Alessandra Ciattini
Nel 1917 qualcuno scriveva La catastrofe imminente…, ma forse l’espressione poteva ben riferirsi a quel momento storico, ora che stiamo per uscire dalla pandemia, nonostante la situazione critica di Paesi come gli Stati Uniti e il Brasile, e possiamo forse sentirci più tranquilli; ma le cose stanno veramente così? In effetti, almeno qui nel Lazio dove scrivo, la gente si muove tranquilla ed ha ricominciato il consueto consumismo, magari più attento.
Analizzerò brevemente alcuni aspetti delle ipotetiche conseguenze della pandemia che si è rovesciata sui paesi capitalistici avanzati e che per questo è stata sempre sulla cresta dell’onda, nonostante la persistenza di epidemie “minori” (per la nostra ottica) in altri continenti.
Qualcuno si ricorderà che la cosa è iniziata con accuse reciproche da parte di Cina e Stati Uniti a proposito della diffusione del virus, della mancanza di tempestività etc., tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità ha dato vita ad un’indagine “indipendente” sulle cause, sulle misure adottate, sulla diffusione delle informazioni.
Nel retroscena è stata collocata l’ipotesi dell’arma biologica, anche se questo non ci deve far dimenticare che le grandi potenze hanno numerosi laboratori proprio per produrre questo genere di agenti patogeni subdoli e sostanzialmente a buon mercato.
Ovviamente non si fa più menzione del fatto che è proprio la struttura dell’industria agroalimentare e dell’allevamento, connessa alla devastazione della natura, alle rapide forme di inurbamento e di inquinamento, che sta proprio alla base del famoso “salto di specie” attraverso cui un virus, ubicato in un corpo animale, si trasforma ed attacca l’uomo, dando luogo ai fenomeni pandemici a causa degli altri aspetti della globalizzazione (rapidità di spostamenti): non se ne fa menzione, appunto, proprio perché si sarebbe messa in crisi la struttura capitalistica stessa.
Infatti, per quanto ne so, nessun governo ha ipotizzato una qualche misura per far fronte a questi aspetti, i quali, non risolti, genereranno costantemente nuove forme di pandemie. Si aspetta il vaccino e ben venga ma ciò costituisce solo una toppa per continuare a distruggere la natura e i suoi abitanti, e non perché un generico Uomo osa porsi al di sopra di Dio e delle altre creature, ma perché un’azienda transazionale deve ogni anno distribuire i suoi dividendi tra gli azionisti. È questo dunque un aspetto preoccupante di difficile risoluzione anche se conosciamo per nome e cognome i responsabili i quali, proprio nel settore alimentare, in quello farmaceutico e della logistica, non hanno smesso di accumulare denaro anche in questa fase, speculando persino sui prezzi dei loro prodotti.
Se seguiamo i due biologi statunitensi Richard Lewins e Richard Lewontin scopriamo che le scienze, non sempre ma talvolta sì, non sono neutrali. Per esempio, se è vero che la velocità della luce è la stessa sotto il capitalismo che sotto il socialismo, non è vero che la tubercolosi derivi solo da un bacillo senza tenere conto delle condizioni dell’individuo sfruttato dalla fabbrica capitalistica. Naturalmente al capitalista fa più comodo parlare solo di bacilli, di virus, di farmaci e di vaccini, anche perché da essi trae denaro, e non delle condizioni di vita del lavoratore, il cui corpo è indebolito da alimenti di scarsa qualità, dalla mancanza di igiene e di un adeguato riposo. Infatti, intervenire sulle condizioni di lavoro e di vita delle masse popolari sarebbe un costo che non a caso i proprietari delle imprese scaricano sulla collettività.
Questi interessanti temi vengono trattati in un libro El biólogo dialético (1985, non so se tradotto in italiano) dei su menzionati autori, nel quale si sostiene che, contro la prospettiva riduzionista, per la quale l’organismo è inserito in un ambiente dato, gli organismi selezionano attivamente gli ambienti, modificandoli con le loro attività e dando risposta alle trasformazioni da loro stessi prodotte o agli altri cambiamenti fisico-chimici che possono verificarsi. In questa prospettiva, tutto ciò che avviene è dato dal rapporto dialettico tra l’uomo e l’ambiente, inteso come suo prolungamento, ed entrambi sono al contempo agenti e agiti, come prevede la concezione dialettica centrale nel marxismo e alla quale i due studiosi si richiamano.
Che questa sia la prospettiva corretta è anche dimostrato dal fatto che non è affatto vero che siamo tutti uguali dinanzi ai possibili attacchi del virus e che solo la giovane età ci protegge maggiormente. Sono solo le condizioni sociali, ambientali, lavorative, dalle quali dipende la nostra salute, che ci spiegano perché negli Stati Uniti, il cui profondo sostrato razzista oggi nessuno può negare, gli afroamericani stanno morendo per COVID-19 ad un ritmo 2 o 4 volte superiore dei bianchi o perché nelle riserve indiane i casi di contagio e di morte sono più alti che altrove. Inoltre, proprio per le stesse ragioni, cui bisogna aggiungere la malnutrizione, i Paesi del terzo Mondo (Africa, Asia sud orientale, America Latina) sono colpiti da malattie da noi ormai rare (tubercolosi), ma che provocano più decessi del coronavirus.
Per chi li volesse prendere in considerazione, questi sono elementi che, senza una trasformazione radicale delle relazioni tra i paesi capitalistici avanzati e quelli sempre più vessati ed impoveriti, indicati talvolta come il Sud globale, determineranno il fatto che in questi ultimi Paesi si configureranno scenari apocalittici, trasformandoli in “terre di nessuno”, di cui i soliti noti si riapproprieranno direttamente, fomentando lo stato di anarchia e di guerra di tutti contro tutti presenti per esempio in Libia e in Somalia.
È ben noto che la gravissima crisi sanitaria, che ha colpito le fasce più deboli della popolazione mondiale (lavoratori precari e quelli che hanno dovuto continuare a lavorare, abitatori di affollati quartieri urbani marginali, personale sanitario, anziani relegati dal mondo in attesa di morire), si è innestata in una altrettanto grave crisi economica e sociale, in cui il sistema capitalistico si trascina da decenni e da cui vuole uscire solo salvando se stesso a tutti i costi.
Infatti, non è un caso che capitalisti e tecnocrati (v. per esempio Vittorio Colao) dipingano la crisi come un’opportunità da cogliere al volo per poter finalmente imporre quelle misure che metteranno definitivamente in ginocchio (in senso letterale) coloro che per sopravvivere hanno la sola possibilità di vendere la loro forza-lavoro a prezzi sempre più bassi dato lo straordinario incremento della disoccupazione. Si pensi, per esempio che nell’area OCSE, nel mese di aprile, i disoccupati sono arrivati alla cifra di circa 55 milioni, cui poi si aggiungono gli inattivi (coloro che non cercano lavoro), ma che sempre disoccupati sono.
Naturalmente non ho qui lo spazio per tratteggiare il nero futuro che si sta delineando, per cui mi limito ad alcuni aspetti essenziali.
Sappiamo che le politiche neoliberali a livello internazionale hanno teso a cancellare le tutele dei lavoratori, in questo purtroppo sostenuti dallo straordinario sviluppo commerciale della Cina, che ha messo sul mercato merci a costi bassissimi, rendendo non competitiva la produzione di certi prodotti anche altamente tecnologici nei paesi del tardo capitalismo.
Come denuncia Emiliano Brancaccio, si vuole persistere in questa politica economica, giacché in Italia la Confindustria ed autorevoli esponenti del governo (ma ovunque il padronato vuole la stessa cosa) evocano ancora la famigerata “flessibilità”, che comporta inevitabilmente l’abbassamento dei salari e produce la deflazione. Sulla base di un documentatissimo studio, Brancaccio dimostra che l’88% delle ricerche sulla precarizzazione attestano che questa misura non costituisce uno stimolo ad assumere i lavoratori e che, quindi, non determina l’abbassamento della disoccupazione. Come anche istituzioni internazionali hanno dimostrato, la deregolamentazione – continua l’economista napoletano – rende “docili” i lavoratori [1] ed accresce le disuguaglianze sociali. In tale contesto si produce l’abbassamento dei prezzi, data anche la minore capacità acquisitiva dei lavoratori e quindi la minore richiesta di beni e servizi, la cui produzione risulta sovrabbondante e pertanto in gran parte invenduta.
In una rapida intervista, risalente al passato 5 giugno, Brancaccio esamina le ricette per la crisi degli imprenditori che fanno politica come Trump, Berlusconi, Piñera (ce ne sono ovunque), da lui definiti homo oeconomicus politicus, i quali a suo parere ritengono in maniera semplicistica che le misure valide a risanare un’impresa siano anche opportune per rilanciare l’economia nazionale. Ideologia che egli giustamente ritiene erronea, giacché i meccanismi macroeconomici sono molto più complessi di quelli che guidano il funzionamento di una singola impresa. Purtroppo, questa è la linea adottata da questi personaggi, in particolare dal nuovo Presidente della Confindustria Carlo Bonomi, il quale esige il passaggio dalla contrattazione nazionale a quella aziendale [2], sempre con l’obiettivo della diminuzione salariale. Non sembrerebbe, dunque, preoccuparsi di quello che accadrebbe, dopo decenni di precarizzazione e di impoverimento dei lavoratori, ai danni della domanda, il cui declino provocherebbe fallimenti con conseguenti concentrazioni, la cosiddetta deflazione da debiti con il successivo aumento dei tassi di interesse al netto dell’inflazione e dei rimborsi dei prestiti in rapporto ai redditi.
Quanto poi agli “aiuti” europei – ricordiamo che il governatore di Bankitalia Visco ha dichiarato che “non potranno mai essere gratuiti” – Brancaccio definisce “mostruosa” questa crisi caratterizzata da un crollo della produzione e del reddito doppio rispetto a quella del 2007 e sostiene che non potrà essere risolta con lo strumento del prestito, giacché le stesse banche in questa situazione sono riluttanti ad erogarli e non si fidano nemmeno troppo delle garanzie offerte dallo Stato.
Sempre l’economista napoletano sostiene che questa esplosione di bancarotte, di fallimenti obbligherà gli Stati ad intervenire avviando forme di statalizzazione, simili a quelle avvenute con la Depressione degli anni ‘30, ma che queste forme non avranno un colore socialista, perché avranno lo scopo scontato di “socializzare le perdite dei capitalisti”. Infatti, gli Stati, i cui leader “populisti” hanno in realtà un cuore liberista, acquisteranno banche e aziende in crisi ad un prezzo maggiorato per regalarle poi a proprietari privati, trattenendo i primi solo i pezzi non profittevoli delle imprese.
In definitiva, se l’analisi è corretta, quello che ci aspetta è un “capitalismo assistenziale per soli ricchi” e non il “socialismo pandemico” evocato da chi ha scoperto la solidarietà dopo decenni di brutali competizioni.
È abbastanza chiaro che uno scenario del genere provoca e provocherà instabilità politica, proteste, esplosioni di rabbia, ma anche in questo caso la pandemia aiuterà i dominatori del mondo a trovare la soluzione adeguata. Infatti, le misure di confinamento hanno fino ad un certo punto limitato le manifestazioni di protesta, svoltesi nei vari continenti, contrastate in maniera fortemente repressiva e con migliaia di arresti. Inoltre, le nuove tecnologie, impiegate sempre per “salvaguardare” la popolazione dal contagio, prefigurano forme di controllo sociale mai finora immaginate, come il cyber patrullaje delle reti sociali implementato dal governo argentino per essere costantemente informato dell’umore della popolazione.
Sapremo contrastare tale brutale ristrutturazione capitalistica, recuperando spazi concreti di opposizione?
Note:
[1] Ricordo che “precario” viene dal verbo latino precor che vuol dire supplicare, implorare.
[2] In Bolivia il governo de facto sostiene una riforma del diritto del lavoro, ritenuta incostituzionale, che prevede all’articolo 20 la riduzione fino al 50% della giornata lavorativa per motivi di forza maggiore o fortuiti, con la conseguente riduzione del salario.
Bibliografia:
Rossi C., Reseña de El biólogo dialéctico, de Levins y Lewontin
13/06/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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