L’ingegner De Benedetti alcune sere fa è stato ospite ad “Otto e mezzo” da Lilli Gruber su La7. Un dialogo pacato con Antonio Padellaro sulle vicende attuali che riguardano la politica e l’economia italiana e, per esteso, anche quella continentale.
Diversi i toni rispetto a quelli del presidente di Confindustria (di cui, a proposito, sostiene: “Non condivido i toni. Alcuni di questi sfiorano l’eversività“), soprattutto quando si entra nello specifico della gravità della crisi dettata dai tempi del Covid-19. Un flagello per il capitalismo, figuriamoci per il mondo del lavoro salariato, delle partite IVA e di tutti coloro che sopravvivono a fatica barcamenandosi con lavori precari, improvvisati e sotto continui ricatti.
De Benedetti sottolinea tutte le difficoltà cui gli imprenditori stanno andando incontro e poi, alla domanda su come si può fare per risollevare le sorti del Paese, fa una proposta che – direi giustamente gli oltranzisti del liberismo giudicano “folle” – riguarda la tassazione, la fiscalità. L’ingegnere non usa mezzi termini e letteralmente afferma:
“Per risolvere il problema delle disuguaglianze sociali ci vuole una patrimoniale annuale come fa la Svizzera, dove non ci sono pericolosi comunisti. Penso a una tassazione sul patrimonio dello 0,8% annuo, che sarebbe giusta perché darebbe un segno nella risoluzione delle disuguaglianze. La patrimoniale è impopolare ma è giusta”.
Ipse dixit. Se persino De Benedetti rintraccia un minimo di giustizia sociale in una misura di equità fiscale come la patrimoniale sulle grandi ricchezze, qualcosa è saltato nel rapporto tra i padroni e i fronti sono evidentemente più di uno sul metodo con cui è possibile risolvere l’attuale crisi economica devastante in particolar modo per i lavoratori, i disoccupati, i pensionati e quanti vivono in condizioni di indigenza conclamata.
Il prelievo fiscale proposto dal futuro proprietario del quotidiano “Domani” (che farà concorrenza alle grandi testate nazionali da settembre), ex tessera numero 1 del PD e volto riconoscibilissimo del padronato italiano, non contempla una aliquota equa, che oggettivamente andrebbe alzata, ma riconosce che la classe economicamente e socialmente dominante deve rispondere di questo ruolo anche sul piano della contribuzione nella ricostruzione complessiva del tanto celebrato “sistema-Italia”.
E’ evidente che da sola la patrimoniale non è sufficiente a reggere la compensazione della crescita delle ineguaglianze ai tempi del coronavirus; ma sarebbe un ottimo punto di partenza che dovrebbe essere affiancato da un sostegno sempre maggiore ai diritti dei lavoratori: iniziando da un piano nazionale di reinvestimento delle risorse iniziando dal pubblico, intervenendo sul sistema pensionistico abolendo la Legge Fornero, consentendo di potersi ritirare dal lavoro con 40 anni di contributi o a 62 anni di età.
A corollario ulteriore di una proposta di tassazione patrimoniale, andrebbe messo anche il ripristino dell’articolo 18 della Legge 300 (meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori“), perché va superata la logica liberista del licenziamento in assenza di una “giusta causa“. Di più ancora, tornando nel campo della legislazione vigente, frutto di anni di governi di centrosinistra che hanno aperto la via a sciagurate controriforme antioperaie a antilavorative in generale, andrebbe abolito il Jos act renziano e andrebbe, al suo posto, istituito un salario minimo orario di nove/dieci euro per ciascun lavoratore, per ogni lavoratrice.
Ma queste sono le proposte di quei “pericolosi” dei comunisti che simpaticamente De Benedetti cita nel suo dialogo su La7, mostrando e dimostrando che si è arrivati veramente ad un “punto di non ritorno” nell’aggrovigliato inviluppo tra politica governativa ed economia tanto pubblica quanto privata.
La tanto sbandierata riduzione dell’IVA non produrrebbe intanto effetti diversificati da reddito a reddito ma interverrebbe indirettamente sui costi della vita. Per questo ridurla in misura eguale tanto al ricco quanto al povero è certamente ingiusto e ovviamente peggio dell’introduzione di una tassazione patrimoniale che però, va detto, senza una riforma generalizzata del fisco italiano, non può avere quella efficacia che produrrebbe altrimenti.
Le dinamiche politiche che riguardano gli interventi sul rapporto tra classi sociali e contribuzione fiscale non fanno viste come semplice intervento di perequazione dovuti all’emergenza sanitaria: il liberismo – come ha ben scritto Piero Bevilacqua su “il manifesto” del 13 giugno scorso – non è una semplice definizione moderna dei rapporti sociali ma una vera e propria ristrutturazione del conflitto tra capitale e lavoro.
Non siamo davanti ad una mera interpretazione ideologica della modernità del mercato, ma ad una ridefinizione compiuta della trasformazione della globalizzazione nel momento in cui i vari poli di concentrazione delle ricchezze continentali e dei grandi gruppi economici si riposizionano, si scrutano e osservano le mosse geopolitiche delle grandi potenze che, inevitabilmente, sono chiaramente condizionate dalle scelte dei più potenti tycoon del pianeta.
Più aumenta il divario sociale più l’aggressività del liberismo si fa espansiva e si manifesta in ogni settore produttivo: dalla grande azienda internazionale di esportazioni fino alla più piccola media impresa regionale di un Paese come il nostro che retrocede nella considerazione di affidabilità sulla soddisfazione dei propri debiti fatta dagli organismi di Bretton Woods.
Per questo la proposta di De Benedetti, pur sbiadendo davanti a tutti questi sobbalzi del capitale, rifulge di splendore nella miseria tanto della filosofia quanto della pratica della politica italiana. Una politica che naviga a vista, che non ha un progetto di società e che, del resto, non può averlo perché la maggioranza di governo è espressione di un rimescolamento indotto soltanto dalla necessità di evitare il ricorso alle urne; moderno trasformismo e cambiamento radicale di campo senza troppe modificazioni per quanto concerne, per l’appunto, l’impianto legislativo in tema di lavoro e di pensioni creato nei decenni scorsi.
La parola “patrimoniale” può apparire inaspettata se pronunciata da un padrone: ma è anche l’evidenza di una dialettica che si sta creando persino nel mondo industriale circa la fuoriuscita dall’emergenza sanitaria sul piano economico, con rapporti di classe sempre più tesi. Infatti, sul finire della trasmissione di Lilli Gruber, De Benedetti ha tenuto a ribadire che l’esacerbarsi dei conflitti sociali è peggio di un prelievo fiscale, di un sacrificio minimo fatto da chi detiene oltre 70% della ricchezza prodotta nell’intero Paese, la conserva magari in floridi paradisi fiscali e rappresenta meno del 10% della popolazione italiana.
Persino De Benedetti rischia di sembrare più di sinistra di chi al governo fa di tutto per evitare l’introduzione di una progressività fiscale o una patrimoniale che sarebbe, quanto meno, un chiaro segnale indirizzato a chi si sente oberato oltre che dal fisco anche dalla riduzione sempre maggiore del potere di acquisto dei salari.
Ora tocca al governo scegliere: la linea dura e pura di Confindustria o quella riformista di De Benedetti? Non si tratta di scegliere tra conservazione o rivoluzione, ma tra una interpretazione rigidamente classista del liberismo e una sorta di blando riformismo padronale che prova a mantenere i propri privilegi senza – per usare un francesismo – far incazzare troppo i lavoratori e quanti davvero vivono del proprio lavoro. Sempre più precario, sempre meno garantito.