Non è l’enfasi del personaggio. Ѐ la fotografia dell’arte dell’attore, della sua passione per il teatro. Le narrazioni teatrali di Ascanio Celestini sono affascinanti.
Intervista a cura di Alba Vastano – Lavoro e Salute
C’è ben poco che mi fa concentrare di più, in una pièce teatrale, dei suoi racconti lunghissimi. E in tutto quel tempo, a volte un’ora e passa che parla solo lui, velocissimo quasi immobile sul palco, sguardo magnetico, non hai voglia di altro che di continuare ad ascoltarlo, anche fosse per ore. Il motivo non sono i monologhi in sé. Molti monologhi non si reggono. Ѐ che dentro quelli di Ascanio c’è la vita, quella autentica. Uno dei suoi temi più accreditati è quello della gente semplice e piuttosto sfigata, piuttosto ingenua, ma non sciocca. Che alla fine la fa pagare ‘de brutto’ al drittaccio, prepotente di turno, che poi tanto drittaccio non è …alla fine, prepotente sì. Ricordo il suo Giufà, l’apparente scemo del villaggio, personaggio letterario menzionato ne ‘Lo cunto de li cunti’ di Basile.
Lo scemo del villaggio in realtà è persona autentica che se ne frega delle convenzioni sociali. Giufà non ha paura di dirla in faccia alle autorità. Giufà ha il coraggio di vivere e di lottare. E Ascanio le sue narrazioni le racconta e ti affascina così tanto che a un certo punto della storia ci caschi dentro e la vivi anche tu in diretta come fossi lì, proprio dentro quella storia che alla fine sei Giufà. Che poi Ascanio non è solo l’attore, magnifico interprete del teatro di narrazione, ma è soprattutto un compagno generoso e umile. Gli chiedi una collaborazione. Se può, se c’è, non esita ad accoglierla. Tempo un giorno e arriva. Come l’intervista che segue, in cui la faccenda si fa seria, davvero seria e, se non facciamo come Giufà, ‘rischiamo la barbarie’…o l’estinzione. Grazie Ascanio
Ascanio, la prima domanda che mi viene in mente di rivolgerti comprende una serie di domande: Come hai esercitato e vissuto la tua professione in questo periodo di clausura? Sei stato artisticamente fermo, hai lavorato in rete?E ora hai ripreso la tua attività in teatro? Cos’ hai attualmente in cantiere?
Ho fatto l’ultimo spettacolo il 3 marzo a Asti. La settimana precedente saremmo dovuti stare a Torino, ma i teatri piemontesi erano stati chiusi. Poi, come se non stessero per cominciare i cento giorni più strani del secolo hanno riaperto i teatri. L’Alfieri di Asti è uno spazio classico, un bel palco con la graticcia alta, sala a ferro di cavallo e, allo stesso tempo, organizzato come un teatro contemporaneo. Abbiamo incontrato i tecnici e ci siamo tenuti a distanza, niente mascherine e guanti, ma nemmeno stratte di mano e pacche sulla spalla. Poi un macchinista ci ha preso alla sprovvista. È arrivato all’ultimo minuto e ha stretto la mano a tutti.
C’è stato un attimo di grande disagio. Io sono andato in bagno a sciacquarmi col sapone. Quello è stato per me il momento nel quale ho capito che stava cambiando qualcosa in maniera irreversibile. Io, Gianluca Casadei, il musicista e Andrea Pesce, il tecnico siamo andati in scena dicendoci “forse questa è l’ultima replica dell’anno”. Dopo gli applausi ci siamo chiusi in camerino a leggere online le ultime notizie. “Evitare baci, abbracci e strette di mano. I gesti della consuetudine quotidiana con cui in Italia ci si saluta e che possono contribuire in maniera considerevole a far correre il contagio”. Così diceva il giornale online. Abbiamo smontato e caricato la scena sul furgone. Io avevo un panino avanzato dal pranzo. Andrea e Gianluca, birra e kebab. Abbiamo mangiato in albergo davanti alla televisione che parlava delle disposizioni del governo.
Nei giorni successivi ho cercato di far finta che quel tempo immobile fosse tutto recuperato per lo studio e la scrittura, ma dopo un paio di settimane è diventato un tunnel senza fine. Per scrivere ho bisogno di incontrare le persone, raccogliere le storie. In cattività vivo la rete come una costrizione insostenibile. Le storie online sono tutte finte, anche quelle vere. Perché è finto il contenitore. Ti sembra di stare al centro del mondo e invece stai chiuso nel tuo buco. Ho cercato di trovare qualcosa di concreto in tutta quella palude di finzione e mi sono convinto ancora di più che il teatro non ha bisogno di surrogati. Il teatro siamo noi (artisti, tecnici, spettatori) che usciamo dalla porta di casa e ci lasciamo le quattro mura private alle spalle per incontrarci in un luogo pubblico, comune. Persino il cinema in televisione m’ha dato più fastidio del solito. Appena è stato possibile sono tornato sul palco. Il 15 giugno a mezzanotte e un minuto stavamo al Teatro Sperimentale di Pesaro con Radio Clandestina, uno spettacolo che porto in scena da vent’anni.
Adesso siamo ripartiti in tournée con mille difficoltà, ma è più vero questo teatro difficile di quella roba fasulla che ha girato in rete per tre mesi. Tanta polvere alzata senza che nessuno andasse davvero da qualche parte.
Quanto ha pagato la cultura e quanto ha sofferto il teatro nel periodo epocale della pandemia. E quanto ancora il mondo della cultura e le attività collegate dovranno pagare lo scotto del precedente blocco del settore, considerando che persistono ancora forti limitazioni nell’aprire i luoghi pubblici di cultura per favorire il distanziamento?
Gli spazi dello spettacolo (che in questo periodo sono soprattutto all’aperto) dovrebbero aprire tutti. Nella maggior parte dei casi le difficoltà sono soltanto un pretesto. Gli spazi non hanno bisogno di igienizzazione straordinaria. In più rispetto alla consuetudine serve alcol o varichina. Punto.
Poi ci sono le mascherine da indossare fino al raggiungimento del posto a sedere e un po’ di distanziamento. Hanno riaperto ristoranti e parrucchieri, i supermercati non hanno chiuso mai e nemmeno le fabbriche di armi. Centinaia di migliaia di studenti sono stati abbandonati nelle mani di insegnanti che si sono inventati una didattica da zero senza un minimo di aiuto. È stato un lavoro esemplare non meno importante di quello fatto da infermieri e medici. Il ministro della cultura e quello dell’istruzione avrebbero dovuto ricordare a Conte e al paese che in Italia si fanno bulloni da centocinquant’anni, ma si produce cultura da almeno trenta secoli. La nostra classe dirigente sta comunicando al paese quello che il Presidente del Consiglio ha detto con una battuta. Gli artisti sono un’alternativa all’aperitivo, sono quelli che “fanno sorridere”. Agli Stati Generali ne hanno invitati alcuni solo per fare vetrina.
Non a caso quel confronto s’è chiuso con una bravissima cantante che ha intonato la canzone con la quale ha vinto Sanremo, come riporta Adnkronos “incassando un caldo applauso dei presenti”. Siamo animatori turistici, pagliacci che portano la torta con le candeline e intonano “tanti auguri a te” alle feste dei bambini ricchi.
Pensando in distopia, consentimelo. Ammesso che un teatro senza pubblico non possa definirsi tale e considerando che, così come affermava il grande Eduardo de Filippo, è il pubblico il vero protagonista, pensi che, in previsione della sparizione di molti centri di cultura, causa crisi economica, avverrà una deriva verso la platea digitale e quindi il pubblico fisicamente sparirà, così come il teatro, quello vero?
Esiste già lo spettacolo senza gli attori in carne e ossa. Si chiama cinema, per esempio. E si può produrre arte in rete, in televisione o semplicemente scrivendo un libro che ognuno legge per conto proprio. Ma il teatro è dal vivo. Le alternative sono tante, ma sono un’altra cosa, hanno altri nomi. Il teatro, nelle sue molteplici forme, esiste da sempre e in ogni parte del mondo. Non è stato azzerato dalle guerre e dai genocidi, dalle pestilenze e dalle dittature. Non sarà un virus per il quale avremo presto un vaccino che farà sparire una storia millenaria. La gente può tornare in teatro se le istituzioni ci consentono di riaprirli. La stessa gente che è tornata in trattoria, dal parrucchiere e in questi giorni riempie le spiagge.
In emergenza la rete ha consentito la continuità di molte attività lavorative, tramite lo smart working. Anche le attività legate al mondo del teatro e della cultura hanno utilizzato la rete per mantenere il contatto con il pubblico. Come recita un attore teatrale senza respirare il suo pubblico, senza vederlo. Non avverte una sensazione di vuoto o un attore, in quanto tale, recita con la stessa passione anche in una stanza vuota?
Se limitiamo il teatro a quello che succede durante lo spettacolo facciamo fatica a comprenderne la forza. Spesso la rappresentazione teatrale è sporca, piena di errori. È facilmente meno interessante di un’opera fissata in una scrittura rigida e immodificabile come il romanzo o il film. Ma noi dobbiamo ricordarci che il teatro sta alla fine e all’inizio di una serie di processi. Lo spettatore decide di andare in un teatro, si prepara, si ritaglia del tempo, elabora delle aspettative.
Contemporaneamente l’artista modifica la sua rappresentazione e la ricolloca ogni volta in una cornice diversa. Emotivamente, storicamente e anche geograficamente c’è un peso sullo spettacolo che ne cambia ogni volta le ragioni. E dopo lo spettacolo ognuno riporta a casa emozioni e saperi che devono essere ricollocati. Tutto questo accade in un tempo, in luogo e tra persone che riempiono di senso l’opera teatrale. La ritualizzano. Senza questo rito il teatro non esiste. È un’altra cosa.
Un’altra vittima sacrificale del Covid è sicuramente la scuola. Sostituita dalla Dad che probabilmente continuerà a fasi alterne con il nuovo anno scolastico. Cosa pensi della Dad e, a tuo parere, cosa ha comportato la chiusura delle scuole? Quali danni, per il processo di apprendimento degli studenti soggetti ad una connessione per seguire sistematicamente le lezioni?
Sono stati fatti due errori imperdonabili. Il primo è stato pensare che si poteva prendere la didattica in uso “dal vivo” nelle scuole e trasferirla nella relazione a distanza. Sono due mondi diversi. Un bravissimo insegnante nella classe può essere un alieno nel momento in cui si pone davanti a un computer. Un analfabeta che deve ricominciare da zero. Pensare che un bravo insegnante di storia possa insegnare bene in una classe e anche attraverso la rete è un’ingenuità imbarazzante. La rete è un “lingua” che bisogna imparare.L’insegnante di storia che non la conosce è come se parlasse agli studenti comunicando concetti giusti con le parole di una lingua straniera e incomprensibile.
Il secondo è nel non aver riscritto una cornice per la relazione insegnante-studente utilizzando i linguaggi che normalmente si usano nella rete. È più efficace un buon documentario di una bella lezione. Perché il documentario “parla” la lingua della rete, usa il montaggio, l’immagine, la costruzione visiva e sonora che un insegnante davanti alla webcam non ha a disposizione.
Ma tutti questi sono problemi che gli insegnanti si trovano a dover affrontare da soli con l’unico supporto di chi ha voglia di fare, ovvero i colleghi, le famiglie, qualche associazione… quando è possibile e quando ci sono le competenze e la volontà. Da questo punto di vista la scuola è parente del teatro. La scuola è, come mi disse una professoressa, “un’insegnante in una classe”. Il teatro è “un attore sul palco”.
Soffermandoci ancora su scuola e teatro, quando si tornerà alla gestione normale delle due attività sarebbe anche il caso di dare un sguardo più attento alle scuole di teatro che, al momento, sono poche e selettive. Riservate a chi può permettersele economicamente. Di certo di popolari e free ne esistono ben poche. Magari dietro un aspirante attore costretto a rinunciare, perché non può permettersi la quota di partecipazione, c’è un vero artista che resta tagliato fuori. C’è un modo per incentivare l’accesso alle scuole di teatro o cinema, senza l’intervento di fondi da parte del governo?
Le scuole rinomate sono poche, ma il paese è pieno di corsi d’ogni tipo e per ogni tasca. Fortunatamente l’Italia è una nazione fatta di mille territori differenti e difficilmente riconducibili a un ordine buono per tutti. Se, da una parte, l’aspirante teatrante non sa a chi rivolgersi e non riconosce autorità a qualcuno in particolare, dall’altra ha la possibilità, soprattutto nel centro e nel nord, di trovare un teatro in ogni borgo. Il problema diventa più evidente quando si comincia a scendere verso Roma.
Per quanto riguarda i soldi pubblici: non solo credo che molte più realtà dovrebbero avere accesso ai fondi pubblici, ma che dovrebbero anche diventare più consistenti.
Covid, lavoratori dello spettacolo e categorie varie al limite della povertà. In Germania 5000 euro direttamente sul conto dei contribuenti, qui 600 euro. Il Governo tace e dà briciole. Considerando che gli investimenti per la ripresa del settore consistono in soli 130 milioni (forse si arriverà a 250 milioni?), laddove per il teatro le perdite subite e stimate dalla Siae in questi mesi sono calcolate intorno a centinaia e centinaia di milioni. Un’ulteriore vergogna tutta italiana.
Mi arriva oggi il messaggio di Andrea, il tecnico del mio spettacolo, sulla chat della compagnia: arrivato saldo bonus maggio, tutti insieme 1200€. Risponde Gianluca il musicista: arrivato anche a me oggi. Per ottenere quei 600 € mensili bastano “sette” giornate lavorative nel 2019. E dunque gli stessi soldi sono stati dati a chi guadagna 500 euro in un anno (la minima sindacale è poco più di 70 € lordi al giorno) e a chi ha perso venti giornate lavorative al mese come il mio fonico. Il governo ha fatto l’elemosina creando una disparità colossale.
Chi fa l’attore amatoriale (o lavora in nero) ci ha guadagnato senza lavorare. Chi ci campa una famiglia ha preso la stessa cifra perdendo i guadagni con i quali normalmente riesce a vivere nei mesi in cui non c’è lavoro. Ma questo, lo ripeto, succede perché il governo non s’è relazionato con i lavoratori del nostro settore, né con i sindacati che (un po’) ci rappresentano. Ha preferito la passerella di Villa Pamphili e ha confidato nel fatto che in qualche maniera ci arrangeremo come abbiamo fatto sempre.
Fine pandemia o quasi. Persone smarrite e impaurite con la voglia, ma anche con la paura di non poter tornare alla normalità. Sono in molti a restare volontariamente in lockdown, altri si buttano nella mischia come e più di prima. Come tornare alla vera normalità, ad una dimensione più umana, che non è la precedente. Come costruire una nuova società, una nuova normalità, senza perdere di vista la sicurezza e la tutela della salute pubblica?
Penso che valga la pena tener presente le battaglie che sono state combattute nei decenni passati. La legge 300 del 1970 ha dato regole e dignità ai lavoratori. Quelle su aborto e divorzio hanno messo al centro di tanti dibattiti il ruolo della persona per il bene della società e soprattutto della donna. L’istituzione del servizio sanitario nazionale ha sancito il diritto alla salute per tutti a prescindere dalle disponibilità economiche. E nello stesso anno abbiamo cominciato a smontare quei campi di concentramento disumani che erano i manicomi. Mi pare che guardando al recente passato abbiamo sufficienti stimoli per pensare al futuro.
E infine… di virus, se non ci si infetta, si potrebbe anche impazzire pensando al disagio economico che a molti lavoratori precari, già prima e tanto più dopo pandemia, riserva il futuro? Avremo una nuova società di folli e di nuovi poveri? Per la serie ‘Scarpe rotte e neuroni in tilt? Pensare positivo non è semplice nel nuovo scenario che a molti si prospetta.
“Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha”. Lo scriveva più di cinquant’anni fa Basaglia. Dobbiamo riabituarci a ragionare attraverso analisi comparative. Se focalizziamo solo un punto nella società ci perdiamo tutto il contesto.
Le persone possono essere buone o cattive, ma è il meccanismo nel quale sono infilate e al quale sono funzionali che dobbiamo comprendere. Durante questa emergenza sono spesso state fatte scelte che tutelavano il guadagno. La sanità ha funzionato meglio non dove aveva macchinari migliori (forse in Lombardia), ma dove tutelava di più la salute pubblica. La scuola è stata lasciata all’impegno degli insegnanti perché gli studenti non sono consumatori migliori quando entrano in una classe rispetto a quando non ci vanno. Se ripensiamo in maniera socialista (non sovietica stalinista, ovviamente) alla nostra comunità, mettendo il capitale in fondo all’ordine del giorno, forse abbiamo veramente la speranza che nessuno resti indietro. Temo che altrimenti davvero l’alternativa sarà la barbarie.