Il piano elaborato dal comitato di esperti voluto dal governo non presenta altro che le vecchie ricette del neoliberalismo, soprattutto per il mondo accademico. Serve allora un’esplosione di lotte nuove e radicali per sbarazzarsi di questo sistema

di Davide Filippi e Paolo Scanga

Non sono passati che pochi mesi da quando il dibattito pubblico e politico era focalizzato sul concedere o meno lo scudo penale ad ArcelorMittal, la più importante multinazionale della produzione dell’acciaio, proprietaria dell’Ilva di Taranto. L’azienda sosteneva che non ci sarebbero state le condizioni di un finanziamento qualora non le fosse stata concessa l’immunità penale. Nonostante questo obbrobrio giuridico sia stato approvato dalle Camere, poco meno di sei mesi dopo l’azienda annuncia 5mila esuberi.

Si tratta di una storia, assai nota, che racconta come funziona la forma impresa neoliberale nel nostro Paese: fabbrica in Italia ma sede fiscale in Olanda o in altri paradisi fiscali, evasione calcolabile in oltre cento miliardi annui, profitti fatti con continuo ribasso del costo del lavoro, utilizzo del lavoro nero e con tratti schiavistici, investimenti per l’innovazione praticamente nulli. Potremmo continuare, ma pensiamo sia sufficiente.

Cosa sarebbe l’impresa, in Italia, in assenza dello Stato Pantalone, refugium peccatorum degli imprenditori?

Cosa potrebbe l’imprenditoria se «la parte quantitativamente più rilevante del Decreto Rilancio», citando Gualtieri, non fosse rivolta a loro? Domande retoriche, lo sappiamo. È la storia dell’insuccesso del neoliberalismo, di una political economy che in questi anni ha mostrato tutta la sua brutalità attraverso la produzione di enormi disparità economiche e sociali.

L’insistenza di Bonomi, ma non solo, sull’esistenza di una narrazione «anti-industriale» (che si sovrappone, in termini razzisti e neocoloniali, a quella «anti-lombarda») è il canto del cigno della classe dirigente di questo Paese. Hanno fallito, sanno che la responsabilità della catastrofe in cui siamo precipitati e della recessione che sta si staglia all’orizzonte è loro, e di chi, con loro, ha insistito sulle virtù del mercato. Nonostante questo hanno ancora intenzione di farcela pagare.

In questo quadro si situa il Piano Colao, che prende il nome dell’arrembante ex amministratore delegato di Vodafone. Non è un caso se il primo punto di questo progetto antico sia «escludere contagio Covid da responsabilità penale» del datore di lavoro. La violenza padronale non prova vergogna. Nonostante migliaia di persone stessero morendo per Covid-19 nelle province di Bergamo e Brescia, migliaia di aziende sono rimaste aperte in deroga e in assenza controlli da parte delle prefetture. Ora senza scudo penale non si può investire. Ricorda qualcosa? Sarebbe fondamentale aprire un dibattito pubblico sul significato di responsabilità d’impresa, quando cardini dello diritto, penale e civile, vengono meno.

(foto di Varun Kulkarni da Pixabay)

Ma è sulla questione Università e ricerca, e sulla formazione in generale, che vogliamo concentrare la nostra attenzione.

Il Piano dedica dodici schede alla formazione, tutte proposte che ricalcano una disfatta almeno decennale.

Ricalcano, in questo caso, ha un significato quasi letterale: come riportato dall’articolo pubblicato su “Roars” Spunto di riflessione – Una differenziazione smart per il sistema universitario, è stato letteralmente copiato/incollato dal libro Salvare l’università italiana, edito da Il Mulino nel 2017 . Con il piglio autoritario e arrogante rilancia su programmi che hanno già fallito. Questo fallimento è stato al centro di critiche radicali da parte non solo, per anni, dei movimenti universitari ma anche di quelli che hanno cominciato ad organizzarsi nel corso del lockdown. Decenni di tagli lineari alla formazione, di politiche d’austerità, hanno portato l’Italia nelle ultime posizioni in Europa per percentuale di Pil in investimento in ambito scolastico (3,8% a fronte di una media europea del 4,6%). Se guardiamo al settore universitario, l’Italia scende all’ultimo posto in Europa con una spesa dello 0,3% del Pil. Qualsiasi persona dotata di raziocinio direbbe che questo gap andrebbe colmato con ingenti finanziamenti, invece la Task Force guidata da Colao prevede, al punto 79, di lanciare una «campagna di volontariato» che affianchi le strutture pubbliche nel supporto alla formazione, sia “cash” che “in kind” in tre punti: 1) una campagna di crowdfunding e donazioni chiamata “Adotta una classe”; 2) una “Gara dei talenti” e 3) “Impara dai migliori”, dove questi migliori, ovviamente, sono le grandi aziende. A questo, come se non bastasse, si aggiunge la pianificazione di un accordo con Rai Scuola/Rai Educational per il potenziamento della didattica.

Il Piano, inoltre, mette in luce il bassissimo investimento nel diritto allo studio nel nostro Paese: gli studenti e le studentesse che beneficiano di un sostegno economico sono l’11%, mentre sono il 32% in Francia. A questo si aggiunge la scarsissima offerta di posti letto in residenze universitarie: solo il 3% dei posti letto in Italia con una media dell’Unione europea del 18%. In più, sottolinea la bassa percentuale di laureati: tra chi ha tra 30 e i 34 anni i laureati in Italia sono sotto la media europea di 13 punti percentuali.

Per far fronte a questa enorme problematica che coinvolge migliaia di studenti e studentesse e le rispettive famiglie, Colao propone di riconvertire alcune strutture alberghiere turistiche o l’utilizzo di vouchers.

Secondo l’ex a.d. questo incentiverebbe l’autonomia individuale ma soprattutto «i livelli occupazionali per le strutture ricettive e l’indotto delle città universitarie». Viene ricalcata in questo caso, una logica molto comune nelle città universitarie: da una parte si mettono in campo delibere repressive e di colpevolizzazione dei giovani e giovanissimi, dall’altro gli studenti diventano soggetto del consumo, variabili indispensabili per il rilancio del commercio e del sistema degli affitti.

Ma sono le proposte che riguardano i ricercatori e le ricercatrici precarie però a essere ancora più interessanti e preoccupanti. Le riforme in chiave neoliberale sono le grandi responsabili del disfacimento di una delle più importanti istituzioni sociali: il blocco del turnover e il massiccio definanziamento hanno portato a un utilizzo sempre più consistente della forza lavoro precarizzata. A fronte di 48mila docenti strutturati, i precari e le precarie si aggirano intorno alle 70.000 unità: la maggioranza delle persone che operano nella ricerca conduce una vita professionale all’insegna dell’incertezza esistenziale e del sovraccarico lavorativo che, nel 90% casi, termina con l’espulsione dal sistema accademico. L’onda lunga dei tagli al finanziamento targati Tremonti e la ristrutturazione della governance accademica imposta dalla Legge Gelmini 240/2010 ha fatto perdere ben 16mila docenti strutturati dal 2010 a cui se ne aggiungeranno più di 12mila nei prossimi cinque anni, per i pensionamenti previsti. Dubitiamo, però, che il Piano Colao, quando parla di sviluppare un contratto nazionale dei ricercatori, a partire dal post-doc sino al dirigente o al professore ordinario, allo scopo di sviluppare un percorso di carriera conforme allo standard europeo, pensi a un necessario e sostanzioso programma ordinario di stabilizzazioni. Di questo, invece, bisognerebbe parlare quando il tema diventa l’Università e la Ricerca pubblica.

Nonostante questa situazione in cui versa il sistema universitario, la qualità dell’insegnamento e della ricerca rimangono di ottimo livello in tutto il Paese. Ma un’istituzione che garantisce qualità per tutti quelli e quelle che ne hanno accesso (ancora troppo pochi come abbiamo visto), sembra non andare bene al neoliberale Colao. Secondo il Piano bisogna accelerare sul processo, già tra l’altro in atto da almeno un decennio, di costruzione di grandi poli d’eccellenza, ovviamente a discapito dei piccoli Atenei, soprattutto del Sud Italia, che per sopravvivere dovranno disciplinarsi e specializzarsi. Basta con una buona didattica e ricerca per tutti, serve l’eccellenza di pochissimi.

Appare chiaro quel che significa eccellenza per il comitato degli esperti: eccellenza come servizio all’impresa, come capacità di restituire al capitale la propria centralità politica e culturale, in un momento in cui in tante e tanti, a ogni latitudine, ne stanno mettendo in discussione la tenuta.

Specializzatevi e disciplinatevi, ma basta discipline: bisogna modernizzare il sistema della Ricerca, quindi interdisciplinarietà. Che sarebbe anche una cosa buona, se non fosse che l’impianto neoliberale da decenni imposto è quello punitivo della valutazione che segmenta il sapere accademico in rigidissimi comparti disciplinari. Le procedure valutative sono diventate l’architrave del sistema accademico nella sua forma neoliberale: non solo definiscono la distribuzione delle risorse agli atenei, ma determinano anche le carriere, soprattutto dei precari e delle precarie. Per questa ragione, questo tipo di interdisciplinarietà proposta da Colao è semplicemente una provocazione insultante.

manifestazione alla Sapienza di Roma

Il Piano Colao prevede pure delle misure sui dottorandi e sui ricercatori. Nel punto 86, la task force riconosce il bassissimo numero di dottorandi in Italia: l’1,8% del totale degli studenti universitari rispetto al 3,85% della media dell’Unione europea a 28. Secondo gli esperti dipende dalla scarsa domanda per queste figure professionali e una concezione del dottorato – anche se non ne comprendiamo il motivo dello scandalo e anzi, al contrario, pensiamo questa sia una traiettoria da assumere per immaginare il mondo nuovo che dovremo costruire – come addestramento alla carriera accademica. Sicuramente andrebbe valorizzato di più visto l’investimento che lo Stato fa su queste figure: andrebbero, senz’altro, strutturati accessi agevolati nella pubblica amministrazione e nelle scuole. Per questo problema però il Piano propone 40 nuovi corsi di dottorato con borsa maggiorata e nient’altro. Fondamentalmente una presa in giro.

Veniamo all’ultimo punto del Piano che ci interessa commentare, l’84. In esso si lamenta un significativo disallineamento tra domanda e offerta di competenze, con la «conseguenza paradossale che da un lato molti lavoratori stentano a trovare un impiego adeguato alle loro competenze, e dall’altro molti datori di lavoro stentano a trovare il personale di cui necessitano». Questa paradossalità, non dovrebbe sorprendere chi millanta di conoscere il mondo di lavoro: scarsissimi investimenti e schiacciamento dei salari. Il problema strutturale, in Italia, non è della domanda ma dell’offerta. Per decenni la narrazione neoliberale sull’Università e sulla Ricerca, così come quella sulla formazione nel suo complesso, prevedeva che ci fosse un adeguamento della domanda verso l’offerta. Numerosi Ministri dell’istruzione si sono supinamente sottoposti a questo dogma: precarizzazione, valutazione, tagli ai fondi, corsi di studio modellati sulla forma impresa, sono state le note dello spartito di queste riforme. Sembrava che in assenza di queste modifiche agli ordinamenti i privati non avrebbero mai potuto fare investimenti nella formazione, soldi che stiamo ancora aspettando tra l’altro.

L’attacco ai giovani, una costante degli ultimi anni, è stato il modo in cui il sistema imprenditoriale ha coperto il proprio atteggiamento ideologico e parassitario.

Ora, però, la crisi pandemica ha squarciato un velo: il re è nudo. La crisi del neoliberalismo si dispiega in tutta la sua violenza mettendo in luce l’impossibilità di stabilizzazione della propria modalità di governo. La privatizzazione, la finanziarizzazione e la gestione manageriale di segmenti importanti della riproduzione sociale come la sanità, la scuola e l’alta formazione vedono il suo enorme fallimento. Lo hanno segnalato molto bene le lotte – anche durante le ultime settimane – delle lavoratrici e dei lavoratori, nella maggior parte precari, che queste istituzioni le fanno vivere mettendone in luce la loro insostenibilità.

Per questo Colao, già scaricato da chi colpevolmente l’ha assunto, attacca e provoca: per nascondere il tracollo del neoliberalismo si ripropongono la formula del mercato e dell’impresa come formule vincenti.
Non possiamo più permettercelo: la sanità e la formazione riemergono come istituzioni fondamentali per la società. La cura, la possibilità e la necessità di una istruzione di qualità, sono cardini fondamentali per una organizzazione sociale democratica e sappiamo che solo da esse è possibile immaginare un modello diverso, più giusto e più eguale. Non vi è dubbio che la sanità, la scuola, l’università e la ricerca, ma anche la forma impresa, dopo decenni di attacchi e riforme che hanno aumentato enormemente le diseguaglianze economiche e sociali, vanno ripensate. Le indicazioni provenienti delle numerose mobilitazioni delle ricercatrici e dei ricercatori, come la piattaforma UniCOVID, sono state da subito molto chiare: non ci sarà più una complicità dell’accademia al mercato. I processi di valutazione vanno sabotati; il lavoro gratuito va abolito; i finanziamenti all’università e alla ricerca dovranno servire a stabilizzare decine di migliaia di precari. Solo così il nostro lavoro può servire a costruire un mondo più giusto per tutte e tutti e non per favorire i profitti di pochi.

Certo, non è detto che questo modello neoliberale sia giunto al suo tramonto, il Piano Colao rimane lì a ricordarcelo.

La disastrosa depressione che si staglia al nostro orizzonte segna il tempo di una urgenza non più rimandabile, serve invertire la rotta in modo drastico.

Centrale, per questo, è il tema della democrazia: il modello degli esperti, del grande manager, deve essere archiviato. Non si possono più accettare riforme dell’università fatte in assenza di un coinvolgimento democratico della comunità accademica nel suo complesso, in particolar mondo per le sue componenti più vulnerabili rappresentate da studenti e studentesse, oltre che da ricercatrici e ricercatori precari.
Siamo anche consapevoli che solo l’esplosione di lotte nuove e radicali, capaci di rimettere al centro il carattere fondamentale di queste istituzioni della riproduzione sociale, nel mondo della formazione nel suo complesso e nel mondo della sanità, potrà imporre un nuovo ordine discorsivo politico e sociale in grado di opporsi al nuovo tentativo di privatizzazione delle vite e delle relazioni sociali.

Foto di copertina di Sergio Ulceda (modificata), sotto licenza CC BY 2.0

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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