L’America del Sud sta indirizzandosi verso una “nuova normalità”, oppure la pandemia del Covid-19 non è che una tragica parentesi nella sua “normalità di sempre”? Vi saranno effetti sociopolitici di grande portata o solo conseguenze politiche di breve termine? 

È ancora troppo presto per poter dare delle risposte, ma un colpo d’occhio sulla regione fa vedere come la lotta contro la pandemia sia condizionata dai problemi e dalle difficoltà di sempre per poter essere efficace: sistemi sanitari degradati e molto diversi da un Paese all’altro, fortissima presenza del lavoro informale, sovrappopolazione, insufficienti capacità di intervento statale, mancanza di risposte a livello regionale e crescente mancanza di coordinamento a livello internazionale. Secondo i responsabili dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), l’America latina è sul punto di diventare un nuovo epicentro della pandemia.

In risposta al Covid-19 i governi hanno fatto ricorso al confinamento (con dosi variabili di militarizzazione), all’assistenza sociale (con, in certi casi, un reddito di base temporaneo), agli aiuti alle imprese e al commercio, e a sforzi improvvisati per riparare gli ospedali e i luoghi di confinamento per i casi positivi.

A differenza dell’Europa, si potrebbe dire che l’alternativa sudamericana non è esattamente quella fra salute ed economia, bensì quella fra salute ed esplosioni sociali. Sta profilandosi uno scenario ancora peggiore di quello che ha preceduto l’epidemia: la Commissione economica per l’America latina e il Caribe (CEPALC) prevede una contrazione del PIL regionale del 5,39 %, e il Fondo monetario internazionale parla di un nuovo “decennio perduto”. Inoltre, la conseguenza diretta è un forte aumento della disoccupazione e delle ineguaglianze sociali [1]. A complicare il quadro: la maggior parte dei presidenti è ben lontana dal disporre di solide basi sociali per far fronte a nuovi cicli di instabilità politica che, almeno fino a ora, la pandemia aveva bloccato o rimandato, come è il caso del Cile, della Bolivia e della Colombia.

Le periferie delle grandi città sono territori potenzialmente esplosivi. In questi densi spazi popolari l’invito a “restare in casa” si scontra con la realtà quotidiana: non solo perché le famiglie allargate vivono in condizioni di sovraffollamento e hanno bisogno di procurarsi un reddito, ma anche perché molte delle cose essenziali che le classi medie possono fare in casa, come consumare i pasti o disporre dell’acqua, per mancanza di risorse devono devono essere fatte in spazi comuni. È per questi motivi che, benché tardivamente, nel caso delle bidonville in Argentina il “restate in casa” è stato cambiato in un “restate nel quartiere”: una sorta di quarantena comunitaria non pianificata, mentre ci si sforzava di intensificare i test d’emergenza.

«L’isolamento sociale nelle favelas non è praticabile, sia dal punto di vista delle abitazioni che del modo di vita che, contrariamente a quello delle classi medie e superiori, tende a espandere la casa al di là delle sue mura», ha dichiarato la Federação de Órgãos para Assistência Social e Educacional, una ONG brasiliana [2]. Uno dei problemi del confinamento in America latina è appunto la sua mancanza di adattamento alla realtà.

Dato che il lavoro informale riguarda circa la metà dei lavoratori, le misure di confinamento sono diventate, de facto, flessibili. Al mercato all’ingrosso della frutta di Lima, in Perù, circa l’89 % dei commercianti è risultato positivo. In Bolivia e in Cile manifestazioni si sono svolte nei quartieri popolari, e in Ecuador i dimostranti hanno minacciato un “nuovo ottobre”, con riferimento alle violente proteste del 2019 contro l’aumento del prezzo del carburante. In Cile, molti prevedono una “tragedia” se il virus arriverà alle colline della città di Valparaiso, uno dei nuovi punti caldi del Covid-19.

«Quando la pandemia di coronavirus arriverà nei quartieri popolari delle grandi città latinoamericane», ha scritto il giornalista uruguaiano Raúl Zibechi, che mentre scriviamo queste righe è già stato ricoverato in ospedale, «penetrerà per la prima volta in un mondo sconosciuto di profonda povertà, di fame cronica, di insalubri alloggi senz’acqua e di disoccupazione strutturale, in settori già provati dalla dengue e dalla tubercolosi». Per il momento, ignoriamo ancora quali saranno i risultati, e le loro misure, ottenuti dalle politiche pubbliche, cosa che – come si è visto nel caso dell’Argentina – ha scatenato l’allarme rosso negli uffici di chi deve prendere le decisioni politiche.

Il maggior consumo non è bastato. Benché sia interessante considerare la crisi attuale dal punto di vista del clivage progressisti/neoliberali, la realtà, come capita sovente, “è un po’ più complicata”. È indubbio che la “svolta a sinistra” abbia comportato una riduzione significativa della povertà – soprattutto nel primo quinquennio degli anni Duemila -, in modo particolare grazie agli aumenti del salario minimo e alle politiche di trasferimenti diretti del reddito. Ma queste politiche hanno coinciso non solo con il boom delle commodities, ma spesso non sono sfociate in miglioramenti delle capacità degli Stati e dei sistemi di protezione sociale. Nel caso del Venezuela, il sistema sanitario è precipitato in una profonda crisi, nel quadro di un più generale declino del modello economico e sociale bolivariano [3]. In Bolivia – dove la gestione macroeconomica era agli antipodi di quella venezuelana e dove si arrivava addirittura a parlare di “miracolo economico”, con un tasso medio di crescita annua del 5 % – la sanità era uno dei grandi problemi non risolti dal governo di Evo Morales. Solo alla fine del suo mandato – conclusosi brutalmente con una crisi politica e un colpo di Stato de facto – il presidente boliviano, sottoposto alla pressione sociale, aveva tentato di riformare, in modo disordinato e affrettato, l’assistenza sociale.

Il Brasile, altro esempio di “inclusione sociale” durante i governi del Partito dei lavoratori (PT), mostra anch’esso i limiti, in termini di Stato-provvidenza, del modello adottato. Lena Lavinas, esperta in protezione sociale, così riassume la situazione: «Nel caso del Brasile, la politica sociale è servita per consolidare il modello di consumo social-sviluppista, che consisteva nel promuovere la transizione verso una società di consumi di massa mediante l’accesso al sistema finanziario (credito). La novità di questo modello di sviluppo sociale sta nel fatto che ha instaurato la logica della finanziarizzazione nel complesso del sistema di protezione sociale, sia mediante l’accesso al mercato del credito, sia mediante l’espansione dei piani sanitari privati, del credito per l’educazione, eccetera. Sono stati anni di promozione d’una strategia d’inclusione finanziaria aggressiva [4]. Nel frattempo, il sistema sanitario pubblico, che per decenni era stato sotto finanziato, è collassato.

In quasi tutti i casi, il ciclo progressista ha incoraggiato l’adozione di un modello di accesso ai consumi più democratico piuttosto che la costruzione di solidi sistemi di protezione sociale e di beni pubblici (come i trasporti, la sanità o l’abitazione). Un buon numero di questi deficit è oggi aggravato da contesti post-populisti, in cui in Paesi come il Brasile e la Bolivia si sono affermati governi a connotazione restauratrice e progetti reazionari. In altri casi, questi effetti si sono avuti con minore intensità, come durante l’interregno di Mauricio Macri (2015-2019) in Argentina.

Oggi nel mondo intero assistiamo a una sorta di «socialismo improvvisato», prodotto dal «nervosismo dei governi», secondo quanto scrive, non senza ironia, John Keane [5]. Ciò ha spinto la maggior parte dei governi, in buona o mala fede, ad allentare le ortodossie di bilancio e a “mettere soldi” nelle tasche di imprenditori e cittadini. Se Alberto Fernández [presidente dell’Argentina dal 10 dicembre 2019] ha optato per un versamento unico di 10.000 pesos [150 dollari] a favore dei lavoratori informali e di coloro che sono esenti dalle imposte dirette, Jair Bolsonaro ha approvato un reddito di base di 600 reais [un po’ più di 100 dollari] per i lavoratori informali, per un periodo di tre mesi. «Ciò fornirà loro i mezzi per far fronte alla prima ondata dell’impatto, quella della sanità, nei prossimi tre mesi. Ma c’è un’altra ondata che ci minaccia, quella della dislocazione dell’economia», ha dichiarato il ministro brasiliano dell’Economia Paulo Guedes, un discepolo dei Chicago Boys che ha lavorato con i consiglieri di Augusto Pinochet negli anni Settanta e che oggi, sottoposto alle pressioni della pandemia e dell’esercito, è più disponibile ad aprire i rubinetti. Quanto al Perù, ha destinato dal 9 al 12 % del suo PIL per l’aiuto alle persone che hanno perso il lavoro (o la loro attività indipendente) e alle imprese rimaste senza reddito in seguito all’emergenza sanitaria, ciò che non ha comunque impedito al Paese di registrare circa 4000 morti e di assistere alla rapida propagazione del virus [6].

E la politica? Alcune delle conseguenze della pandemia sono state quelle di far scendere in strada i manifestanti, rinviare le scadenze elettorali e, a seconda dei casi, di rendere la scena politica meno o più polarizzata. Nel caso del Cile, la pandemia ha dato ossigeno a un Sebastián Piñera che aveva vissuto il suo mandato come un calvario a causa d’una insubordinazione sociale che non poteva essere soffocata. Uno dei risultati di questa insubordinazione era stato quello di fissare una data per un referendum costituzionale destinato a sostituire la “Magna Carta” della dittatura di Pinochet. Ma se all’inizio il Cile è apparso come un esempio positivo, che legittimava i confinamenti «strategici» ed «elastici» del governo, compresa l’occupazione delle strade da parte dei militari, l’aggravarsi della situazione ha indotto Piñera a tornare sui propri passi e a decretare un confinamento più severo. Si sono potuti anche constatare i limiti d’una strategia, quella argentina, che intendeva combattere il coronavirus senza confinamenti e con numerosi test: coloro che da questa parte delle Ande tessevano gli elogi della politica cilena hanno dovuto rapidamente convertirsi agli elogi di quella uruguaiana.

Anche la Bolivia ha registrato il “congelamento” di una situazione politica che evolveva secondo ritmi frenetici dopo il rovesciamento di Evo Morales nel novembre scorso. La presidentessa Jeanine Áñez deve fare i conti con l’erosione della sua popolarità a causa della sua gestione della pandemia, che colpisce più fortemente la parte orientale del Paese, la stessa dalla quale essa proviene. Il caso di una sovrafatturazione dei respiratori ha provocato, in tempi record, le dimissioni e l’arresto del ministro della Sanità, Marcelo Navajas, mettendo in pericolo un governo non espressione di un voto popolare. Con circa il 30 % dei voti, l’ex ministro dell’Economia del governo di Evo Morales, Luis Arce Catacora [candidato alla presidenza], cerca di avvantaggiarsi del malcontento, mentre il calendario elettorale è ancora in discussione [la data per ora fissata è per la fine di settembre]. Nell’assenza di un clima sociale favorevole al ritorno dell’ex presidente, in esilio a Buenos Aires, il Movimento al socialismo (MAS) si sforzerà di valorizzare la propria gestione dell’economia e di ribaltare quello che era già percepito come l’esaurimento d’una forma d’esercizio del potere durato un quindicennio, fino alla crisi del novembre scorso.

Nel frattempo, il Brasile spiega in gran parte il clima regionale scoraggiante. Un tempo motore dell’integrazione sudamericana, oggi non è che un elefante in un negozio di cristalli, governato da un presidente negazionista che pone in pericolo l’esistenza stessa della repubblica. Jair Bolsonaro è alle prese con tre crisi – politica, economica e sanitaria – fra loro intrecciate: complotti politici e giudiziari dopo l’uscita dal governo del giudice vedette Sérgio Moro; una caduta del PIL stimata del 5 % [7]; e per quanto riguarda il coronavirus cifre che si aggirano sui 400.000 contagi accertati e 25.000 morti denunciano una gestione che, come ha sottolineato André Singer, si basa su una «radicalizzazione permanente». Con un terzo circa del sostegno popolare [secondo i sondaggi], Bolsonaro dirige il suo governo con la logica della “guerra culturale”. La sua ideologia della lotta alla pandemia l’ha spinto a ironizzare, fra mille risate, sul fatto che «la destra assume la clorochina e la sinistra la Tubaïna [bevanda a base di guaraná], facendo un paragone fra il medicamento promosso dall’esperto francese in malattie infettive Didier Raoult – che sino a ora ha prodotto risultati molto discutibili – e una bevanda popolare di São Paulo. Sotto la superficie si possono intravvedere una crescente influenza dei militari e la possibilità di una deriva autoritaria di un governo che in America latina è quello che più si avvicina alla «destra alternativa» [la alt-right di Steve Bannon].

Il caso del Venezuela è, come al solito, del tutto particolare. Probabilmente proprio a causa del suo precedente isolamento internazionale, il Paese non è ancora stato interessato seriamente dalla pandemia. La sua “nuova normalità” è fatta di penuria di combustibile (il contrabbando ha invertito la sua direzione: ora si effettua dalla Colombia verso il Venezuela), di una dollarizzazione de facto dell’economia e di nuove avventure dell’opposizione, come per esempio il tentativo di «sbarco», il 3 e 4 maggio scorsi: una pericolosa operazione organizzata da una società di Miami con dei transfughi delle forze armate bolivariane, il cui esito potrebbe indebolire ancor più la leadership di Juan Guaidó, il sedicente «presidente in carica» [8].

In uno scenario di frammentazione e d’incertezza, l’America del Sud deve fare i conti con una assenza di leadership dotate di aspirazioni regionali e provviste d’una visione politica rivolta al futuro. In un mondo che, in un modo o nell’altro, dovrà discutere dei mezzi e dei modi per adattarsi al contesto post-pandemico, l’esaurirsi della “svolta a sinistra” e il fallimento delle destre neoliberali o “alternative” faranno sì, forse, che la “nuova normalità” sudamericana si ridurrà a risposte circostanziali e improvvisate a una sommatoria di crisi, con rinnovati rischi di instabilità sociale e politica, e di “presidenti-pompieri” che si sforzeranno di domare gli incendi. Molto dipenderà dall’evoluzione che avrà nella nostra regione la “grande peste” mondiale, cosa che, come abbiamo visto, dipende da molteplici variabili e un po’ anche dalla fortuna.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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