Quello che sta avvenendo negli Stati Uniti d’America non è riconducibile soltanto (si fa per dire…) all’omicidio di George Floyd: la portata delle manifestazioni sia pacifiche sia violente si trascina appresso decenni di razzismo, di scontro fra le classi sociali e di subordinazione dei diritti sociali a quelli civili. Alcune immagini, certi video diventano veri e propri moderni quadri impressionisti: chiunque ne è autore. Basta avere un telefonino e, senza che neppure la polizia ti si avventi contro, riprendere tutta la scene di un assassinio non nuovo per le modalità con cui viene, con cui è stato perpetrato.
La rivolta americana è di tale portata che, persino uno sprezzante pseudo-politico, un cinico miliardario come Donald Trump ha minacciato il ricorso all’esercito e ha usato toni che fuoriescono (come sempre del resto) dal cosiddetto “galateo istituzionale“. Si tratta pur sempre del Presidente degli Stati Uniti che, rivolgendosi ai governatori dei vari Stati, li chiama “cretini” qualora non si disponessero ad arresti di massa nei confronti di tutti quei manifestati che lui considera feccia ribelle: gli “antifa“, ossia gli antifascisti anarchici, comunisti, libertari e tutta quella galassia del mondo progressista a stelle e strisce che si prende un cartello sulle spalle e fa giri e giri intorno alle piazze delle più grandi città americane.
Noam Chomsky ha ricordato ieri, in una intervista a “il manifesto”, che il problema della contrapposizione tra afroamericani e anglosassoni puritani, irlandesi cattolici e buona borghesia discendente da qualche alto casato aristocratico britannico dell’epoca, è un dilemma secolare: attraversa tutta la storia della formazione degli Stati Uniti fin dalla Guerra di Indipendenza, passando per quella di Secessione.
La repressione cui assistiamo ancora oggi ha – dice il grande linguista americano – almeno 400 anni di vita. Il fenomeno schiavistico, abbandonato dagli inglesi ben prima rispetto agli statunitensi, è stato il fondamento antisociale di una struttura economica che andava oltre i confini degli Stati Confederati d’America guidati da Jefferson Davis.
Mentre nella Toscana del ‘700 ci si pone il problema della legittimità o meno della pena di morte, nel mondo anglosassone si inizia a discutere della possibilità di considerare tutti gli esseri umani uguali fra loro almeno sul piano meramente civile. Ogni discorso che interessa la modificazione dei rapporti civili finisce, inevitabilmente, per aprire varchi e conseguenze sul terreno della lotta di classe perché interviene ineluttabilmente sulla composizione stessa di una società che, se non altro, si amplia in quanto a riconoscimento dei propri aderenti, di coloro che hanno titolo per far parte della cosiddetta “civiltà“.
E’ per questo che, a far data dagli imperi millenari del passato, da quelli europei a quelli asiatici, da quelli delle prime civiltà americane considerate da noi occidentali “selvagge” e da convertire con la spada e la croce agli usi e costumi dei cattolicissimi regni di Spagna, Portogallo, Francia ed Inghilterra, la divisione in classi sociali, le caste e la gerarchia dettata dal potere che deriva dall’impossessamento delle risorse necessarie alla vita di tutti, rimane sempre e comunque la caratteristica costante della cosiddetta “evoluzione” umana.
L’omicidio di George Floyd, in tutta la sua efferata tragicità, è solo l’ultima goccia che ha fatto traboccare un vaso ricolmo, fornito l’accensione di una miccia sociale accorciata dagli effetti del Covid-19: ancora una volta la popolazione nera e, in generale, tutti coloro che fanno fatica giornalmente a sopravvivere nella grande Repubblica Stellata, tutti coloro che sono privi di assistenza sanitaria, che vivono di sussidi, che rappresentano un proletariato urbanizzato che fa da periferia e da centro al tempo stesso di enormi metropoli incandescenti per l’alto tasso di criminalità, di spaccio di droga, di prostituzione, di discriminazioni sessuali, razziali, ideologico-politiche, hanno percepito la marginalità della situazione in cui si trovano.
I sei minuti finali della vita di George Floyd sono divenuti il nuovo manifesto su cui scrivere tutte le parole della collera sottoproletaria, di uno spontaneismo anarchico che include anche chi anarchico non è o non è minimamente politicizzato, ma si unisce alla protesta perché va contro un modello antisociale proposto da una presidenza tracotante, virulenta e sprezzante verso le più elementari regole costituzionali.
Senza un fine politico la protesta che degenera in esclusivo saccheggio, depredazione, incendio di auto, negozi, sedi istituzionali e poliziesche, finisce per parlare a sé stessa e anzi rischia di terrorizzare quella parte di popolazione americana progressista pronta a sostenere le ragioni degli afroamericani e di tutti coloro che patiscono il classismo nordamericano; rischia di mettere il cosiddetto “ceto medio” in mezzo a due fuochi: quello minacciato dalla Casa Bianca e quello dei rivoltosi che – va detto – non sono immuni dalle infiltrazioni di soggetti dediti soltanto allo sfruttamento del momento per esclusivi fini del tutto personali, privi di qualunque ragione sociale o voglia di cambiamento radicale.
Per questo servirebbe un coordinamento politico per una lotta di proporzioni tali alla cui testa, almeno così pare, è difficile che si metta un partito come quello dei Democratici: l’unica differenza evidente con i Repubblicani e con i Trumpiani è sta nell’interpretare l’attuazione del moderno liberismo. Da un lato l’Asinello cerca la via del compromesso tra i conflitti di classe, tra le diatribe internazionali, ma mette comunque l’America al primo posto e non propone certo una politica di egualitarismo o di interdipendenza tra le nazioni nel segno, ad esempio, della ricerca della pace. Difficile ritenere che lo sfidante presidenziale di Trump, Joe Biden, recepisca le ragioni degli antifascisti anarchici, dei comunisti e dei libertari.
Nonostante il Partito Comunista degli USA sia storicamente propenso ad assegnare i suoi consensi ai Democratici nel momento della scelta del nuovo presidente, si tratta più che altro di un ennesimo “voto utile” senza alcuna contropartita in cambio, vista la assoluta mancanza di forza contrattuale sul piano politico che può offrire una forza comunista nel contesto americano. Hanno più potere contrattuale, senza dubbio, i sindacati che riescono a mobilitare in grandi scioperi intere categorie di lavoratori; anche se le notizie in merito vengono abilmente oscurate dai canali mediatici tradizionali e più seguiti.
Rimane il punto richiamato anche da Chomsky nell’intervista citata: la repressione del dissenso che è figlia della mai venuta meno criminalizzazione della vita dei neri d’America e di molte altre minoranze molto più minoranze di quella afroamericana. Del resto, alla Casa Bianca Barack Obama è arrivato, ma una donna mai, un comunista mai, un omosessuale mai, un operaio mai.
Sperare che gli Stati Uniti divengano la Repubblica dei Soviet sarebbe ingeneroso verso la storia sovietica: almeno quella propriamente definibile tale, prima della deriva stalinista. A volte, la fermezza dei pregiudizi nei confronti delle minoranze è tale da diventare, senza alcun bisogno di essere scritta, una legge dettata da una terribile consuetudine; accettata per il semplice fatto che “così si è sempre fatto“.
Le rivolte e le rivoluzioni servono a questo: a stracciare le regole sia scritte sia non scritte, a rendere vuote di significato le tramandate consuetudini di generazione in generazione. Ma l’incendio che divampa negli Stati Uniti d’America oggi è ancora troppo avvampante per poter garantire un logorio di una società cristallizzata attorno a poteri economici enormi che varcano gli oceani, che si lasciano intimorire soltanto se ad essere minacciata è la struttura della società, non soltanto la sovrastruttura politica e rappresentativa.
MARCO SFERINI