L’emergenza COVID-19 ha portato alla ribalta un concetto, quello di “smart working” o “lavoro agile”, che fino a poco prima dell’emergenza interessava una parte minoritaria dei lavoratori.

Come noto, molte attività sono state svolte dai lavoratori – anche su input del Governo – fuori dall’usuale luogo di lavoro (generalmente in casa, data la pressoché totale impossibilità di uscire durante il lockdown). Ciò ha alimentato inevitabilmente un dibattito su questa modalità di lavoro. Se, da un lato, lo smart working può effettivamente mettere il lavoratore nella posizione di avere più tempo libero (si evitano gli spostamenti, si possono utilizzare i tempi morti della giornata lavorativa per svolgere attività utili al lavoratore stesso o al suo nucleo familiare), dall’altro può facilmente condurre ad abusi, soprattutto laddove il passaggio al modello organizzativo basato sul lavoro a distanza avvenga, come è accaduto durante l’emergenza, senza il tempo sufficiente per definire la cornice in cui la prestazione lavorativa deve svolgersi.

Divisi anche gli osservatori. Da un lato, gli ottimisti come Domenico De Masi (sociologo vicino al M5S e, quindi, animato da visioni futuristiche e senza classi sociali, nello stile dei Casaleggio) sostengono che lo smart working sia una specie di pietra filosofale o di macchina del moto perpetuo, grazie alla quale “ci guadagnano tutti”. Dall’altro, il sempreverde Pietro Ichino, che si lamenta della “vacanza pagata al 100%” di cui, secondo lui, avrebbero usufruito i lavoratori pubblici (ma di lui ci siamo già occupati). E, ancora, dal punto di vista dei sindacatic’è chi sostiene che lo smart working può costituire un nuovo strumento di sfruttamento.

Insomma, lo smart working è una benedizione o una iattura per i lavoratori? Come sempre, dipende dai rapporti di classe e dal contesto istituzionale, ovvero dall’insieme delle norme che regolano i rapporti di lavoro.

Alcune definizioni

Prima di affrontare questo discorso, però, occorre fare chiarezza su alcuni termini. Bisogna tenere ben distinte due diverse categorie di “lavoro a distanza”, ovvero lo smart working e il telelavoro.

Per quanto riguarda il primo, la Legge 81/2017, che ha introdotto il lavoro agile nell’ordinamento italiano, lo definisce così: “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissaentro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva” (art. 18).

Le parti in grassetto ci aiutano a distinguere questa categoria di lavoro a distanza dal cosiddetto telelavoro. Per quest’ultimo, infatti, è più complicato dare una definizione tratta da disposizioni di legge. In un recente documento prodotto dall’Inail, sul quale torneremo in seguito, si legge: “nel telelavoro si mantiene il requisito più qualificante della subordinazione, l’eterodirezione del datore di lavoro: osservanza cadenzata dei tempi di lavoro, esecuzione della prestazione sotto le regolari direttive del datore di lavoro e compenso. Il telelavoratore è vincolato ad una postazione fissa e prestabilita, nel rispetto degli stessi limiti orari che avrebbe rispettato in ufficio.”

Le principali differenze sono, dunque, le seguenti:

  • nello smart working non vi è un luogo di lavoro predefinito. La prestazione può svolgersi sostanzialmente ovunque, fatti salvi i requisiti tecnici eventualmente previsti nell’accordo tra le parti citato dalla legge. Nel telelavoro, la postazione di lavoro è fissa ed è comunicata dal lavoratore al datore di lavoro;
  • lo smart working è incentrato sul risultato. In altri termini, non conta il rispetto di un orario di lavoro, ma conta esclusivamente il raggiungimento di determinati obiettivi. Il lavoratore non “timbra”, neanche virtualmente, “il cartellino”. Nel telelavoro viene sostanzialmente rispettato, fatte salve eccezioni, l’orario di lavoro normalmente osservato in ufficio.

È chiaro che l’assenza di un orario di lavoro predefinito, nel lavoro agile, rischia di mettere il lavoratore nella condizione di essere bombardato di richieste dalla mattina alla sera. Per evitare fenomeni di sovraccarico di lavoro, l’illuminato legislatore, con l’articolo 19 della stessa legge, ha previsto che «i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro» debbano essere specificati nell’accordo di lavoro agile. Si parla, in gergo, di “diritto alla disconnessione”.

La legge, ancora, formalmente accorda tutta una serie di garanzie al lavoratore. Diritto all’apprendimento continuo, parità di trattamento rispetto ai lavoratori “in sede”, salute e sicurezza sul lavoro, tutela antinfortunistica. Sembrerebbe una legislazione che fornisce una serie di garanzie al lavoratore. Ma quali sono, allora i possibili rischi dello smart working? Perché si parla dell’emergere di nuove forme di sfruttamento?

L’importanza delle regole del gioco

Più volte, su queste pagine, abbiamo scritto che il contesto legale in cui gli interessi di classi contrapposte si scontrano ha un peso fondamentale nella determinazione degli esiti del conflitto. Ogni scelta volta a influenzare le tutele legali del lavoratore, i suoi diritti, i suoi doveri, la sua capacità di agire, in forma individuale e associata, per difendere o migliorare la propria condizione socioeconomica, ha una connotazione politica. Una modifica alla legge vigente può andare, tendenzialmente, in due direzioni: rafforzare la posizione dei lavoratori o rafforzare quella dei padroni. Allo stesso modo, l’interpretazione della legge, da parte di organi della pubblica amministrazione o da parte del potere giudiziario, dati determinati margini di discrezionalità, può andare nell’una o nell’altra direzione.

La regolamentazione del telelavoro e dello smart working non fa eccezione. In questo periodo di crisi dovuta all’epidemia da Covid-19, lo smart working è entrato prepotentemente nella quotidianità di molti lavoratori. Ciò sia perché tante attività, eseguibili da remoto, sono state effettivamente svolte con questa modalità, ma anche perché, a causa del regime emergenziale, in alcuni casi il passaggio allo smart working si è svolto senza le tutele previste per questa modalità di esecuzione dell’attività lavorativa. Nella pubblica amministrazione, ad esempio, il passaggio allo smart working è stato effettuato prescindendo dagli accordi individuali e dagli obblighi informativi previsti dalla legge. Ciò ha condotto a un modello di lavoro da remoto “ibrido”, che, come denunciato dall’Inail nel rapporto sopra citato, è stato applicato anche nei rapporti di lavoro privati. Un modello, scrive l’Istituto, “non esente da criticità con inevitabili impatti sulla salute e sicurezza“.

Ma il rischio dello sfruttamento non nasce soltanto in assenza dell’accordo tra le parti di cui parla la legge sullo smart working. L’accordo in questione, infatti, dovrebbe definire gli obiettivi che il lavoratore deve raggiungere durante il periodo di lavoro agile. In altri termini, si stabilisce che non conta per quanto tempo si debba svolgere un determinato lavoro. Ciò che conta è che gli obiettivi elencati nell’accordo siano raggiunti con le modalità previste dal medesimo. La legge prevede, infatti, che “L’accordo relativo alla modalità di lavoro agile disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro”.

Cosa ci garantisce, a questo punto, che gli obiettivi richiesti dal datore di lavoro non siano troppo onerosi per il lavoratore? Il lavoratore è in grado, da solo (l’accordo è tra le parti e, dunque, individuale), di firmare un accordo “equo”, ovvero in cui le mansioni svolte possano svolgersi effettivamente, come prescrive la legge, “entro i [soli] limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”?

La risposta, in molti casi, non può che essere negativa. In primo luogo, il lavoratore può non avere le conoscenze manageriali e organizzative per conoscere quante ore di lavoro siano necessarie per svolgere i compiti previsti dall’accordo. Inoltre, l’idea dell’accordo individuale sembra presupporre una contrattazione tra individui dotati della stessa forza contrattuale. Ciò in barba alla tradizione giuslavoristica, che nasce proprio dalla constatazione che il datore di lavoro è infinitamente più forte del singolo lavoratore. Il lavoratore, dunque, potrebbe essere “costretto” (per situazioni emergenziali, per periodi di difficoltà a gestire la vita privata, per via di pressioni esercitate dal datore di lavoro) a firmare un accordo-capestro in cui i tempi convenzionalmente previsti sono del tutto insufficienti per svolgere le proprie mansioni. Alla faccia del diritto alla disconnessione, per adempiere al contratto il lavoratore potrebbe essere costretto a lavorare anche in orari serali, notturni e nei fine-settimana. Altro che conciliazione tra tempi di lavoro e vita privata!

In secondo luogo, non tutte le prestazioni lavorative sono “quantificabili” (ad esempio, individuando come obiettivo un determinato numero di pratiche, di clienti serviti, di e-mail alle quali dare risposta, e così via): ci sono lavori in cui i ritmi sono totalmente o parzialmente aleatori e ciò che conta è la prontezza a rispondere alle richieste. In questi casi, il rischio di essere contattati in qualsiasi ora della giornata per svolgere attività “indifferibili” cresce a dismisura. A fronte di tale incertezza, ciò che però è sicuramente quantificabile sono i costi sostenuti dal lavoratore. Questi si compongono dei costi per l’energia elettrica, la connessione, la manutenzione della strumentazione, il riscaldamento nei mesi invernali, lo spazio occupato in casa, ecc. Ognuno di questi costi si può tramutare in un risparmio per il padrone, e se lo moltiplichiamo per il numero dei dipendenti può raggiungere cifre ragguardevoli, facendo anche di questo aspetto un tema non trascurabile.

Il problema però è ancora più ampio, e coinvolge anche alcune recenti modifiche normative che hanno reso il lavoratore più debole nei confronti del padrone. Ci riferiamo, naturalmente, alle modifiche al regime previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, in cui il licenziamento illegittimo poteva essere sanzionato, dal giudice, con l’obbligo di reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato. Questa impostazione è stata spazzata via con l’introduzione del cosiddetto “contratto a tutele crescenti” (temperato da alcuni pronunciamenti della Corte Costituzionale e da alcune previsioni del decreto Dignità), con il quale l’obbligo di reintegrare il lavoratore è stato ristretto a pochi, specifici casi.

Cosa c’entri il contratto a tutele crescenti con lo smart working è presto detto. Non rispondi a richieste in orari improponibili o non ti rendi disponibile a svolgere il tuo lavoro nel fine settimana? Lo spauracchio del licenziamento è sempre dietro l’angolo.

Vi è infine un aspetto che rischia di passare sottotraccia se ci si concentra solamente sul destino del lavoratore preso come singolo. C’è infatti anche la possibilità che grosse porzioni del mondo del lavoro dipendente si trasformino de facto, con la scusa dell’allentamento dell’eterodirezione, in lavoro autonomo. Ciò implicherebbe, in chiave futura, uno stravolgimento del rapporto tra diritti e doveri dei lavoratori, i quali si troverebbero per giunta a fronteggiare queste sfide sempre più isolati rispetto ai loro pari. Ciò è dovuto al forte allentamento dei vincoli fisici e sociali tra lavoratori causati dal distanziamento, che mina così anche la forza rivendicativa collettiva della classe nel suo complesso.

Conclusioni

Il dibattito sullo smart working prende spesso pieghe che ondeggiano tra diatriba filosofica e toni futuristici. E’ perciò necessario riportare la discussione su di un piano ben ancorato a dati oggettivi di realtà: i rapporti di forza tra le classi sono in grado di piegare uno strumento agli interessi prevalenti. Come ogni innovazione tecnologica o di processo, lo smart working e il telelavoro possono essere indirizzati, tramite strumenti legislativi e amministrativi e attraverso orientamenti giurisprudenziali, in maniera tale da favorire o sfavorire i lavoratori. Il problema quindi non è tanto lo smart working di per sé, quanto il contesto nel quale è implementato.

Per quel che riguarda lo strumento in sé, è chiaro che le minori necessità di spostamenti possono costituire un miglioramento per la vita del lavoratore. Allo stesso modo, la possibilità di spalmare la giornata lavorativa in maniera tale da conciliare vita privata e lavoro può essere considerata, potenzialmente, con favore da chiunque abbia sperimentato la fatica di districarsi tra impegni familiari, personali e lavorativi. Ma vi sono anche dei notevoli peggioramenti insiti nella innovazione in sé, sempre dal punto di vista del lavoratore: il sobbarcarsi i costi necessari per lavorare da casa, l’oggettivo rischio di isolamento rispetto agli altri lavoratori, il sostanziale aumento del peso dei rischi relativi alla salute e alla sicurezza sulle spalle dei lavoratori.

Per far fronte a questi indubbi peggioramenti nelle condizioni di lavoro e ai rischi, sopra delineati, derivanti dallo sbilanciamento della forza contrattuale a favore dei datori di lavoro, occorrerebbe stabilire, tramite la legge o tramite i contratti collettivi, un perimetro di sicurezza oltre il quale il datore di lavoro non può spingersi nel suo tentativo di sfruttare la sua posizione di forza. Sarebbe, però, una pia illusione pensare che ciò possa avvenire per gentile concessione dei poteri dominanti e dei loro portaborse. Messi di fronte a vecchi e nuovi attacchi alle condizioni di vita dei lavoratori e vecchie e nuove forme di sfruttamento, dobbiamo farci trovare compatti a difesa delle nostre vite, dei nostri diritti e dei nostri salari.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Un pensiero su “Quando lo sfruttamento si fa smart”
  1. […] Quando lo sfruttamento si fa smart | AFV. Sharing is caring! L’emergenza COVID-19 ha portato alla ribalta un concetto, quello di “smart working” o “lavoro agile”, che fino a poco prima dell’emergenza interessava una parte minoritaria dei lavoratori. Come noto, molte attività sono state svolte dai lavoratori – anche su input del Governo – fuori dall’usuale luogo di lavoro (generalmente in casa, data la pressoché totale impossibilità di uscire durante il lockdown). […]

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