C’è sempre un non so che di giacobino nei trittici, antichi o moderni che siano. Il richiamo alla parte più fortemente egualitaria della Rivoluzione francese è l’eco lontana di un Big bang sociale che, tradito, vilipeso e mortificato da tanti suoi fedelissimi, ritorna in un presente sempre uguale e molto differente da mese a mese: la velocità involutiva della globalizzazione è spaventosa, così come i diritti che divora di giorno in giorno nel nome della”modernità” e della “ricchezza nazionale“.
Ed eccolo il nuovo trittico: “Uguaglianza, cultura, lavoro“. Dove la libertà è inclusa in tutti e tre i concetti: nell’uguaglianza sociale e civile, nell’accesso per tutti alla cultura, al sapere e alla personale crescita formativa che non deve essere privilegio dei più abbienti ma diritto universale (costituzionalmente riconosciuto, del resto…), nel diritto al lavoro. Non serve nominarla, la libertà. La si riconosce come quarto elemento invisibile, come un convitato di pietra particolarmente eccellente.
Nemmeno serve nominare la fratellanza: sta a pieno titolo dentro tanto la voglia di uguaglianza così bene richiamata in tanti interventi che si rivolgono proprio all’unità di classe, al riconoscersi come uguali nell’approdo a Roma e differenti nei cammini che qui li hanno condotti. Ci sono comunisti di vecchia data, giovani, sindacalisti di base, anarchici, libertari, ecologisti, precari, disoccupati, senzacasa, un po’ quella schiera degli “ultimi del mondo” che cantava Ivan Della Mea.
Particolarmente gradito è riferimento alla necessità di uno sviluppo culturale, di quella “palestra del confronto dove non si grida, ma ci si confronta“. Aboubakar Soumahoro ha così sintetizzato davanti ai giornalisti un programma per l’interconnessione di tutte quelle realtà sfruttate che esigono di poter vivere e non sopravvivere come invece sono ormai tristemente abituate a fare da tanto, da troppo tempo.
Gli “Stati popolari” sono la vera e propria riconoscibilità dei valori anticapitalisti e antiliberisti che non erano rintracciabili minimamente in quelli governativi di Villa Pamphili. Là l’istituzionalismo legato alla necessità di coniugare esigenze sociali con prevaricazioni padronali e confindustriali; qua, tra i sindacalisti dell’USB, tra i riders, tra i Black lives matter, tra i Fridays for future, tra le forze comuniste che sono presenti e quelle di movimento, delle tante spontanee aggregazioni sociali diffuse nella Penisola, si guarda anche al piano di lotta istituzionale, ma prima di tutto si ricerca una piattaforma di gravità permanente dove far crescere l’uguaglianza, una nuova cultura della medesima e mettere il lavoro al centro della lotta.
Giustamente si insiste parecchio sulla questione concernente la cultura, quindi la disposizione critica di ognuno di noi e la necessaria sintesi da trovare per ricomporre uno schema di riconoscibilità tanto individuale quanto collettiva che permetta la federazione delle rivendicazioni dei diritti sociali, dei diritti civili e di tutti quei valori che, di per sé stessi, sono egualitari: la solidarietà di classe, quella sociale, civile; l’internazionalismo e il riconoscimento di una fratellanza universale opposta al sovranismo e ad ogni declinazione delle differenze come elementi di discriminazione di ogni tipo piuttosto che come pilastri valoriali su cui far crescere una nuova stagione del costituzionalismo repubblicano.
Gli “Stati popolari” iniziano con un appello: quello di rendere visibili gli “invisibili“, i dimenticati, coloro che sono lasciati al logorio del tempo, prigionieri di tutta una serie di lacci burocratici che impediscono lo) sviluppo pieno della vita: dei lavoratori precari, dei disoccupati, di tutti coloro che hanno rinunciato a cercare un lavoro (gli “inattivi“).
Una visibilità ritrovata in tanti racconti, in tante esperienze di sfruttamento che il pensiero unico di classe non può che definire “normale sviluppo della modernità“.
Di pari passo con la ricomposizione sociale e politica di tutte le categorie di sfruttati dell’oggi e del domani deve andare la ricerca di un luogo politico dove questa esigenza trovi un nuovo punto di connessione tra piazza e rappresentanza, senza scindere più i due elementi, i due piani: quello del richiamo alla soddisfazione dei bisogni elementari di ogni essere vivente e quello della traduzione di queste necessità di esistenza in una piattaforma programmatica che ricomponga anche il divario tra il sindacalismo e la forma-partito o movimento che possa dirsi ed essere.
La chiarezza delle posizioni deve essere una delle caratteristiche del rinnovamento politico del sociale e deve potersi esprimere tanto propositivamente quanto contrariamente: deve saper dire dei SI’ coraggiosi e dei NO altrettanto energici per rimanere indipendente dal restante mondo politico tutto uniformato alle ragioni del mercato, della concorrenza, della libertà di impresa, della libertà di sfruttamento.
Ben vengano anche le famose “sardine” a sostegno degli “Stati popolari“, ma stare nella piazza di Aboubakar vuol dire necessariamente riconoscere la contraddizione di trasferirsi poi in quella dove si sostiene il “meno-peggio” sul fronte politico-elettorale. L’alternativa sociale o è anticapitalista e antiliberista, contro qualunque privatizzazione e lega diritti sociali con diritti civili, quindi economia a vita concreta delle persone, dei moderni proletari, oppure è una pia illusione riformistica.
Bisogna evitare qualunque fraintendimento, qualunque tentazione di mettere insieme il tutto per il tutto senza mai arrivare al niente perché ci si perde alla fine nella realpolitik più realista del re.
La risposta di classe, che include anticapitalismo, antirazzismo, antifascismo e ogni sostanza di opposizione al liberismo che produce tutte le storture diseguali di questa società antisociale, contrasta con i tatticismi delle segreterie di partito, con le finte sinistre che stanno al governo e con i populismi che promettevano rivoluzioni contro la “casta” e che hanno finito per divenire essi stessi una nuova “casta“. E’ nel DNA di una politica che piega i suoi valori a quelli di un presuntuosamente “sano” pragmatismo che, alla fine, non è altro se non la piena adesione alle compatibilità del mercato.
Ciò che veramente è importante è la ricollocazione del tema economico del lavoro, astratto non dal contesto in cui si inviluppa (sul terreno dello sviluppo dei diritti per i lavoratori stessi), ma pienamente inserito invece nelle vaste contraddizioni che sono emerse senza più orpelli e infingimenti con la crisi del coronavirus. Lo scrive molto bene uno psicoanalista, saggista ed accademico come Massimo Recalcati oggi su “La Stampa“, quotidiano non certo marxista o anche timidamente riformista in tal senso.
Dice bene Recalcati quando accosta Darwin e Marx e li individua come i due volti “emersi” da questa emergenza sanitaria; due volti che si sono mostrati nello specchio in cui ci riflettiamo quotidianamente e in cui non facciamo che vedere la cruda realtà omicida giornaliera che l’umanità scaraventa contro sé stessa, spinta da un nucleo sempre più esiguo di grandi detentori di ricchezze, pari al Prodotto interno lordo di continenti interi, nemmeno più di singole nazioni, a fronteggiarsi nella miseria, nella povertà, attraverso la dimensione plastica di una politica sovranista che crea le contrapposizioni tutte moderne di un rinnovato ritorno al razzismo come elemento disciplinante la gerarchia dei bisogni e delle priorità.
La diversità è negativa. Non può essere altrimenti laddove deve essere vissuta come spartiacque tra chi sopravviverà e chi sarà invece lasciato sempre più progressivamente indietro e dimenticato, reso per l’appunto “invisibile“.
La conclusione dello psicoanalista non è consolatoria, non vuole accarezzare i più deboli e giustificare il sistema che li genera e li getta nel tritatutto dei diritti sociali (e civili). Recalcati chiede uno scatto tanto emozionale quanto culturale, nonché civile e sociale. Come lo hanno chiesto tutti i partecipanti agli “Stati popolari” romani convocati da un sindacalista italo-ivoriano che ha avuto il coraggio di studiare, di riuscire a fronteggiare televisivamente dotti parrucconi di politica economica che pretendevano di saperne di più, magari involontariamente, per il solo fatto d’essere bianchi, autoctoni e con qualche esperienza di legislatura alle spalle.
Questo non è un panegirico, ma un applauso molto sincero al percorso realizzabile per ciascun essere umano: un cammino di emancipazione e di presa di coscienza dei propri diritti. Ed anche dei propri doveri: nei confronti di una comunità, quindi di ognuno di noi. Partendo dalla singolarità per arrivare alla collettività e ripartendo da questa per declinare il rinnovamento culturale della descrizione dei diritti moderni del lavoro e del non lavoro in ogni singola storia umana.
La piazza di Aboubakar ha volato alto ma anche proposto un nuovo “manifesto” per il qui ed oggi. Non fosse altro per smentire chi ritiene puro onirismo il riferimento ad un mondo da capovolgere radicalmente: è un “Manifesto per giustizia, libertà e felicità“. Sosteneva Nichi Vendola che “E’ meglio essere felici“. E chi mai vorrebbe essere infelice?
Ma se è meglio, come lo è e deve poterlo essere per un sempre maggior numero di sfruttati, lavoratori, pensionati o studenti che siano, allora sarebbe bene che questa felicità fosse il frutto di una giustizia sociale che è libertà dai bisogni e dalla condizione endemica della sopravvivenza nell’indigenza più nera in una modernità che non è moderna se non nel trovare sempre un nuovo modo di adattarsi alle crisi cicliche dei tempi, del capitalismo che si innova e che si rivoluziona senza che ce ne accorgiamo.
Piazza San Giovanni era piena di coscienze critiche, di coscienze veramente consapevoli del modo in cui i corpi che le rappresentano fisicamente sono costretti, giorno dopo giorno, a rimandare una riscossa sociale a causa dei tanti loro simili che si lasciano sedurre dalle promesse dell’oggi che negano, ripetutamente e senza possibilità di appello, il domani che resta, dunque, tutto, veramente tutto da costruire.