della didattica, mediato dagli strumenti di collegamento elettronico attraverso le grandi piattaforme di comunicazione telematica.
Il ministro ha vantato come un successo il fatto che “l’anno scolastico non si è mai interrotto”. Non è così, in realtà la scuola è finita nel giorno della chiusura degli edifici, il 5 marzo. La didattica, in qualche modo ha continuato a funzionare sotto forme di didattica a distanza, un modello avviato in molti casi per l’iniziativa spontanea e con risorse proprie degli insegnanti per mantenere i contatti con gli studenti e non interrompere la relazione educativa, utilizzando risorse individuali e imparando via via a gestire strumenti nuovi. I dirigenti scolastici hanno fatto proprie queste forme di didattica che poi hanno calato sugli insegnanti in assenza di un confronto con i docenti.
Il Ministero, che non ha mandato né indicazioni, né sostegni materiali, ha denominato questo lavoro come “didattica a distanza”, se n’è attribuito il merito, ha stabilito norme che nei fatti hanno aumentato i carichi di lavoro e ridotto ancor di più la libertà di insegnamento. Si è quindi affermato un modello, la didattica a distanza, tenuto in piedi dalla disponibilità, flessibilità e creatività di docenti, studenti e famiglie.
“Nel giro di 24 ore siamo ripiombati/e, volenti o nolenti, nel modello idraulico dell’insegnamento/apprendimento in cui io-prof produco contenuti e te li invio caricandoli su una piattaforma, mentre tu-studente ricevi, spacchetti, esegui e, quando sei fortunato/a, ci metti anche del tuo” ha scritto un’insegnante.
L’esperienza di questi mesi ha dimostrato che l’insegnamento a distanza è una didattica che esclude, taglia fuori gli allievi che già in partenza erano più deboli, che spesso sono figli delle classi subalterne, inseriti in famiglie che mancano di conoscenze e strumenti per sostenerli nell’uso di tecnologie telematiche su cui si basa la didattica a distanza. Non è un caso che le difficoltà maggiori si siano registrate in zone periferiche con redditi medi più bassi. Da questo punto di vista l’insegnamento a distanza è una didattica di classe.
La ministra Azzolina ci ha fatto sapere che dopo l’esperienza della didattica a distanza “abbiamo davanti una grande opportunità per innovare la scuola”. Modernizzazione e innovazione sono state due parole d’ordine con cui è avanzata la controrivoluzione neoliberista che ha impoverito materialmente, culturalmente e nella sfera dei rapporti di potere le classi sociali subalterne.
Dal punto di vista metodologico è necessario avanzare alcune critiche altrettanto importanti. L’insegnamento a distanza, la forma elettronica dei rapporti fra insegnanti e studenti, procede verso l’ulteriore macchinizzazione delle relazioni umane.
L’insegnamento a distanza attraverso mezzi elettronici non può che impoverire la qualità della didattica. “La scuola è socialità, non si rimpiazza con monitor e tablet” hanno scritto in un appello un gruppo di intellettuali. La scuola è un insieme di rapporti fra corpi e menti, è fatta di emozioni, di presenza e partecipazione, di apprendimento nella relazione diretta fra adulti-docenti, ragazzi e ragazze che si stanno formando non solo dal punto di vista dell’accumulo di nozioni, ma anche culturalmente e dal punto di vista della maturazione psicologica. Si tratta di processi complessi che non possono essere demandati a relazioni telematiche e alla mediazione di un monitor.
Sentendo il ministero, i media dominanti, alcune importanti fondazioni, oltre naturalmente le grandi piattaforme del web, si ha la sensazione che ci sia la volontà di imboccare un percorso di trasformazione della scuola nella stessa direzione della “buona scuola” renziana che non può che condurre alla formazione di ragazzi e ragazze “ad una dimensione”. La deriva sarebbe quella di un impoverimento culturale e delle capacità critiche, che sono già in forte sofferenza, nella direzione dell’accettazione del dominio pervasivo della tecnica con l’unico interesse della precoce professionalizzazione dei ragazzi.
Lo stesso ruolo intellettuale del docente non può che uscirne trasformato, impoverito umanamente perché ridotto ad una funzione meramente tecnica all’interno di un sistema meccanizzato. Sarebbe un ulteriore passo, quello definitivo, nella riduzione della scuola ad azienda al servizio delle logiche mercantili del sistema. Inoltre, in questo declino della relazione didattica, ci sono tutte le premesse per esternalizzare l’insegnamento e affidarlo ad aziende esterne specializzate per questo tipo di didattica impoverita.
“È probabilmente superfluo ricordare – scrivono gli estensori dell’appello sopra citato – che il termine greco scholé indica originariamente quella dimensione di tempo che è liberata dalle necessità del lavoro servile, e può dunque essere impegnata per lo svolgimento di attività più nobili, più corrispondenti alla dignità dell’uomo. Ne consegue che la scuola non vuol dire meccanico apprendimento di nozioni, non coincide con lo smanettamento di una tastiera, con la sudditanza a motori di ricerca”. Già, ma la modernizzazione che si vuole costruire deve essere pienamente all’altezza del dominio tecnocratico.
Come sarà la didattica nella ripresa di settembre? Alcune riunioni autoconvocate di insegnanti hanno avanzato la pressante richiesta di ritornare all’insegnamento in presenza in condizioni di sicurezza con l’abbandono della didattica di emergenza. Questo presuppone un forte investimento nell’assunzione di personale docente e nell’edilizia scolastica per adattare le classi a un numero minore di studenti. Altrettanto forte è la richiesta alle organizzazioni sindacali di rifiutarsi di normare la didattica a distanza. Il prossimo anno scolastico sarà un terreno di scontro che richiede percorsi di unità all’interno del corpo insegnante e fra questo, gli studenti, le famiglie e il personale non docente.
Redazione torinese
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