Lo scorso 20 giugno Michele Salvati, voce storica del PD e della sinistra riformista, scriveva sul Corriere della Sera: «Gli storici hanno da tempo messo in rilievo l’antica dannazione italica dei partiti “antisistema”, partiti che non potevano far parte delle coalizioni di governo anche se erano rappresentati in Parlamento. Non potevano farlo perché il loro programma politico contrastava con i principi in base ai quali una democrazia liberale e\o un’economia di mercato si erano di fatto assestate nel nostro Paese. (…) Finito questo conflitto per il collasso dell’Unione sovietica, ci si poteva attendere che fossero esaurite anche in Italia le ragioni per escludere come “antisistema” partiti che accettassero i criteri di una democrazia liberale, di un’economia capitalistica e fossero legittimamente rappresentati in Parlamento. E di fatto si instaurò per alcuni anni, tra il 1994 e il 2018, una alternanza destra\sinistra che includeva tutti (…). Poi, con le elezioni del 2013 e del 2018, arrivarono in Parlamento partiti populisti-sovranisti (…). Che si collochino a destra o a sinistra, la concezione di democrazia da essi condivisa è in conflitto con quella liberale, parlamentare e rappresentativa».
Un tono candido e lineare, un’argomentazione che non sembra fare una piega. Se non fosse per un solo dettaglio: il misterioso ritorno di questo spettro, i “dannati” partiti “antisistema”, che vengono periodicamente a turbare l’innocente rotta della democrazia liberale sugli intrascendibili, universali orizzonti del sistema vigente. Si tratta di una narrazione rassicurante quanto falsa e cieca, che dopo aver sedotto per circa trent’anni i cuori e le menti di quella sinistra “illuminata”, “moderata”, che esce dalle rovine di Pci, Psi e Dc – passando per i vari D’Alema, Amato e Prodi – risulta ormai indigeribile per le nostre coscienze disincantate, che in un contesto economico-politico sempre più insensato, soffocante e indistricabile, anelano disperatamente (spesso senza saperlo) ad una alternativa di mondo e di società.
Non è poi tanto difficile capire ciò che spinse milioni di italiani a votare, alle ultime elezioni nazionali, forze politiche che si dichiaravano estranee o apertamente critiche nei confronti dell’intero assetto politico-culturale della Seconda Repubblica. Ce lo ricorda assai lucidamente Carlo Galli, filosofo e politico egli stesso di sinistra, che nel marzo 2018 scriveva: «Sconfitta del “sistema”; ovvero, rigetto dell’impianto politico-economico che ha generato il larghissimo scontento che percorre tutta l’Italia: questo è, in estrema sintesi, il significato del voto del 4 marzo; i perdenti sono, essenzialmente, Renzi e Berlusconi. (…) A fronte della diffusa e stringente richiesta di sicurezza che la Grande crisi ha generato, da parte del Pd si è risposto con dissennato ottimismo e in un modo completamente interno alla logica neoliberista (la stessa che ha generato la crisi del 2008, dalla quale siamo usciti a pezzi)». E ancora, giusto per rispondere a Salvati: «Il Pd nasce infatti nella convinzione che fossero avvenute delle modifiche non più reversibili del sistema politico ed economico mondiale e che servisse un partito di ispirazione liberal, che – in sintonia con il sistema di valori e di alleanze usciti vincitori dalla Guerra fredda – fosse in grado di portare l’Italia al livello dell’Europa e dell’Occidente. E, invece, questo sistema non ha funzionato, e nel 2008 è entrato in una crisi che, almeno per il nostro Paese, è ancora aperta. Una crisi che minaccia gravemente il Pd: oggi un partito liberal non serve più, non è credibile. Sarà marginalizzato come furono a suo tempo marginalizzati i veterocomunisti»[i].
Queste parole danno non poco a riflettere, e soprattutto ci costringono a interpretare l’odierna crisi mortale della democrazia muovendo da una rinnovata radicalità di pensiero, da una inedita lungimiranza di sguardo e di spirito, che sia finalmente in grado di intervenire a livello strutturale sull’edificio che va in frantumi.
In altre parole, si tratta del momento più opportuno per ripensare i limiti e le contraddizioni sostanziali del sistema liberaldemocratico finora durato, con sereno quanto spietato rigore. Anzitutto dobbiamo dirci che l’intero XX secolo si è giocato sulla spericolata dialettica che vedeva da un lato l’istanza rivoluzionaria, sia da destra che da sinistra, premere in modo essenzialmente violento e catastrofico per realizzare immediatamente un Regno messianico-escatologico sulla terra (sia esso il Terzo Reich millenario della razza eletta, oppure l’URSS, l’Unione delle libere ed eguali comunità dei compagni); dall’altro lato abbiamo la democrazia rappresentativa, intenta a contenere o a combattere – a volte militarmente, ma più spesso col lucido potere della mediazione diplomatica e parlamentare – l’incombente pericolo insurrezionale, percepito come fonte di puro caos. L’acuminato strumento riformistico, venendo incontro per decenni alle istanze sociali più pressanti (si pensi alla linea di Centrosinistra della Dc), ha effettivamente alimentato l’illusione che il sistema democratico fosse l’unico garante di una relativa stabilità e sicurezza in mezzo all’abisso spalancatosi sotto i piedi dell’individuo tardo-moderno industrializzato. La svolta neoliberista ha confutato per l’ennesima volta questa convinzione, e noi sembriamo essercene accorti solo dieci anni fa. Questo scenario sta riportando progressivamente in luce quell’atavica insofferenza per la democrazia, che in fondo ha alimentato tutte le svolte totalitarie dello scorso secolo. È il classico cane che si morde la coda. Questo circolo vizioso, come ci ricorda ancora una volta Galli, è fatalmente inscritto nel nucleo stesso della democrazia moderna: «Sono quindi contraddizioni che nascono in parte da squilibri interni al modello, e in parte dal fatto che nel corso della modernità l’iniziativa e la capacità politica si spostano dalla loro sede pubblica e si trasferiscono progressivamente in poteri economici, o biopolitici, non trasparenti. Da questo punto di vista una democrazia non è mai piena, e anzi è sempre in contraddizione con se stessa; e quindi un certo “disagio” la percorre sempre, strutturalmente»[ii].
La percezione diffusa, nel 2020 come nel 1920, è ancora e sempre la stessa: quella di una inerzia, di una ipocrita impotenza consustanziale alla stessa mediazione rappresentativa stabilita tra popolo (sulla carta “sovrano”) e potere istituito. Il fenomeno sovranista-populista è né più né meno l’ultima espressione reattiva a questo disagio strutturale per la democrazia, dovuto all’ormai incolmabile distanza che corre tra i rappresentanti e i rappresentati, all’insopportabile astrazione dei poteri economico-finanziari da un lato (vedi il famigerato Spread) e dell’apparato politico sovranazionale – che con questi ultimi è in combutta – dall’altro (Bruxelles).
Continua infatti Galli: «È il popolo il grande assente della democrazia moderna, poiché vi compare soltanto come istanza originaria, costituente, legittimante le istituzioni. (…) Anche la democrazia, insomma, è interna all’alienazione moderna, alla differenza che c’è tra l’essere cittadini e l’essere uomini e donne come parte del popolo: la cittadinanza universale e legale, legittimata da tutti, nel rispetto dei diritti della persona, non è il governo del popolo». Tutti i regimi totalitari del Novecento, d’altro canto, se da una parte hanno assolutizzato il potere dello Stato, dall’altra lo hanno anche spudoratamente strumentalizzato o subordinato a favore di un reale, immediato bisogno (appunto) di “totale simbiosi” tra l’autorità politica e il corpo-spirito vivente del popolo, fin nell’esistenza più incarnata delle persone. In altri termini, i regimi totalitari hanno tentato di dare una risposta catastrofico-apocalittica a quel vuoto apparentemente irreversibile che sussiste in quasi tutte le rappresentanze democratiche (condannate come astratte e artificiali, e di conseguenza percepite come errore da superare)[iii].
Il vero problema, pertanto, sta proprio nel continuare a pensare che i nemici della democrazia, quelli che ne sanciscono periodicamente l’annichilimento sostanziale (e in parte la strumentalizzazione formale), siano “esterni” ad essa e non anzitutto “interni”, frutto in primo luogo dello stridente contrasto tra la promessa di felicità e integrale realizzazione della persona (su cui si fonda in quanto tale tutta la politica moderna) e gli esiti storici ambigui che ne derivano. Comprendere la natura radicale di questo paradosso è il primo passo per impostare una corretta diagnosi dell’odierna crisi della politica occidentale.
Scrive in tal senso Marco Guzzi: «La liberaldemocrazia angloamericana ha battuto prima il nazifascismo sul piano militare, proprio dove quest’ultimo pretendeva di primeggiare e su cui fondava tutti i suoi valori, poi il comunismo sul piano economico, che il marxismo a sua volta pretendeva di avere scientificamente e definitivamente illuminato nelle sue leggi di evoluzione storica. La democrazia liberale si è cioè dimostrata alla fine più moderni dei sistemi totalitari, più flessibile, e quindi più adattabile ai velocissimi mutamenti della modernizzazione. Ma proprio ora che non ha più nemici esterni, se non di natura terroristica, essa si trova a dovere riaffrontare, a un nuovo livello di profondità e a un nuovo tornante della storia, quegli stessi problemi che già emergevano nel 1910 e ai quali i totalitarismi tentarono di rispondere in modo catastrofico. Si torna a chiedersi: questa forma di liberaldemocrazia, con la sua razionalità ridotta alla ragione tecnico-scientifica, con la sua visione riduttivistica, unilaterale, unidimensionale, e quindi fallace dell’essere umano, sarà in grado di guidare i processi vertiginosi di trasformazione in atto? Oppure essa rischia di ridurre l’essere umano a un mero consumatore tecno-video-dipendente, inserito in una comunità mondiale sempre più ridotta a sua a volta a un immenso supermercato, governato da logiche e da poteri finanziari sostanzialmente a-democratici?»[iv].
È da queste brucianti e ineluttabili domande che nasce, circa due anni fa a Roma, il movimento giovanile L’Indispensabile, il quale non senza coraggio e un po’ di follia, intende assolvere in modo creativo, trans-moderno e post-novecentesco, a questa nuova radicale esigenza di coniugazione tra Rivoluzione e Democrazia, già propria dello spirito moderno originario e dei suoi vertiginosi processi storico-antropologici. Una cosa simile, come è chiaro, richiede anzitutto una revisione profonda dell’orizzonte filosofico-spirituale entro cui l’intero ciclo illuministico-borghese della civiltà si è dispiegato: «Si tratta essenzialmente di superare l’idea di un essere umano orizzontalmente e unidimensionalmente razionale, lì dove questa razionalità viene a sua volta ridotta alla ragione tecnico-scientifica, alle categorie cioè del calcolabile. L’intero XX secolo ci ha mostrato quanto l’essere umano sia più complesso, molteplice e contraddittorio; perciò oggi siamo molti più consapevoli, ad esempio, che le strutture ingiuste di questo mondo – il mondo da rivoluzionare – non sono soltanto fuori, ma anche dentro ciascuno di noi. Sappiamo che le radici dell’ingiustizia e della guerra si radicano in profondità nelle nostre angosce, nel nostro occulto desiderio di uccidere e di morire. (…) Il cittadino della democrazia progressiva del XXI secolo è un essere umano che sa che, per contribuire all’edificazione di un mondo sempre più libero e giusto, egli è chiamato per primo a trans-formarsi, a riconoscere le radici della propria ingiustizia e del proprio odio, in una inesauribile tensione alla verità e alla libertà»[v].
Da questa continua, paziente sinergia tra liberazione\purificazione interiore e rivoluzionaria trasformazione del mondo (che procede ovviamente per tentativi), muove tutto il pensiero e il lavoro del nostro movimento. La speranza è quella di veder fiorire quanto prima, seppur coi giusti tempi, una nuova classe politica in grado di farsi promotrice incarnata di questo nuovo pensiero politico-spirituale, di questa Rivoluzione psico-cosmica e democratica, laica ma dichiaratamente messianica, finalmente libera dalle lacerazioni distruttive della vecchia umanità. I rischi non mancano, anzi, sono precisamente tutti i rischi impliciti in una reale maturazione della civiltà umana, moderna e globalizzata, giunta a questo stadio della sua storia. Occorrono perciò nuove menti, uomini e donne che spendano la propria esistenza a questo scopo e ne facciano la propria missione terrena. Ciò che infatti più manca al mondo politico-economico di oggi è un vero e proprio radicamento esistenziale, una cultura e una spiritualità all’altezza dei tempi, che si faccia carico nuovamente dell’insostituibile connubio tra pensiero e prassi, tra contemplazione e azione, rigenerandolo alla base. Questo è secondo noi l’indispensabile, l’urgenza autentica dei nostri tempi, senza la quale la democrazia è già morta e sepolta, oppure, in virtù della quale,essa è già da ora la vera Rivoluzione, poetica e inesauribile, di questo mondo.
[i] Carlo Galli, La sconfitta del “sistema”, articolo apparso il 7 marzo 2018 sul blog Ragioni politiche.
[ii] Carlo Galli, Il disagio della democrazia, Einaudi 2011, Torino, cap. V.
[iii] Ibidem.
[iv] Marco Guzzi, Dalla fine all’inizio, Paoline 2011, Milano, pp. 143-144.
[v] Ivi, pp. 148-149.FacebookTwitterWhatsAppTelegramCopy LinkCondividi
Di: L’Indispensabile – Luca Cimichella