Lo stato di eccezione introdotto grazie alla pandemia da nuovo Coronavirus rischia di diventare permanente e permettere il completamento della contro-riforma presidenzialista dello Stato. Ne parliamo con Angelo Ruggeri
D: Penso che allo stato delle cose, conclusa ormai la condizione di speciale “confinamento” dovuta alle misure adottate in piena pandemia, sia possibile trarre una valutazione esauriente sulle limitazioni della democrazia, che sotto il profilo dell’emergenza è stato avventatamente giustificato. A fronte del profluvio di DPCM che hanno cadenzato il periodo di pandemia azzerando le garanzie costituzionali e parlamentari definite dalla Costituzione tu hai parlato di un “8 settembre dei parlamentari e di un regime del capo di governo”. Puoi chiarire in dettaglio?
R: ritengo indispensabile edurgente il recupero di sovranità che deve comportare la rivalorizzazione della rappresentanza parlamentare e del fatto che alla Costituente furono recisamente respinte le proposte ultra-minoritarie di sistemi di governo autoritari. Mi riferisco espressamente al sistema fondato sul potere del “capo di governo”, un potere “personale” che cala dall’alto e che, anche nel titolo stesso dei Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), richiama il “presidenzialismo”. Se a ciò si aggiungono gli annunci al Paese fatti dallo schermo delle TV anziché in Parlamento, è come se quest’ultimo avesse attribuito al governo e al suo capo i poteri da art. 78, pur non essendo affatto la pandemia una guerra.
D:In questa accelerazione verso un ruolo abnorme del capo di governo tu intravedi una regia europea a cui si sono adattate le posizioni dei governi nazionali, ma che ora potrebbe essere messo in discussione dalla realtà straordinaria cui ci sottopone la pandemia?
R: Sì. In questi 20 anni privi di alternative al degrado politico-sociale-culturale e di crisi della democrazia alimentata dalla indomita crisi dell’Europa-UE che ritengo irriformabile, abbiamo sempre detto a chi ci interrogava che non c’era speranza, ma che la storia certe volte compie accelerazioni impreviste e imprevedibili. Questa, pur se drammatica e terribile ci sembra essere una di quelle accelerazioni della storia. Le crisi precedenti al coronavirus, volute e imposte con i vincoli di un’Europa volta ad esautorare il recupero della “sovranità democratica”, ovvero della “sovranità popolare”, pur di garantire un capitalismo burocratico che incentiva la crisi permanente attraverso le continue “bolle” sia speculative che di sovrapproduzione, sono ora sottoposte ad un passaggio estremo, che le punge e le fa esplodere anche con possibili esiti diversi e opposti. In fondo, dopo la crisi del 1929, non è più esistito e non esiste un mercato senza stato (anche il cosiddetto neoliberismo di questi 30 anni non è stato altro che uno statal/liberismo, un liberismo sancito da leggi dello stato che ha abdicato i propri poteri in materia economica a favore degli istituti di credito e delle imprese private o “regalate” ai privati. Ma il bisogno di stato era dissimulato e, soprattutto, non era un attributo, un risultato della sovranità popolare espressa democraticamente in forma di governo dal basso e partecipato.
D. In sostanza ritieni che anche con l’attuale governo, tra deroghe ed emergenze si persiste nel tentativo di omologare ai regimi europei il “caso italiano” di Costituzione e di democrazia avanzata?
R. Rispondo ancora affermativamente alla tua domanda. Diciamo che l’Europa, oltre che da oltre Atlantico, è influenzata per un verso dal “prototipo” della cultura borghese, cioè dal “britannico” governo di gabinetto in quanto governo del suo capo (il “premier”); mentre per l’altro verso è condizionata dalla cultura giuridica tedesca, col suo enfatizzato “kanzler-prinzip” sostituto autoritario del totalitario “fuhrerprinzip”.
Conte (pescato dal nulla da qualche “manina”), sembra aver appreso ad entrambe le culture, atteggiandosi ed imitando regimi istituzionali che si fondono sul presidenzialismo del capo di stato o di governo, del premierato o del cancellierato. Forse si è paragonato addirittura alla Merkel. Siamo di fronte, per dirla così, ad un arruffone, che anche se non è stato eletto e non ha statura adeguata, desta preoccupazioni proprio perché potrebbe aprire la strada a più dotati di lui: diventa quindi ancor più pericoloso in quanto crea precedenti, che, sappiamo, non si esauriscono nello spazio delle “emergenze”, ma lasciano tracce permanenti…
Di Conte va inoltre ricordato che, all’atto di insediamento, disse di rifarsi agli USA e all’Europa, le cui forme di governo si fondano in effetti sul presidenzialismo. E che i disorientamenti che le culture giuridiche tendono a provocare in seno al popolo – anche attraverso le sofisticazioni classificatorie dei giuristi di regime del governo (come e del tipo dei vari Zagrebelsky) che ricorrono al “tecnicismo” della “ingegneria costituzionale” ed a deroghe ed eccezionalità – portano ad avvicinarci il più possibilea tali regimi politico-istituzionali e ad omologare la nostra Carta ad un “costituzionalismo” che già ora in Europa cancella la dialettica sociale e le differenze di classe.
Per questo – memori delle grandi lotte operaie e di classe 1945-1975 – tutte le c.d. “revisioni costituzionali” si sono ispirate a quelle forme di governo proprio in quanto antisociali: da quelle tentate di Craxi, Berlusconi e Renzi, a quelle fatte dal centrosinistra sul Titolo V della C. e con l’art.81, a quelle realizzate dai 5 stelle, che hanno portato avanti una linea antiparlamentare governativista. A questo obiettivo hanno puntato sia con la revisione degli articoli 71 e 75, introducendo una specie di “liberismo referendario”, sia con la modifica degli art. 56-57-59 di taglio dei parlamentari. In buona sostanza i 5 stelle sono riusciti a far passare “revisioni” proposte da Berlusconi e poi da Renzi a cui il popolo aveva già detto NO: con ciò si qualificano non solo come la forza più sovversiva della nostra Carta, ma anche come quella che sta portando a conclusione il Piano Rinascita della Loggia P2 di cui il taglio dei parlamentari è solo l’ultimo “mattoncino”.
In questo esito si può meglio cogliere tutta l’abilità di chi, dal ’79 in poi, da sinistra – il riferimento è qui al Psi craxiano culturalmente ispirato da Amato – ha operato per rovesciare la situazione politica italiana in nome delle «riforme istituzionali», la cui matrice è conservatrice e persino reazionaria. Esse infatti, ieri e oggi, tentano di occultare l’intento reale: delegittimare la lotta della classe operaia e del movimento dei lavoratori impegnati, in nome della Costituzione, a modificare gli assetti del potere sociale ereditati dal liberalismo e dal fascismo.
Quanto più si è sviluppata la strategia delle «riforme istituzionali», tanto più si è sviluppata – nella contraddizione meschina tra «presidenzialisti» e «uninominalisti» – una tendenza generalizzata a perseguire, quasi in una gara, gli obiettivi degli uni e degli altri, cancellando la sovranità popolare “in nome del popolo” contro i partiti definiti partitocrazia già da Mussolini. Nel frattempo, sono stati perseguiti arretramenti sociali contro i lavoratori e i ceti deboli: l’attacco alla scala mobile nel 1984, la controriforma delle Ferrovie nell’85, la politica di privatizzazione delle partecipazioni statali e del sistema bancario in tutti gli anni ‘80 e poi ‘90, la legge di riduzione dello sciopero nel 1990, la controriforma delle autonomie locali sempre nel 1990, e l’abrogazione della scala mobile, le liberalizzazioni, le manomissioni del sistema pensionistico, della sanità, della scuola, etc. per tutti gli anni ‘90. Tutti e sempre con istituti pervicacemente contrari alla Costituzione e ai contenuti del processo di democratizzazione portato avanti tra il 1956 e il 1975, per attuarne la piena realizzazione.
È dentro questo processo di involuzione che dura da anni, che oggi si è reso possibile accettare in modo tacito ed in un silenzio ovattato, l’estraniazione del Parlamento, assieme ad un regime innestato sui DPCM del capo di governo. È in questo clima di sottovalutazione che si può osare di tramare per consolidare un più marcato e definitivo passaggio dalla democrazia all’autoritarismo.
D: Cosa potrebbe suggerire sul piano dell’azione politica l’esplosione del coronavirus e il non ritorno alla “normalità” precedente?
R: L’errore più grande ora sarebbe un piano di interventi e di spesa inteso solo come programma di emergenza mentre è necessario un programma permanente che veda e vada e si prolunghi molto oltre l’emergenza. Cioè, come è logico e naturale, per intraprendere una politica di espansione a lungo termine – intesa ad evitare che ci sia gente costretta a “dormire sotto i ponti o a rubare legna nei boschi” direbbe il filosofo della morale – è necessario un programma che implica mutamente profondi e la sostituzione della produzione per il profitto con la produzione per l’uso. Nel contempo è necessario riprendere la teoria della forma stato della nostra Costituzione e applicare la “sovranità” costituzionale così ben espressa nella Carta, per realizzare un controllo politico e sociale della produzione e dell’economia pubblica e privata indirizzandola ai fini sociali. E, lo dico non solo con una punta polemica, ma come necessità di un rilancio di analisi, valori e prassi allentati proprio quando più dura si è fatta la contesa, per quanto riguarda noi e tanti altri che l’hanno abbandonata, è necessario anche riprendere la teoria marxista dello stato e una politica di controllo dell’economia, in opposizione all’interclassismo neoliberista, che ha segnato il radicalismo fascista degli anni venti, ma è stato fatto proprio imperdonabilmente dallo scivolamento di tutte le “sinistre” a destra.
D: Per una politica, come dici, di controllo dell’economia occorrerebbe che il mercato cessasse di essere visto come regolatore di ogni rapporto sia pubblico che privato e che le soluzioni “federaliste” venissero svelate per quel che effettivamente sono.
R: Infatti.È a partire dalla tesi di uno stato solo “regolatore” (che fu del fascismo e che poi ed oggi è stata assunta dalla destra PCI e poi da tutta la sinistra), che si è pervenuti all’idea che, in tale ambito, la democrazia si risolverebbe solo nella contrapposizione di programmi gestionali tra forze di “alternanza” (così si dicono, con esplicito riconoscimento delle conseguenze politiche del rovesciamento delle proprie posizione teoriche sui problemi dell’organizzazione del potere) di uno stato “nazional-sovranazionale”, nel quale tutte le forze riconoscono il mercato come regolatore di ogni rapporto sia pubblico che privato.
Il recupero della “sovranità”, “democratica”, “popolare” e “statale”, specialmente alla luce della vicende della fase di emergenza del coronavirus, e della cancellazione di fatto delle assemblee elettive sia Regionali che del Parlamento nazionale, sta dando plastica visione di quanto il “federalismo” sia un sistema di rapporti tra vertici decentrati e centrali, con l’assunzione di potere in capo ai presidenti delle Regioni e del Consiglio dei Ministri, con forme di decretazione, ancorché atti amministrativi, come i DPCM. Al contrario, proprio quando l’emergenza è tale da impedire o limitare le libertà Costituzionali, anziché atti amministrativi, quali i DPCM, serve garantire nel modo più rigoroso il rispetto delle norme di supporto e di deliberazione legislativa: tocca cioè al Parlamento deliberare in merito all’emergenza, alle libertà personali, alla sicurezza e alla salute (la salute e l’emergenza sono altra cosa dalla sanità assegnata alle Regioni!)
D: Il Parlamento non si è riunito proprio quando si decideva quali fossero i lavori essenziali che non potevano essere sospesi…
R: Sicché mentre si chiedeva a molteplici categorie (operatori sanitari, lavoratori dell’agro alimentare, dei servizi essenziali , della farmaceutica, ecc. ecc.) di restare al loro posto in quanto il loro lavoro è essenziale, nel contempo, quasi a dar ragione a coloro che dicono che il parlamento non serve, i parlamentari hanno abbandonato il loro posto in primis quelli di 5Stelle, di PD e di Renzi, che hanno fatto “blocco”. Unposto che è il più essenziale di tutti: così che il parlamento che è il “servizio pubblico” più essenziale di ogni altro rimaneva vacante e sostanzialmente esautorato dalle modalità di decisione assunte dal “capo del governo”.
Si è così data per giorni e settimane la visione dell’esistenza di una specie di “regime del capo”, (ancora una volta in nome dell’emergenza che da molti anni – anche nel campo economico – funge da giustificazione di atti che nella forma e nel contenuto sono spesso fuori dalla sensibilità e fuori dalla Costituzione) contrastante con l’urgenza di recupero di sovranità, che deve comportare anche la rivalorizzazione della rappresentanza parlamentare, l’importanza del dibattito e della dialettica politica parlamentare, riflessiva a sua volta di quella sociale.
Non a caso alla Costituente furono recisamente respinte le proposte ultra-minoritarie di dar vita a sistemi di governo “autoritari”, come quello presidenziale fondato sul potere del “capo di governo”. E furono altresì abbandonate le pretese di un sistema elettorale uninominale, respingendo quindi la disponibilità a far proprie versioni istituzionali, tanto più rischiose e devianti in quanto il ricorso ad un linguaggio “populistico” e vuoto di contenuti porta ad evocare una impostazione interclassista non solo nello stato “nazional/sovranazionale” ma anche nell’ambito della sovra-nazionalità europeistica, che si è resa invece incline a questa devianza.
In maggior dettaglio mi riferisco a quella impostazione ideologica – a cui oggi si sta cedendo in nome di un antipopolare “populismo” accoppiato al neo-liberismo UE e all’Atlantismo esaltati da Conte – che fu sconfitta alla Costituente dove, in assenza dei neo-fascisti che sostenevano il presidenzialismo dall’esterno, l’ultra-minoritario Calamandrei e il suo partito liberal-azionista avevano irriso la natura “programmatica” sociale e “di lotta” della democrazia sociale e puntato sul presidenzialismo di tipo Nord Americano. Presidenzialismo e “federalismo”, che furono entrambi bollati come forma del potere autoritario dall’Assemblea Costituente, dalla quale Calamandrei uscì come il maggiore sconfitto della nostra Costituzione. Viceversa, la Costituzione fece sì che i partiti e le forze sociali democratiche e antifasciste, concorressero a rompere con il modello “presidenzialistico” monarchico/liberale dello Statuto Albertino, su cui aveva potuto innestarsi il regime fascista, per aprire una nuova fase storica, politica, sociale e istituzionale mediante un inedito modello di “democrazia politica, economica e sociale” repubblicana e autonomista.
D: Come colleghi la fase attuale e la stessa “emergenza”, con i processi ed i tentativi continui di revisione costituzionale da sempre presenti nell’evoluzione della storia repubblicana? Puoi risalire ai nodi più significativi di un conflitto internazionale ed europeo che ha visto nell’Italia un teatro di scontro politico-istituzionale e sociale rilevante?
R: Penso che siamo ad un passaggio di fase, di cui il regime del “decreto legge” e dei DPCM costituisce un precedente utile e calcolato che, in nome dell’emergenza sanitaria – ed ora anche economica – anticipa quella ulteriore messa fuori gioco del Parlamento, che si cerca di attuare con un’altra fase di revisioni costituzionaligià iniziata come accennato in precedenza.
Una fase di grave smottamento che coinvolge tutti gli elementi del sistema democratico, simile a quella che con la cultura di Maastricht del governo Amato del ‘92, con la sua mega manovra economica, in nome dell’emergenza economica, portò ad anticipare quella messa fuori gioco del Parlamento perseguita con le cosiddette “riforme istituzionali”. Una messa fuori gioco del Parlamento che abbiamo visto col Conte 2, che è stata aperta, già allora, sul piano esterno ed interno sul fronte extraparlamentare, dalle forze eversive (poteri occulti, servizi segreti, terrorismo) da ultimo operante sotto i simboli della “loggia massonica P2”, e sul fronte parlamentare dalla destra democristiana, con la convergenza del Psi di Craxi e di Amato e in seguito di tutta la “sinistra” e delle forze che definisco “succedanee”.
Penso che per capire si debba sempre porre i fatti e il presente in una giusta prospettiva storica: e non solo perché Gramsci insegna che “fare politica significa fare storia”, cosa di cui sono assolutamente incapaci i gruppi politici attuali, privi di senso storico come anche di teoria e cultura. Serve cogliere non solo gli aspetti sincronici ma anche diacronici dei processi in corso. E cogliere le similitudini sotto le apparenti diversità, come diceva Gramsci. Perciò si devono sempre porre i fatti in una prospettiva storica: con tale sguardo si può vedere come dal Craxi che introdusse per la prima volta i DPCM col DPR 400/88 (già segnata da incostituzionalità, per debolezza della fonte non essendo di fonte costituzionale), alla manovra istituzionale del governo Amato in nome dell’emergenza economica, alla manovra istituzionale del Conte 2 in nome dell’emergenza sanitaria ed economica, tutte le decisioni di governo sono proprio l’espressione di un passaggio di fase. E tutte segnano l’esautoramento del Parlamento e, quindi, delle forze politiche rappresentative della società.
In tal modo si indeboliscono anche le forze sociali e sindacali, creando una situazione in cui è solo un gruppo ristretto di personaggi di vertice, che direttamente o indirettamente prende decisioni a carico delle masse e dei cittadini, senza più nemmeno coinvolgere i loro rappresentanti parlamentari. E questo si ottiene sia con il consolidarsi del regime del «decreto-legge», che è una tipica espressione dell’autocrazia; sia con l’espandersi del regime del «decreto-legislativo», che si determina con le cosiddette «leggi delega» con cui il governo pone il Parlamento nella condizione di auto-espropriarsi del suo potere legislativo; sia con i DPCM emananti da un autocratico “decreto-legge”. Una situazione in cui è solo un gruppo ristretto di personaggi di vertice , che direttamente o indirettamente hanno preso e prendono decisioni a carico delle masse e dei cittadini.
D. Quindi, ritieni che si debba guardare ben oltre ai contenuti delle manovre per cogliere le modalità e gli strumenti istituzionali con cui vengono perseguiti. E, se ben capisco, metti in gioco come – e se – vengono considerati i soggetti sociali e i titolari della sovranità.
R. Esattamente, la partita è di tale ampiezza! La dimostrazione ulteriore l’abbiamo nel fatto che quegli esigui decisori si preoccupano non già delle reazioni di chi ha salari al limite della soglia minima di sostentamento, ma – oltre che, naturalmente, degli interessi confindustriali – di cosa i “padrini” dell’organizzazione capitalistica europea e mondiale vogliono di fatto, di quanto concedono anche sotto il profilo della propaganda e di quanto si appropriano della ricchezza che viene dalla natura e dal lavoro. Altro che green deal e welfare e salute! Parole che mai come oggi circolano sui media, al punto che il Corriere della Sera il 5 Giugno – giornata mondiale della Natura – viene stampato per l’occasione su fogli di giornale verde. La riprova? Conte per l’insediamento del suo governo, ha chiesto preliminarmente la legittimazione e si è posto sotto gli auspici di Trump, Merkel, Christine Lagarde, con dichiarazioni di sfrenato atlantismo e filo capitalismo finanziario europeo e multinazionale.
Ricordo che Amato andò alla riunione del cosiddetto G7 a farsi approvare le manovre che il governo intendeva realizzare perché da allora ed oggi sempre di più la CEE-UE incalza i “partners italiani”, affinché in ogni caso, quali che siano i contenuti delle misure poste in essere, queste garantiscano e si muovano nell’ambito del rafforzamento della nuova scala gerarchica degli interessi di classe fissata con gli accordi di Maastricht.
In tale contesto la demonizzazione del “sistema dei partiti” in Italia, realizzata in primis persino attraverso piattaforme private come quella dei 5S, è stata sapientemente condotta all’esito che interessa alle forze del capitalismo europeo e mondiale, fin dal giorno in cui è entrata in vigore la nostra Costituzione: cioè all’esito di un blocco sociale antioperaio e antipopolare, di cui anche i 5-stelle, oltre al PD, ecc., sono pienamente parte: tanto che con un movimentismo di tipo “leghista”, dopo aver demonizzato i partiti, agiscono e alimentano l’attacco al Parlamento e alle basi del sistema sociale e non solo politico, nato dalla Resistenza e fondato sulla democrazia sociale e antifascista della Costituzione della Repubblica. Diventa vieppiù evidente lo stato di sudditanza delle forze politiche rispetto alle forze imprenditoriali e la dipendenza del funzionamento delle istituzioni da tecnici e giuristi espressioni di un mondo culturale sottomesso all’ideologia dell’economicità dell’impresa e dello Stato.
D. Quindi ritieni che questa fase sia in certa misura assimilabile a quella che dal governo Amato in poi, sotto l’egida di Maastricht portò alla riduzione della democrazia, dei diritti e del potere sociale di lavoratori e cittadini?
R. Si, solo che rispetto al governo Amato oggi la condizione è perfino peggiore, perché allora non c’era ancora stata la modifica “federalista” del Titolo V della Costituzione. Oggi, tramite i governi Conte e in nome dell’emergenza si è pervenuti ad una superfetazione di federalismo e presidenzialismo, tra loro inseparabili.
D. Come ti spieghil’imposizione di una deriva tesa a ridurre il potere democratico ricorrendo, paradossalmente, a far decidere al riguardo l’elettorato stesso?
Qui, se mi permetti, si impone una precisazione riguardante il ruolo delle “culture politiche”, poiché a differenza della cultura marxista, la cultura borghese – con i suoi specialismi volti ad occultare il ruolo dell’ideologia nel rapporto tra filosofia e scienza – riesce ad inquinare i significati attribuibili al succedersi storico delle varie e diverse costituzioni. Lo fa con successo, scindendo le teorie “giuridiche” dalle “filosofie politiche” che incarnano i sistemi sociali e politici diversi e travasando nelle carte costituzionali – e più in generale nel “diritto” – le diverse “concezioni del mondo”, su cui contrastano oggi come ieri, le forze del capitalismo finanziario e industriale e le forze del “proletariato” storico e di nuova formazione nei vari Stati e nell’estensione del mondo intero. È proprio questa esaltazione degli specialismi, frutto della cultura borghese, che riesce a mistificare scelte e decisioni come fossero meramente “tecniche” o di maggiore “efficienza” ed “efficacia” e che specialmente nei momenti di crisi e di paure alimentate nelle emergenze, porta ad accettare anche l’uso di strumenti autoritari che deviano l’attenzione del popolo e dell’elettorato.
Lo stesso elettorato che nel referendum del 1993 ha convalidato la deriva “maggioritaria” contro la proporzionale pura e, successivamente, ha convalidato la modifica del Titolo V della Costituzione. Anche perché allora il popolo era già frastornato da 20 anni e più di estraniazione – ad opera dei dirigenti della destra socialista e comunista prima e dell’Ulivo poi – da tutta l’incidenza che le tematiche “istituzionali” hanno su quelle “strutturali”, attinenti ai rapporti sociali e alla vita di ciascuno. Ed anche perché, soprattutto da parte di PDS e PPI, si nascose che complemento essenziale del disegno federalistico, come strumento di neo-accentramento di ogni vertice autoritario, è l’introduzione del primato dei poteri privati nell’esercizio anche delle funzioni pubbliche. Dietro il termine semanticamente oscuro della “sussidiarietà”, si è nascosto che col SÌ al referendum si sarebbe sancito (come è avvenuto) che compito di tutte le istituzioni – dallo stato centrale sino all’ultimo comune – era il favorire lo svolgimento di attività di interesse generale da parte dei cittadini singoli e associati (nuova formulazione dell’art. 118).
Con ciò veniva ribadito quanto già previsto nel testo elaborato dalla affossata Commissione D’Alema (bicamerale), con una scelta che ha chiarito vieppiù (si spera anche agli occhi di chi non sa che “diritto” è forma e articolazione del potere politico-sociale) che il presidenzialismo – che era già stato introdotto nelle regioni con una precedente legge costituzionale non sottoposta a referendum – è funzionale ai poteri privati e inseparabile dalla “federalista” sussidiarietà dello stato. E non solo rispetto alle attività economico-sociali, come a suo tempo fece il fascismo con la “Carta del lavoro” del 27, ma, addirittura, col testo dell’Ulivo che peggiorando quanto fece il fascismo, dava ai privati e quindi alle imprese, un ruolo preferenziale anche per l’esercizio delle funzioni pubbliche-sociali (che, per tradizione, sono tipicamente “pubbliche”). Un ruolo che imprese e privati hanno immediatamente e estesamente assunto nella prestazione di servizi e di funzioni pubbliche come la sanità e l’istruzione, oltre che nella produzione di beni. Ne è derivato un attacco diretto agli stessi Principi dello stato sociale, cioè anche alla Prima Parte della Costituzione in cui sono collocati tali Principi.
Attraverso artifici, mistificazioni e falsificazioni il popolo e l’elettorato possono essere deviati ed indotti a convalidare quanto viene calato dall’alto se gli si chiede di esprimere solo un SÌ o un NO. Al punto che, con la mistificante motivazione di ridurre i costi potrebbe avvenire anche l’amputazione del numero dei Parlamentari, piuttosto che la riduzione dei loro stipendi, in base alla ideologia della “governabilità”, che pone il mercato al di sopra (e fuori) della democrazia e quindi anche il taglio dei parlamentari e l’indebolimento del ruolo del Parlamento non desta preoccupazioni, anzi…
D. Vorrei ricordare che non sempre le azioni di mistificazione e deviazione hanno avuto il successo preconizzato dai loro sostenitori.
R. È vero, non sempre. Infatti, va anche detto che il popolo e l’elettorato per ben due volte, nel giugno 2006 e nel dicembre 2016, hanno saputo cogliere l’insidia della combinazione tra il “premierato” o regime del capo di governo e la “devolution federalista”, e con un NO secco hanno saputo respingere in blocco le smanie neo-autoritarie sia del centrodestra che del centrosinistra, a favore del “premierato” (istituto che nel 1925 era stato introdotto dall’arrembante fascismo mussoliniano). Un modello che è l’obiettivo di macchinazioniprotese a piegare i sistemi costituzionali dell’Europa “continentale”, ma in particolare dell’Italia, al modello considerato dalla cultura borghese come il “prototipo”, “l’ideal tipo” di ogni organizzazione del potere, qualunque sia la divisione in classi, ma anche etnica, religiosa, linguistica e politica. E tale “prototipo” è rappresentato dalla forma del governo “britannica”, come ho già anticipato in parte, per la sua radicale semplificazione antidemocratica perché antisociale, identificata nel governo di gabinetto come governo del premier capo, in quanto idoneo a far prevalere la “governabilità” sulla “rappresentatività” e sulla rappresentanza parlamentare. Ciò che si intende favorire col previsto taglio dei parlamentari e che ha avuto un anticipo, come ho sostenuto sopra, con la messa fuori gioco del Parlamento con il governo Conte, in imitazione della figura “britannica” del Premier.
E ciò, si badi bene, senza che la nostra Costituzione preveda stati di eccezione e di emergenza, come ha ricordato persino la Presidente della Corte (Cartabia), in cui si possa derogare dalla Carta e dalla centralità della forma di governo parlamentare, per attuare di fatto (peggio che se fosse di “diritto”) una specie di governo di gabinetto e rifacendosi al modello del “premierato” come forma di dominio del capo del governo, che azzera il Parlamento e le garanzie costituzionali fondate sulla sovranità popolare.
D Ma non hai già accennato, nel corso delle tue risposte, al fatto che questa è una delle forme di potere che l’Assemblea Costituente ha respinto e sancito come forma del potere autoritario?
R. Esattamente! Del resto, non serve essere addetti ai lavori per capire che c’è una concezione autoritaria dietro al decisionismo con cui Conte dallo schermo del suo personale “balcone” di Piazza Venezia asseriva “io” o “noi consentiamo”. Io stesso l’ho sentito al Tg SKY asserire: “tutti possono criticare, a me spetta decidere”. Una concezione autoritaria che deriva dal fatto che crede di essere lui a dover decidere e concedere, col potere dall’alto, quel che può o non può essere fatto. È facile capire che questo è il contrario della democrazia oltre che della Costituzione, i cui valori e principi vanno al di là di chi è al governo e della congiuntura politica e valgono sempre in ogni situazione. Anche – e particolarmente – al di sopra della paura e della mancanza di cultura politica che si sfruttano per far passare qualsiasi strumento all’occorrenza.
D. Mi sembra duro il tuo giudizio sulla figura che l’attuale Presidente del Consiglio intende interpretare.
R. Io, per la verità, non considero Conte molto più di un re travicello, un professore di diritto privato che tenta di applicarlo al diritto pubblico. Mi ricorda la cosiddetta. nuova teoria del gruppo di Milano di Miglio, che altro non era che il vecchio diritto privato applicato al pubblico. Tuttavia, considero questa sua interpretazione del premierato a danno del Parlamento assai pericolosa, perché costituisce un grave precedente che potrà essere usato da chiunque altro più dotato… magari da un Draghi…
Specialmente se si considera che molti giuristi col supporto di “politologi” e “sociologi” di tutte le correnti, al coperto dell’abbandono del marxismo inteso come teoria critica e organica della teoria borghese del potere, hanno finito per omologarsi ad una concezione della Costituzione italiana del 1948 del tutto deformata. E ciò in nome di un cosiddetto “costituzionalismo” che con deroghe varie è volto a cancellare le differenze di classe che in vario modo condizionano le diverse dinamiche sociali e politico-istituzionali nei diversi ordinamenti di una Europa che continua a presentare nelle rispettive Nazioni di cui si compone forme di governo fondate sul regime personale e presidenzialistico del capo del governo o dello stato.
D. Quindi ritieni che ci sia il rapporto di continuità tra Europa di Maastricht, vertici dei poteri d’impresa e vertici di federalismo e presidenzialismo nazionale e regionale?
R. Certamente. Del resto, è inseguendo l’Europa che l’Italia ha incrociato il federalismo “interno” nella prospettiva di quello “esterno”, senza sapere cos’è veramente il “federalismo”. Senza esagerare uso un giudizio estremamente netto: esso è essenzialmente la forma istituzionale dei rapporti tra vertici esecutivi di regione e governo e di simbiosi tra il “capo” dell’esecutivo esponente dell’istituzione centrale o regionale e il “capo” esponente degli interessi d’impresa. Cosa questa che nei giorni recenti è stata persino resa visibile dall’immagine televisiva del capo del governo Conte che, dopo aver annunciato la firma del DPCM il sabato sera, l’indomani, ha operato l’intera domenica in simbiosi col vertice confindustriale, per ampliare l’apertura e l’obbligo di ritorno al lavoro di settori e imprese. Persino attribuendo ai Prefetti il potere di intervento per mantenere aperte attività produttive non essenziali come il settore aeronautico di Varese, compresa la sua destinazione bellica. E sappiamo quanto ha pesato il rapporto di vertice tra Conte e i potenti confindustriali della valle Seriana costellata di industrie piccole e grandi, nella mancata zona rossa di Alzano.
Nel rapporto federalistico di vertici regionali e centrali con i vertici d’impresa, si trova facilitata e addirittura sostenuta la piena libertà del mercato, la libertà incontrollata all’impresa, dell’iniziativa privata e del profitto privato. Per questo il federalismo che è inseparabile dal presidenzialismo, è anche la forma istituzionale più amata dal grande capitale industriale e finanziario. Per comprendere quanto il “federalismo” sia la forma istituzionale del mercato d’impresa, basti vedere come nella UE il carattere fondante dei rapporti economici siano messi in luce dalle tappe di costruzione dell’“Europa”, che ha avuta e mantiene per suo nucleo di fondo la garanzia della libera concorrenza di mercato, e “solo” come suo “contorno” le norme istituzionali e sulla cittadinanza, che plasticamente sanciscono il carattere derivato del diritto e delle istituzioni dal sistema determinato e determinante dei rapporti di produzione.
D: Oggi la questione dell’ecologia – ecologia integrale – prende piede come connessione con la giustizia sociale e come orientamento necessario per preservare la vita e la Terra dalla distruzione. Cosa ne pensi in termini di programma politico?
R: In politica il termine stesso di programmazione venne sostituito dal termine ecologia, che fu introdotto da destra: dalla offensiva ideologica di Nixon (1970) e di Fanfani (1971) per i quali la parola “ecologia” andava surrogando la “programmazione”, proprio per contrastarla e impedirla, dopo che la parola e il concetto di “programmazione” aveva dominato il campo e l’agenda politica, economica istituzionale negli anni ‘60 e ‘70. In merito, va ricordato che quando si parlava di “partecipazione” come presenza democratica e non corporativa delle masse nella società e nello stato, facendo risalire all’art. 3 della costituzione il fondamento di una rivendicazione di un nuovo potere per i nuovi diritti, già si erano colte le premesse di uno sviluppo delle soggettività in termini che, se oggi risultano indebolite, è perché sono scollegate da una dimensione complessiva propria della programmazione. Sono cioè scollegate dalla dimensione organica e complessiva della contrapposizione degli interessi (in primis quelli sociali e di classe), sicché quella che viene oggi denunciata come “frantumazione”, in verità va criticata come “separatezza” di “monoculture”, tra cui spicca quella ecologica. Dico separatezze nel senso di una visione realmente organica della complessità sociale, anche se mi sembra che la posizione di Francesco vada nella direzione di una giusta ricomposizione.
Con ciò si comprende bene come fosse oculata l’iniziativa di Nixon e in particolare quella di Fanfani (nel 1971) nel voler contrapporsi alla programmazione, al punto che tramite una vera e propria azione ideologica e manipolatoria ebbero successo nell’ imporre una concezione della ecologia come cosa “separata” e, quindi, opposta alle istanze dei contenuti complessivi dei bisogni, del lavoro, della produzione e dell’economia della politica di programmazione.
Se si considera che “la prima legge dell’ecologia” – non quella di Nixon e Fanfani – è “ogni cosa è legata a tutte le altre” (Barry Commoner), questa stessa prima legge costituisce nei fatti la base stessa del principio di programmazione: l’inclusione cioè di ogni questione e bisogno tra cui la cura della Terra, della casa comune, dell’ecologia come parte della questione sociale. Tutta l’attività economica e produttiva, pubblica e privata, va finalizzata all’interesse sociale e la programmazione, appunto, è una dimensione inclusiva e complessiva volta a superare la separatezza di ogni questione dalle altre, all’interno di un processo consapevolmente programmatorio, frutto di una scelta politicamente determinata.
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