La lezione che viene in questi giorni dagli Usa è che si tratta di un cambiamento radicale, che non lascia inalterati i soggetti e i temi delle lotte, ma ci costringe a immaginare una nuova agenda e apre probabilmente scenari inediti, non necessariamente a lieto fine

È possibile imparare qualcosa dagli eventi?

Non ne sono sicuro.

È possibile imparare qualcosa dagli eventi Usa di questo mese?

Non lo so, forse sì, qualcosa, procedendo a tentoni e per analogia di ciclo, più che per affinità di cause dirette.

Comunque proviamoci. E prendendo il caso più difficile, la palude italiana.

Dunque, in Usa non si dà un’alternativa sulla scena politica: Trump è divisivo e suprematista, ma Biden non morde e non si differenzia troppo sulle questioni strutturali che la tensione geopolitica (lo scontro con la Cina) e la crisi Covid-19 ed economica hanno brutalmente messo in risalto. Biden, cioè, ha solo una retorica anti-cinese più soft e ripropone in politica interna tutte le consuete debolezze dem. È l’erede della Clinton, non il vice di Obama. Forse può vincere la competizione elettorale, ma non creare un blocco alternativo al trumpismo. Eppure si è sviluppato in modo imprevisto (ma non imprevedibile) un movimento del tutto autonomo rispetto alla fiacca campagna elettorale, un movimento che si è “improvvisato” intorno a un’agenda indipendente dalle scadenze e dalle rappresentanze istituzionali.

“Improvvisazione” in realtà solo apparente, perché fornita di solide radici in precedenti stagioni di contestazione e in pratiche “tradizionali” di lotta (anche quelle che non piacciono a Saviano), nonché anticipata nella campagna di Sanders e nella composizione dei suoi sostenitori.

Agenda davvero estranea ai temi rimasti in discussione nella campagna elettorale e intrecciata invece alle polemiche sulla gestione della pandemia in modo assai significativo per il suo tener insieme il rispetto delle distanze e delle maschere e l’assembramento selvaggio, praticando il diritto di manifestare e allo stesso tempo contrapponendosi con vigore al negazionismo bianco e repubblicano della pandemia.

A segnare la distanza dal politicismo dei programmi elettorali basterebbe segnalare la mirabile convergenza di molte determinazioni storiche e di un’immediata messa in gioco di dati elementari della vita implicita in due parole d’ordine “Black Lives Matter” e “I can’t breathe”, due richiami alla “nuda vita” e al semplicissimo soffio vitale mediati dalla costruzione nel tempo di uno schieramento e dal dilagare di una operosissima ondata di proteste. Uno scandalo per i difensori dell’eccezionalismo metafisico e per i negazionisti del virus, un vissuto quotidiano per le vittime dello stato d’eccezione permanente degli oppressi e del contagio differenziale per razza e classe di Covid-19 in Usa.

Non aggiungo, per difetto di competenza, elementi di analisi a quelli esaurienti di tanti siti Usa e dei/delle compagn* italian* che ci vivono. Mi limito a rimarcare la discontinuità radicale che si è verificata fra una settimana e l’altra.

Il mondo è cambiato e tutto è avvenuto dal basso. Il movimento ha spiccato un balzo, come pandemia e crisi.

Questa è la lezione che vale per l’India o per l’Italia, cioè in situazioni non paragonabili ma in un ciclo di straordinarietà che smorza le differenze locali.

Però la solidarietà internazionalista scatta e funziona soprattutto quando si innesta su vertenze autoctone, su lotte nazionali equivalenti. Questo spiega l’incisività delle manif parigine, contro la violenza poliziesca usuale nella banlieue ma anche riprendendo una stagione di scadenze solo temporaneamente interrotta dal confinement. Anche nei raduni in varie città italiane spiccava la presenza degli immigrati di seconda generazione e si rivendicava con forza lo ius soli.

In autunno avremo una caduta di dieci punti del Pil, licenziamenti, fine dei magri sussidi con cui finora si è cercato la tamponare la sofferenza. Non sappiano se sullo sfondo ci sarà una seconda ondata di Covid-19. Già adesso la destra tenta di cavalcare la rabbia sociale di alcune categorie del commercio e dei servizi colpite da tre mesi di lockdown, il problema vero sarà chi si farà carico in autunno del disagio di lungo periodo provocato dalla depressione dell’economia reale, le cui avvisaglie sono il collasso dell’Arcelor Mittal a Taranto, il dramma dei cassintegrati e i primi licenziamenti di massa in varie aree.

Possiamo immaginarci l’agenda 2020?

Sì e no.

Sì, nel senso che niente capita all’improvviso e ogni ondata di eventi ha le sue barbe e radici nell’immediato passato: dunque scioperi di fabbrica, di migranti, di donne, antifa militante, esercizio della mutualità e della cura in tempi di pandemia, lotte per il reddito di base, occupazioni sociali, culturale e abitative, abrogazione dei nefandi Decreti Sicurezza e politiche di accoglienza e integrazione per i migranti, cancellazione del caporalato nelle campagne e nelle città. E tutte le reti, i siti, le strutture organizzate che hanno promosso e sostenuto quelle vertenze.

No, nel senso che il momento decisivo sarà imprevisto, un salto di qualità quando il disagio e il dissenso avranno fatto massa critica – oggi come negli anni ’60 lo hanno sperimentato gli Usa e l’Europa. e ieri. Potremmo addirittura ipotizzare che la grande ondata di lotte sprigionatasi in gran parte del mondo dall’America Latina al Libano e Hong Kong alla vigilia di Covid-19 stia diventando, dopo la pausa forzata, uno tsunami, rispondendo a quel ristagno del ciclo reazionario che già si delineava prima che la pandemia ufficializzasse l’interruzione delle catene produttive e distributive della globalizzazione.

I più avveduti cantori del neoliberalismo hanno cominciato a sospettare che tra le conseguenze della pandemia ci sia anche un prepotente ritorno dell’anticapitalismo e che qualcuno vorrebbe cogliere l’occasione per “regolare i conti” una volta per tutte con il capitale e il mercato. Questo è però il campo delle analisi previsionali e e degli esorcismi.

Adesso ci sono segnali di un movimento reale che raddoppia la crisi strutturale e globale del neoliberalismo. Non stanno solo saltando i cardini del sistema ed estendendosi la vulnerabilità dei coinvolti, ma i soggetti vulnerati cominciano ad alzare la voce e farsi valere.

Questo è e sarà il contenuto dell’imprevisto in arrivo.

La rivolta, come il Messia, arriverà come un ladro nella notte. Hos kleptes en nuktí, senza necessità di specialisti delle previsioni, You don’t need a weatherman to know which way the wind blows – due citazioni di ere geologiche fa.

Ma quel contenuto sarò fatto di cose molto immanenti e poco messianiche. Vertiginoso è solo l’atto del risveglio. Poi si tratterà di “defund the police” invece di rallegrarsi, nello stile della sinistra parlamentare nostrana, a ogni incremento di fondi per le inutilmente molteplici Forze dell’Ordine (con regolamentare maiuscola), oppure di garantire un reddito incondizionato d’emergenza per una disoccupazione ormai strutturale invece di misure workfaristiche, oppure di riconoscere lo ius soli invece di insistere con il razzismo di stato. Scegliere fra aumento dei dividendi o aumento dei salari, fra garanzie bancarie alla Fca e Benetton o fondi all’Università e alla ricerca.

Esercizi di respirazione, niente di più. Come fa lo stesso capitalismo durante la Covid-19, rifinanziando la sanità dismessa o sospendendo le clausole di stabilità e l’austerità suicida, solo che a fare la differenza è il fatto che questo effetto viene dal basso, è interruzione di un processo e non sua regolazione precauzionale dall’alto.

Intendiamoci: non si tratta di speculare sulle debolezze del governo Conte, che ha gestito alla bell’e meglio la pandemia (non peggio di altri governi europei e di sicuro meglio di quanto avrebbe fatto la Lega) ma non è in grado di tenere sotto controllo la recessione economica successiva, si tratta di raffigurarsi una situazione completamente diversa in cui i dispositivi neoliberali hanno fatto cilecca e la crisi non può essere risolta neppure riesumando gli espedienti neo-keynesiani e reimmettendo lo stato nel capitale privato.

Neppure è immaginabile che i protagonisti della scena politica attuale siano in grado di agire il futuro. Né quelli al governo, né le destre all’opposizione.

Certo, la sceneggiata continuerà, i sondaggi, le elezioni regionali, gli inciuci, i rodei della stampa e del web. Il M5S si decomporrà, il Pd fingerà di salvare l’Italia, i “personaggetti” faranno la passerella. Ma tutto ciò finirà in secondo piano, come l’esito (pur non trascurabile) della contesa fra Trump e Biden.

Ma neppure reggerà l’attuale configurazione dell’opposizione sociale di sinistra, con tutto il suo meritorio affaccendarsi in progetti di confronto e coordinamento. Bisogna ripartire quasi da zero: ­ certo, c’è la memoria, ci sono le sigle, ci sono le persone che hanno portato sulle spalle le lotte e le idee di questi anni, ma bisogna farsi strada fra le rovine della sinistra: di quella vecchia e anche di buona parte di quella nuova, privilegiando le esperienze generazionali e tematiche meno logore – penso alla consolidata NonUnaDiMeno e ai meno sperimentati WWW. Dovremmo rispondere alle domande che, tutte insieme, ci hanno posto un virus e il collasso parziale della globalizzazione, lo sfilacciamento del sistema politico-costituzionale italiano e la frana di un’economia fondata sul lavoro informale, l’estrattivismo subalterno, l’abbassamento sistematico dei salari e una malsana composizione demografica e lavorativa.

Come si articolerà l’agenda 2020 e quali ne saranno i soggetti attivi? È già qualcosa avvertire che essa si presenterà con forza e che non sarà comparabile a quanto è al momento in corso. Abbiamo poco tempo per chiarirci le idee e, beninteso, altre agende saranno nel frattempo elaborate dai nemici. Quella della destra bavosa è già evidente e, al limite, non così preoccupante, per la pochezza della leadership e il suo isolamento europeo, mentre altri piani di restaurazione si preparano in strati più silenziosi del deep state italiano. Il declinante interregno neoliberale si colloca in uno scontro geopolitico mondiale che non prevede un lieto fine obbligato né in generale né per l’Europa.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: