Sinceramente mi meraviglia molto poco che un governo tratti con un altro governo la vendita di mezzi militari. Fa parte dei rapporti internazionali tra Stati che, per loro intrinseca natura, sono “fatti” anche di militarismo, di bellicismo: appunto, di navi da guerra o roba simile.
Quello che, invece, fa meraviglia è oggettivamente l’incongruenza tra la mancata verità e giustizia sul caso di Giulio Regeni che, da quattro anni a questa parte, ogni tanto riemerge dall’oblio grazie alla lotta della famiglia e di chi se ne è particolarmente preso a cuore perché, per laica missione, difende i diritti umani in tutto il mondo.
Non certo per molto meno, forse per qualche problematica in più, visto che si parlava di missioni militari all’estero nel periodo di svolgimento di nuove guerre imperialiste da parte americana e inglese, i governi un tempo entravano in crisi: nel 2006, sul rifinanziamento da assegnare proprio ad una queste imprese di affiancamento dei contingenti a stelle e strisce in Afghanistan, Rifondazione Comunista faceva ballare il governo Prodi sul vulcano.
I numeri erano diversi e le maggioranze pure: c’era Prodi, c’era L’Unione e al Senato tutto si reggeva su uno, due voti a seconda dei casi. Il potere di benevolo ricatto politico, come leva per aumentare lo spessore della contrattualità in seno alla maggioranza, era proprio il risicato numero di scarto tra la parte governativa del Senato e le opposizioni della Casa delle Libertà berlusconiane.
Ma, almeno, tra mal di pancia, forzature e numeri non certo enormi, si tentava di bloccare evidenti politiche di aperta sottomissione all’alleato americano, in ossequio alla presenza ormai cinquantennale della NATO in Italia e in mezza Europa.
Giulio Regeni non è una guerra, era “soltanto” un giovane ricercatore di 28 anni, rapito, sparito e ucciso in circostante tutte da chiarire, ma dove tutto si sa già anche se si sa pochissimo. Pasolinianamente, possiamo dire anche noi: “Io so, ma non ho le prove“. Perché noi tutti conosciamo la natura del regime che governa l’Egitto: non passa giorno che qualche critico, qualche dissidente nei confronti del governo venga represso più o meno brutalmente. Carcere, sparizioni misteriose, chiusure di giornali, di blog, di siti web. Tutto può accadere se non sostieni il generale Al Sisi.
Come ai tempi di Pasolini, anche qui risuona quell’ “Io so…“, riferito ad un colpo di Stato, ad un golpe. E’ un mantenersi del potere attraverso azioni completamente illegali, infrangendo ogni diritto internazionale, ogni carta che tutela la persona umana in quanto tale, che non ha rispetto se non per chi si mostra disposto a servire il regime. Amnesty International è impegnata da sempre nella denuncia di questi crimini, da decenni. L’Egitto moderno, purtroppo, è un sorvegliato speciale perché i casi di Regeni o di Zaky sono cronaca veramente quotidiana nel grande paese dei faraoni.
Ma l’Italia, che sa, decide comunque di vendere a questo paese delle navi, degli armamenti da guerra, togliendo qualunque ipoteca sulla verità per Giulio e qualunque garanzia di rilascio per Zaky. Per carità di patria! Non si tratta di una responsabilità attribuibile solamente all’attuale esecutivo: si può andare indietro nel tempo almeno di una decina di anni. Ma, se le colpe dei padri non necessariamente debbono ricadere sui figli, è pur vero che chi eredita un certo modo di fare politica estera, dovrebbe, secondo i suoi princìpi e il suo programma, magari cambiare la rotta, rompere con la tradizione e rivoluzionare anche i rapporti internazionali del nostro Paese.
Le cronache ci dicono che il PD sarebbe diviso in merito, ma intanto in Parlamento i ministri sostengono proprio questo punto: gli affari sono affari e vanno tenuti separati dalla vicenda tanto di Giulio Regeni quanto di Zaky. Come se esistesse un Egitto per la vendita di due navi della marina italiana e un Egitto per la verità e la giustizia su un ragazzo brutalmente assassinato e uno che viene continuamente rinviato in carcere nell’attesa di un rinvio a giudizio su non si sa bene quale delitto abbia commesso. Probabilmente quello di lesa maestà nei confronti del generale golpista.
Alto e Basso Egitto, dunque. Come al tempo dei faraoni, come al tempo degli Hyksos: splendori monumentali da un lato e schiavismo, torture e degrado disumano dall’altro. Sembra che la storia di questa grande nazione, di questo grande popolo sia destinata ad essere fatta nel segno di una dualità che prova a far convivere l’orrore del potere con la bellezza dei luoghi, con l’incanto delle civiltà che, nonostante tutto, si susseguono.
Se nel 2006 Rifondazione Comunista aveva la forza, la capacità e la determinazione di farsi valere in Parlamento sul rifinanziamento delle missioni militari, provando a modificare i rapporti di forza politici (soprattutto interni alla maggioranza unionista prodiana), oggi non pare che si stia formando un fronte di netta opposizione alla vendita di queste due navi all’Egitto da parte della sinistra che sta, come piccola appendice che non minaccia alcuna trasformazione in pericolosa peritonite politica, sul fronte della critica propositiva ma che dovrebbe invece agire praticamente.
Sono apprezzabili le dichiarazioni di Fratoianni nel merito della questione, ma rimarranno lettera morta. Del resto è il destino di una sinistra di governo che sta in maggioranza dentro ad un contesto globale che non è progressista oggi e che già rischiava di esserlo molto poco ieri con L’Unione che andava da Mastella fino a Bertinotti.
Se prima per formare un governo era, diciamo così…, sufficiente unire il centro e la sinistra moderata più quei rompiscatole dei comunisti di Rifondazione, oggi, mutatis mutandis, non solo non esiste più un centro di tal fatta ma nemmeno esiste una sinistra che sia in grado di fare da contraltare al moderatismo di quella che si continua a definire tale, che la “rivoluzione” di Zingaretti avrebbe dovuto portare ad essere nuovamente identificabile come sinistra magari socialdemocratica, dopo l’esperienza renziana.
I meno moderati di sinistra, Sinistra Italiana per intenderci, devono a loro volta trattare con altri moderati. E voi capite bene che, anche per un semplice gioco semantico, moderati che moderano altri moderati è un assurdo per qualunque concorso di logica, di tattica o di strategia politica.
Pericolosi estremisti come quelli di Rifondazione Comunista un tempo, trinariciuti sedentari appollaiatisi sulla convinzione che il capitalismo non si riformabile ma solo abbattibile, potevano anche provare a fronteggiare le spinte moderate de L’Unione. Ma Sinistra Italiana, Liberi e Uguali nel suo insieme, come possono far valere una diversità che, alla fin fine, non hanno nei confronti del PD zingarettiano?
Potrebbero essere tranquillamente delle correnti interne al PD medesimo. Nessuno, purtroppo, si accorgerebbe della differenza.
Non aiuta affatto, certo, l’abbandono di precisi punti di riferimento politico e ideale: non basta dirsi di sinistra per essere di sinistra. Così come non basta dirsi comunisti per essere comunisti.
Oggi, per tornare ad essere di sinistra e comunisti bisogna rompere con lo schema che ci parla di una utilità sociale nella collocazione politica di una maggioranza di governo che non abolisce i decreti-Salvini, che magari si inginocchia in Parlamento, simbolicamente, per Goerge Floyd, e che poi deve deglutire il boccone amaro delle due navi italiane vendute all’Egitto di Al Sisi.
Sono tutti questi compromessi che nel tempo hanno reso la sinistra priva di significato, perché in-credibile, visto che le rimane impossibile rendere credibili i suoi intendimenti per via del fatto che non ha una base sociale e numericamente politica su cui far poggiare la leva per cambiare gli assetti parlamentari su questo o quel provvedimento e, così facendo, si uniforma al tutto e diventa invisibile agli occhi della società.
MARCO SFERINI
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