Rivendicare il ritorno al sistema retributivo, l’abbassamento dell’età pensionabile e la riduzione dell’orario di lavoro (per consentire il tanto dibattuto ricambio generazionale) restano obiettivi dirimenti dei quali dovremo farci carico nei prossimi mesi.

Ci sono scenari preoccupanti all’orizzonte che non promettono niente di buono per la ripresa del conflitto di classe.

Molti dei presidi lanciati da CGIL, CISL e UIL sono stati clamorosi fallimenti, emblematica la giornata di mobilitazione delle lavoratrici delle mense che in alcune città non si è tenuta per la mancata partecipazione delle dirette interessate.

L’assenza delle lavoratrici può essere motivata in tanti modi, positiva sarebbe la presa di coscienza della inadeguatezza di rivendicazioni che alla fine si limitano agli ammortizzatori sociali: in tal caso, suonerebbe come una autentica sfiducia verso sindacati silenti per mesi che si sono limitati a sottoscrivere gli accordi relativi agli ammortizzatori sociali senza mai entrare nel merito delle questioni dirimenti, come ad esempio modalità e tempi del rientro al lavoro in presenza, rivisitazione di appalti costruiti al ribasso per contenere solo i costi della forza-lavoro.

Parliamo di contratti inferiori spesso anche alle 12 ore settimanali in virtù del fatto che gli appaltatori hanno privilegiato l’assunzione di personale per poche ore alla settimana e spesso con carichi di lavoro pesanti e senza riconoscere gli straordinari. La tendenza di CGIL, CISL e UIL ad accettare la logica dell’autonomia di impresa ha avuto solo ripercussioni negative sul potere contrattuale, gli appalti meritano attenzione ben prima della pubblicazione dei capitolati, occorre intervenire prima individuando tutte le criticità. Il regolamento degli appalti meriterebbe la nostra attenzione rivendicando ad esempio la soppressione del subappalto che sancisce l’ulteriore abbassamento del costo del lavoro.

Sicuramente le addette alle mense sono preoccupate per il loro futuro, per il mancato anticipo degli ammortizzatori sociali da parte di tante ditte che avrebbero le liquidità necessarie. Allo stesso tempo è innegabile che i sindacati abbiano avuto un ruolo regressivo nei mesi della pandemia contribuendo alla imposizione di quella pace sociale che non aiuta a rimettere in discussione le regole vigenti negli appalti e lo sfruttamento di una forza-lavoro debole e ricattata.

In ogni caso l’assuefazione alla pace sociale delle lavoratrici sarebbe invece un elemento negativo e alla lunga non consentirebbe di modificare i rapporti di forza esistenti, come dimostra il disinteresse verso l’art. 48 del decreto Cura Italia che avrebbe permesso di rinegoziare, tra committente e appaltatore, la natura dell’appalto trasformando ad esempio le mense scolastiche in mense sociali.

Poi c’è il capitolo pensioni sul quale sempre CGIL, CISL e UIL sono a dir poco silenti, anche se non intravediamo la dovuta attenzione sul tema da parte del sindacalismo di base.

Dalla svolta dell’Eur, nella metà degli anni Settanta, ad oggi abbiamo solo accumulato sconfitte con l’immancabile ruolo concertativo e subalterno dei sindacati cosiddetti rappresentativi; la classe lavoratrice si è adeguata e quanti hanno alzato la testa si sono visti recapitare procedimenti disciplinari, denunce, licenziamenti.

L’obbligo di fedeltà aziendale sta producendo in questi giorni decine di procedimenti disciplinari e licenziamenti ai danni di lavoratori che avevano denunciato pubblicamente carenza o assenza di dispositivi di protezione individuale. E anche su questo argomento è necessaria una presa di coscienza collettiva perché, in tempi di contagio, i meccanismi repressivi nei luoghi di lavoro si sono affinati e sono stati ulteriormente affinati e rafforzati.

Non una parola è stata spesa sulla permanenza delle regole di austerità con il pareggio di bilancio che negli enti locali sta provocando la crisi, forse irreversibile, dei Comuni, con l’inevitabile contenimento delle spese destinate al personale e alle spese sociali.

Ribellarsi a questo stato di cose è indispensabile soprattutto oggi, visto che con la scusa della pandemia sono iniziate le grandi manovre padronali per abbassare il costo del lavoro, ridurre le già esigue agibilità sindacali, legare il salario ai profitti aziendali, fermo restando che gli utili continueranno a essere divisi tra gli azionisti e ai lavoratori arriveranno, nel migliore dei casi, briciole se non meccanismi che condizioneranno in negativo la nostra vita mettendo a rischio l’occupazione, il salario, istruzione e sanità e le stesse pensioni.

Anche il capitolo previdenziale merita la massima attenzione. “Andiamo verso una quota del Pil ben superiore all’attuale 16% e un debito pubblico proiettato oltre il 140% del Pil”, leggiamo sulle pagine dei giornali italiani, urge allora “un costante e continuo monitoraggio dell’equilibrio finanziario di lungo termine, pena la stabilità del sistema”.

La stabilità finanziaria è l’esatto contrario di quanto serve alla classe lavoratrice: con i patti di stabilità e i vincoli di spesa in meno di 20 anni abbiamo perso 500 mila posti di lavoro nella Pubblica Amministrazione, intere produzioni sono state delocalizzate, ai contratti a tempo indeterminato sovente sono subentrati i contratti precari tra lavoro a chiamata, interinale e tempo determinato. E con la scusa della crisi sono a rischio migliaia di posti negli appalti aeroportuali e il rischio che corriamo è anche quello della precarizzazione dei rapporti di lavoro.

Nei prossimi anni arriveranno le prime conseguenze delle controriforme previdenziali del lavoro, tra la revisione dei coefficienti introdotti dal 1° gennaio 2021 per l’applicazione del metodo contributivo, gli appalti al ribasso e i tagli occupazionali già annunciati in attesa che arrivi la fine del divieto di procedere con i licenziamenti collettivi.

Fatti due conti, allora, si scopre che le pensioni potrebbero subire una perdita superiore al 20-30% rispetto all’ultima busta paga. Collegando le pensioni al Pil rischiamo di perdere altri soldi. E poi bisogna calcolare anche gli eventuali licenziamenti e anni di mancati contributi che incideranno non poco sull’assegno previdenziale futuro.

Per queste ragioni rivendicare il ritorno al sistema retributivo, l’abbassamento dell’età pensionabile e la riduzione dell’orario di lavoro (per consentire il tanto dibattuto ricambio generazionale) restano obiettivi dirimenti dei quali dovremo farci carico nei prossimi mesi.

La risposta a questo stato di cose non può essere quella di impegnare il TFR o il TFS in fondi previdenziali (su Il Sole 24 ore leggiamo che un quarto dei versamenti sarebbero bloccati) per compensare la perdita del potere di acquisto delle pensioni. In ogni caso, con le attuali regole, saranno sempre e solo i lavoratori e le lavoratrici a pagare la crisi.

28/06/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: irpinianews.it

https://www.lacittafutura.it/editoriali/io-non-ti-pago

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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