I piani di sostegno post-Covid al settore dell’automotive messi in campo da Francia e Germania mettono in luce l’indeterminatezza della politica industriale italiana. Per il settore dell’auto in Italia si prefigura ormai soltanto la possibilità di un ruolo laterale e complementare alle ambizioni tedesche.
L’Italia non avrà un suo piano per l’industria dell’automobile. Non seguirà la falsariga di altre nazioni, Francia in testa, che si sono affrettate, fin dallo scorso maggio, a indicare le linee per la ripresa di un comparto industriale cui annettono rilievo strategico e che vogliono preservare dall’urto del coronavirus. Da tempo, peraltro, l’Italia ha rinunciato a precisare quale debba essere l’architettura industriale della propria economia e ha ripiegato su misure di semplice contenimento della riduzione del proprio apparato produttivo, spesso inefficaci.
Finora il problema dell’auto è stato affrontato attraverso un solo provvedimento importante, cioè il prestito garantito a Fiat Chrysler dallo Stato per la continuità delle attività italiane del gruppo, disancorato da ogni altra linea di intervento, si trattasse degli incentivi al mercato, varati ai primi di luglio, o del sostegno alla filiera produttiva che fa capo ai produttori tedeschi. Una simile indeterminatezza, accentuata dal confronto in corso tra Fca e Psa per la fusione e la nascita di un nuovo gruppo automobilistico, non rappresenta certo una premessa rassicurante per i marchi italiani, per gli impianti di produzione situati nel nostro Paese, per la possibilità di assicurare un radicamento a un comparto industriale che andrà sicuramente soggetto a un radicale riassetto nei prossimi anni. In una situazione così incerta e fluida, è probabile che alla fine la configurazione dell’industria automobilistica italiana finirà forse col dipendere più dai piani degli altri paesi europei che dal governo di Roma. Ecco perché occorre considerare con attenzione i piani per l’auto e la mobilità messi a punto dai governi francesi e tedesco per comprendere i riflessi che avranno sull’auto italiana.
La lettura del documento del governo francese Plan de soutien à l’automobile. Pour une industrie verte et compétitive, diffuso a fine maggio, può generare un effetto duplice in un osservatore italiano interessato alle prospettive dell’industria dopo il coronavirus. Da un lato, desta un senso di rammarico perché il nostro governo non è mai stato altrettanto reciso nel valorizzare le ragioni dell’industria ai fini dello sviluppo economico di domani né tantomeno ha mai usato espressioni altrettanto nette nell’enfatizzare il rilievo del sistema dell’auto (nel testo se ne parla come di “una posta strategica per l’economia francese”). Dall’altro, suscita tuttavia anche una reazione di insoddisfazione perché il ragionamento sull’automobile è condotto per intero all’interno della cornice nazionale, come se la dimensione europea non esistesse e come se la sorte dei gruppi francesi non dipendesse per buona misura dall’integrazione con i sistemi industriali delle altre nazioni (con l’Italia e gli Stati Uniti, visto che Psa dovrebbe fondersi a breve con Fca; col Giappone, visto che Nissan e Mitsubishi sono alleati strategici di lungo periodo di Renault).
La logica dell’integrazione stride almeno in parte con l’enfasi posta sulla ricerca di una condizione di primato per la Francia, cui è assegnato, neanche troppo sottotraccia, il compito di sfidare la posizione dell’industria tedesca. Il piano francese dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l’assenza di un coordinamento europeo sulla politica industriale dell’automobile, lasciata di fatto alle ambizioni egemoniche dei maggiori paesi produttori, che non vogliono farsi sottrarre un ruolo di guida nella transizione tecnologica. Così, il riferimento all’indirizzo ecologico finisce di fatto con l’essere sfumato, giacché sarebbe molto più efficace se fosse calato nella logica continentale.
Il governo francese continua a insistere sul valore della produzione automobilistica, pari nel 2019 a 155 miliardi di euro, grazie a 2,2 milioni di veicoli realizzati da 400.000 occupati, con un export che ha raggiunto i 51 miliardi. Cifre rilevanti, che rappresentano il 18% del giro d’affari complessivo dell’industria manifatturiera francese e che rinviano a un’importante base produttiva e tecnologica cui il governo non vuole rinunciare. Sembra di poter concludere che la Francia intenda perseguire la salvaguardia dell’industria automobilistica nazionale ponendo l’obiettivo per il 2025 di una produzione di un milione di vetture elettriche. Uno scopo simile implica una forte mobilitazione che deve iniziare fin da oggi, sia sul fronte del mercato e dei consumatori, mediante una gamma differenziata d’incentivi all’acquisto delle vetture elettriche, sia sul fronte della produzione, creando le condizioni per rafforzare le teste della filiera, che dovranno rimanere ben salde in Francia.
Non basta dunque il semplice mantenimento delle strutture esistenti, ma occorre il loro potenziamento. E a questo proposito il governo francese non è parco di parole, quando richiama lo sforzo che va fatto per la localizzazione sia dei centri di Ricerca&Sviluppo sia della capacità produttiva. Determinante appare lo sforzo per dotare la Francia di un grande impianto per la fabbricazione delle batterie. Ma l’elettrico per espandersi ha altresì bisogno di infrastrutture di sostegno molto articolate, come l’attivazione di 100.000 punti di ricarica su tutto il territorio nazionale entro il 2021, con un’attenzione speciale per le stazioni di rifornimento situate lungo i maggiori assi di comunicazione stradale.
Le istituzioni francesi sono risolute a contrastare la possibilità di un declino del loro sistema dell’auto. E per farlo ipotizzano uno scenario interventista, in cui lo Stato dirige e orienta la presenza produttiva azionando tutte le leve a sua disposizione, agendo cioè sia dal lato dell’offerta che da quello della domanda. Tutto questo allo scopo di favorire il reshoring, accrescere la capacità strategica dei suoi soggetti maggiori, fare dell’industria francese il polo trainante della nuova mobilità elettronica.
Sarà il tempo a stabilire se questi obiettivi siano raggiungibili e non siano invece sovraordinati rispetto a una dinamica evolutiva dell’auto che probabilmente non può essere pianificata fino a questo punto. Certo, la logica che informa il piano è guidata dalla volontà di ristabilire la potenza economica della Francia, facendo intendere che i soggetti d’impresa debbano muoversi in consonanza con le finalità e gli interessi nazionali. Un simile approccio non concede molto margine all’interazione con le componenti industriali di diversa estrazione. Renault dovrà porre estrema attenzione nella riscrittura del patto con Nissan, riconoscendo più spazio all’alleato giapponese. Ancor più complicato il compito di Psa, che si accinge a una fusione in cui dovrà tener conto di motivi e interessi che non coincidono con quelli della Francia industriale. Inevitabile, per esempio, chiedersi quale sarà nel nuovo gruppo che sorgerà dalla fusione con Psa il posto delle produzioni italiane.
Se l’auto elettrica costituisce un obiettivo prioritario della politica industriale francese, che vuol fare di essa il cardine della propria presenza nel sistema della nuova mobilità, quale rilievo potrà ottenere la 500 elettrica, che sta entrando in lavorazione a Mirafiori? E ancora: quale sarà la sorte di marchi come Alfa Romeo e Maserati, per i quali si è sentita ventilare persino l’ipotesi di uno scorporo, che ora acquistano un risalto ancor più significativo per l’offerta automobilistica italiana? L’assenza di uno scenario di riferimento europeo rende questi interrogativi urgenti, dal momento che le linee attuative del piano francese dovranno essere le più celeri. Inspiegabile risulta il silenzio del governo italiano, che sembra prescindere dalle conseguenze per la nostra industria della nascita di un nuovo gruppo automobilistico a guida francese. Senza un retroterra politico istituzionale, il nostro automotive non disporrà di risorse di sistema su cui contare, sicché non si comprende come ci si potrà avvalere delle opportunità che dovrebbero discendere dalla fusione in programma.
Tutta un’altra prospettiva rispetto a quella francese emerge dalla lettura dei 57 paragrafi che compongono il documento tedesco Combattere le conseguenze del coronavirus, assicurare la prosperità, rafforzare la redditività futura, presentato il 3 giugno da una Commissione nominata dalla coalizione di governo, mostra come la Germania, dopo la pandemia, si candidi a esercitare un nuovo ruolo di guida in Europa. Tanto per cominciare, il riferimento all’Unione costituisce un contrappunto continuo, come per confermare che il governo tedesco intende commisurare le sue azioni a uno scenario continentale che non esce mai dalla sua visuale. Rispetto all’approccio francese, lo stacco del documento tedesco vuol essere netto, a convalidare il principio che non ci possa essere un interesse nazionale della Germania distinto dalla prospettiva europea. Una seconda differenza da rimarcare è la visione olistica che è sottesa: non esistono problemi dell’auto che possano essere affrontati in maniera distinta da quelli della mobilità più in generale, così come non si può discutere di mobilità senza preoccuparsi di disegnare i contorni di un modello di sviluppo fondato sul principio della sostenibilità ambientale. Chiaro il messaggio: la necessità di ripensare le basi dell’economia dopo il coronavirus è un’opportunità che va colta per una sorta di revisione generale.
Una Germania diversa, allora, da quella che è stata nel suo passato recente? Sì e no: sì, perché risulta nuova la ricerca di una coerenza interna e di una compatibilità da realizzare trasversalmente ai comparti dell’economia; no, perché dal testo fanno capolino le radici storiche dell’egemonia economica tedesca, che il governo si propone semmai di consolidare, non certo di abolire. Tale è, per esempio, il caso dell’export, giacché anche nel nuovo contesto la Germania intende salvaguardare la posizione di straordinario vantaggio che si è assicurata all’interno del commercio internazionale. Forse proprio quest’ultimo è l’elemento più contraddittorio entro uno schema politico-culturale che tenta di compiere un consistente sforzo di innovazione. Ma probabilmente il governo tedesco è troppo consapevole del peso del proprio apparato produttivo per immaginare di poter ridurre la tensione verso le esportazioni.
Inevitabile che l’occhio del lettore italiano corra ai paragrafi relativi alla mobilità, alla ricerca delle ripercussioni per il nostro paese, considerato che una parte cospicua della nostra filiera automotive gravita sulla Germania. Il paragrafo 35 si apre con un’affermazione impegnativa: “Un’infrastruttura di trasporto e mobilità efficiente è un prerequisito per una rapida ripresa e una nuova crescita praticamente in tutti i settori economici”. Ma la mobilità deve essere rafforzata “garantendo al contempo maggiore sostenibilità e protezione del clima”. Ecco la ragione degli incentivi concessi ai veicoli a emissioni più ridotte, con l’esenzione fiscale per le vetture elettriche prorogata al 31 dicembre 2030.
Nel campo della ricerca il governo finanzierà con 2 miliardi di euro nel 2020-21 le attività di Ricerca&Sviluppo soprattutto nei sistemi di fornitura del ciclo dell’auto. Altri 2,5 miliardi saranno investiti nelle strutture di carica e nella produzione di batterie elettriche, cioè nel framework da cui dipende la diffusione dell’auto elettrica. Seguono le misure per il trasporto urbano: “Al fine di aumentare la domanda di autobus elettrici e rendere i trasporti urbani più rispettosi dell’ambiente, i finanziamenti per gli autobus e la loro infrastruttura di ricarica saranno temporaneamente aumentati fino alla fine del 2021”, con un finanziamento di altri 1,2 miliardi di euro. Sullo sfondo di questi interventi, si staglia un obiettivo molto più ambizioso: “rendere la Germania il fornitore mondiale di tecnologia all’avanguardia per l’idrogeno”. Se raggiunto, esso consegnerebbe alla Germania un’egemonia europea ingigantita.
Il livello delle ambizioni tedesche è tale da suonare come un invito alle altre nazioni europee di seguire e di appoggiare la Germania nel processo di trasformazione che delinea. Chiaro come per l’Italia, a questo punto, si profili soltanto la possibilità di un ruolo laterale e complementare di accompagnamento della Germania nell’itinerario verso una riconfigurazione dello sviluppo europeo. Certo, il nostro automotive potrebbe inserirsi in questo solco, giocando la carta attività innovative di frontiera nel campo della nuova mobilità. Forte delle proprie specializzazioni dovrebbe costruire una matrice capace di saldare imprese, centri di ricerca, università, qualificando una proposta progettuale e tecnologica, per esempio nell’area del trasporto urbano. Ma non è questa una strada che possa essere perseguita senza un impegno delle istituzioni.
Eppure, è in questa direzione che si dovrebbe andare, se non ci si vuole rassegnare a un destino di completa subalternità in una partita che sarà nelle mani di altri. Ancora, è in questo ambito che esistono le competenze e le opportunità migliori per impiegare risorse che altrimenti rischiano di essere sottoutilizzate, se non addirittura di finire disperse. Allo stato attuale, però, le prospettive dell’automotive italiano restano enigmatiche, ciò che getta un’ombra sul nostro futuro industriale.
* Giuseppe Berta, storico dell’economia, insegna all’Università Bocconi di Milano.