Nell’Italia del XXI secolo chiunque può diventare capo del governo, persino un ignoto avvocato di provincia, sia detto con rispetto, privo fino al giorno prima di qualsiasi ombra di familiarità con politica, affari di Stato e relazioni internazionali. Egualmente, sia detto anche qui con rispetto, chiunque può diventare ministro degli esteri, delle finanze, dell’economia e via dicendo.


Si tratta di un’evidenza, solo in apparenza sorprendente, che va posta in termini strutturali, non personali. Sui futuri libri di storia questi dirigenti saranno menzionati in un riquadro a fondo pagina, raccolti in un freddo elenco di nomi e anni di riferimento: è improbabile che di essi si parli per lo spessore delle gesta, la tensione etica o le lotte combattute a favore della popolazione, a dispetto del pur oscillante frasario elogiativo destinato a evaporare a ogni tramontar del sole.


Nei paesi a democrazia liberale – Stati Uniti ed Europa, in primis – la selezione del ceto dirigente non è fortuita. E quando talvolta i meccanismi selettivi sfuggono di mano (Trump…), la sottostante struttura statuale supplisce alle insufficienze del livello politico. Anche in paesi lontani dalle tradizioni istituzionali occidentali, i processi selettivi non sono lasciati al caso. In Cina, ad esempio, sapere e potere vanno da sempre a braccetto. Nella millenaria storia cinese, l’imperatore, suprema espressione del potere assoluto, poneva massima attenzione a circondarsi di persone selezionate: a partire dall’epoca Tang, in particolare, i mandarini (rappresentanti dell’autorità imperiale) erano tenuti a superare esami pubblici faticosi, forse non sempre trasparenti, eppure sufficienti a evitare che giungessero a responsabilità elevate anonimi figli del vento, originati dal caso, dalla corruzione o dal nepotismo. Nella Cina odierna, la cooptazione dall’alto – le elezioni sono previste solo per i livelli inferiori – richiede insieme competenza e lealtà al sistema. Si tratta di un percorso che non evita errori od omissioni, ma nell’insieme (a dispetto del deficit democratico di cui soffre il paese – i risultati sono notevoli, se è vero che una nazione di 1,4 miliardi di abitanti è transitata in soli quarant’anni dal medioevo alla post-modernità.


In Italia, l’ordine dominante (vale a dire le sovrastanti strutture di potere) lascia la selezione del governo formale alle stravaganze degli apparati di partito e dei meccanismi elettorali, trascurando ogni riscontro di qualità, senza alcuna attenzione acché la struttura statuale, in funzione sostitutiva, abbia i requisiti per compensarne le carenze. I candidati vengono dunque selezionati in modo accidentale, talora con la sola acquisizione di popolarità in duelli televisivi dominati da analfabetismo politico, approssimazione e imbonimenti.


Il vero potere, del resto, non si conquista con le elezioni, ma preesiste e sopravvive ad esse. Se i processi elettorali minacciassero davvero gli interessi dei ceti dominanti, sarebbero stati da tempo epurati di ogni incognita. Con l’ascesa della religione della finanza negli ultimi trent’anni, il palcoscenico elettorale si converte nel parco-giochi della monarchia globalista, un diversivo per intrattenere moltitudini politicamente livellate a dispetto delle apparenze, schiacciate dal nichilismo, dall’alienazione e dall’imbuto unificante del pensiero unico. Va detto, tuttavia, che seppure prive di rappresentanza politica quelle moltitudini restano una forza potenzialmente eversiva, il risveglio della ragione resta un’opzione insopprimibile e dunque vigile l’attenzione diversiva del potere.


I predestinati a occupare posizioni politiche devono esprimere caratteristiche funzionali agli obiettivi prestabiliti. La simulazione elettorale – formalmente inaggirabile – viene gestita con imparzialità e rispetto del pluralismo solo su aspetti marginali. Sulle tematiche strutturali, quali i rapporti col potere e l’equità sociale, il dominio del pensiero unico è pressoché integrale, nella sostanziale indistinzione tra destracentro e sinistra.


La stabilità sistemica di tale scenario richiede il reclutamento della servitù mediatica, TV e grandi testate, accademia e intellettualità, salvo beninteso ardite eccezioni, visibilmente ignorate. La marginalizzazione dei temi fondamentali e la saturazione degli spazi disponibili con argomenti periferici garantiscono il dominio del pensiero massificato, la compressione di ogni tensione verso una diversa idealità societaria e l’ineluttabilità del “there is no alternative”, a preservazione dei privilegi dei signori della finanza.


Alla critica filosofica sui rapporti di potere e sulla distribuzione della ricchezza vengono consentiti minimi spazi di riflessione, poiché l’eventuale consapevolezza degli squilibri tra privilegiati e sopravviventi metterebbe in forse il mantenimento dello status quo. Imponendo il defilamento della nozione di conflitto – per definizione connaturata nella società del capitale, tra chi ha e chi non ha – viene così soffocato ogni impulso allo svelamento del principio dialettico della storia.


Quanto sopra premesso, non appaia ultra vires il conferimento della patente di impalpabilità ai presenti dirigenti politici (italiani ed europei), la cui inerzia strutturale deve essere esplorata nelle sue dinamiche profonde. Con il termine impalpabilità s’intende marcare non tanto l’inadeguatezza/improvvisazione nella gestione dello Stato – basterebbe a tal fine uno sguardo distratto alle condizioni in cui versa il Paese – quanto la sottilità culturale di cui essi sono portatori, quale caratterizzazione prescritta dall’ordine dominante. Al sottile spessore politico, tali dirigenti associano fluidità di posizionamenti, impermanenza strategica, disinvoltura etica. A pagarne il conto è il benessere culturale e materiale della maggioranza dei cittadini, convitati di pietra sempre più impietriti.


Solo una dolorosa riflessione critica può aiutarci a comprendere le cause del vuoto di ingegni, coraggio ed etica civile che caratterizza il nucleo politico, burocratico, economico e mediatico della nostra Repubblica, condannandola all’incuria e al declino. Come nella favola di Andersen, la più banale delle verità sfugge alla folla assuefatta alla cecità. Il Re non indossa vestiti, ma i turibolari di corte, pochi e privilegiati, si piegano silenti per non perdere gli avanzi del banchetto, mentre le folle ignare si limitano ad assentire.


L’ordine finanziario mondialista agisce con la complicità dei comparti nazionali che operano con il mondo ultra-frontaliero, nell’export, nelle attività bancarie o finanziarie, l’alta burocrazia, il funzionariato domestico in raccordo con Commissione Ue, Bce, Corte Europea di Giustizia, Europarlamento, insieme a tutti quegli organismi (Fondo Monetario, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del Commercio e via dicendo) che vedono nella difesa democratica e costituzionale dello Stato il principale intralcio all’espansione dei loro privilegi economici e di potere.


Le truppe del potere finanziario volte alla demolizione della statualità costituzionale avanzano su diversi fronti. La sottomissione al vincolo esterno suppone la narrazione di un Paese privo di uomini e strumenti per tutelare i propri interessi organici. Si tratta di una postura di stampo patologico che ci rammenta la sfida del Grande Inquisitore di Dostoevskij che predilige la condizione dello schiavo, privo di libertà e insieme di responsabilità, rispetto all’uomo libero, esposto all’angoscia dell’incognita, che però, sola, può dare un senso alla vita. L’introiezione di tale angolatura mentale da parte della dirigenza italiana penetra gradualmente nei livelli inconsci della popolazione, conferendo al Vincolo Esterno una valenza taumaturgica, secondo la quale solo un legislatore/supervisore esteriore può imbrigliare le spinte autodistruttive di un popolo pregiudizialmente inetto, incapace di autogovernarsi. Sacrifici arbitrari, altrimenti inaccettabili e ingiustificabili in una società opulenta, dove abbondano macchine e manodopera, vengono in tal modo imposti e legittimati. L’ideologia dell’ineluttabilità della sofferenza quale premessa meritoria per il sogno di un’esistenza decorosa viene prefabbricata dall’ordine dominante. Lo Stato diviene oggetto di un giudizio di inettitudine, umiliante e immeritato a favore delle tecnocrazie sovrastatuali, insieme a un popolo che con il lavoro e l’ingegno ha invero generato ricchezze e benessere come pochi al mondo.


A sua volta, secondo la macchina mediatica del consenso, economicamente, culturalmente ed eticamente asservita alla dottrina della fissità ontologica della storia, il sistema può subire qualche marginale ritocco di efficientamento, ma sarebbe un atto di velleità rivoluzionaria continuare a investire sulla fantasia di una società diversa, più solidale, più equa e dunque più libera.


Nei primi trent’anni del dopoguerra il mondo del lavoro era riuscito a far avanzare i propri interessi, promuovendo servizi sociali e potere d’acquisto dei salari, e ampliando la presenza pubblica nell’economia. A partire dagli anni ’80 l’oligarchia liberista sovranazionale riprende l’iniziativa, capovolgendo i rapporti di forza. Lo scontro tra capitalismo oligarchico e Stato nazionale si fa aspro, generando devastazioni economiche e degrado etico-sociale. Le ragioni di tale sovvertimento richiedono analisi migliori. L’arretramento dello Stato sociale prende avvio ancor prima della caduta del Muro di Berlino, sebbene il 1989 abbia di certo accelerato i rapporti di forza tra lavoro e capitale.


Negli anni 1945-1980 la ricostruzione del Paese non può prescindere dal riconoscimento dei diritti del lavoro, considerata la necessità di accrescere la domanda aggregata. Dopo il fascismo e la guerra, l’occupazione tedesca e la lotta partigiana, l’umiliazione della sconfitta e le limitazioni di sovranità, l’Italia era alla ricerca di una più solida identità per incamminarsi sulla strada della rinascita, combattere la povertà, l’arretratezza economica e culturale. La ragione strutturale di disporre di personale professionalmente (nella grammatica marxiana strutturalmente) preparato fa così emergere una classe dirigente di qualità, ed essa infatti, pur nelle diverse colorazioni ideologiche, raggiunge l’obiettivo, riuscendo a mobilitare capitale industriale e mondo del lavoro, in un quadro di moderazione conflittuale.


Pur spalmati su diverse concezioni, di sinistra (un forte partito comunista), di centro (democratici cristiani, repubblicani e socialisti), di destra (liberali, neofascisti, monarchici residuali), gli esponenti politici nazionali possiedono tutti una robusta caratura politica, a dispetto delle arretratezze storiche di alcuni di essi, oltre a doti etiche, impegno e professionalità. Una nazione sconfitta e scoraggiata ha bisogno di uno Stato affiancatore funzionale agli obiettivi imposti dalla storia. Per un impegno di dimensioni eccezionali, la selezione degli uomini di stato deve essere scrupolosa. Nei ranghi alti della burocrazia, dopo il sostanziale fallimento dell’epurazione post-bellum, funzionari di epoca prefascista si mescolano con esponenti attivi del cupo ventennio, entrambi derivati da quella borghesia che aveva investito valori e cultura per consolidare i privilegi di classe, eppure il numero degli inetti è ridotto.


Gli interessi del mondo del lavoro erano contrapposti e insieme complementari a quelli del capitale, il quale, pur mantenendo una forte connotazione di classe, aveva una dimensione essenzialmente nazionale. In quel periodo lo Stato svolge la funzione di motore-contenitore indispensabile al capitalismo italiano per generare ricchezza e profitti che accrescono il salario diretto, indiretto (servizi sociali) e differito (le pensioni). L’arena dell’eterno conflitto sociale viene presidiata da personale dotato di perizie e sensibilità politiche, a garanzia dei legittimi interessi del popolo italiano. Il ruolo dello Stato (nella sua duplice funzione di contenitore e protettore di valori collettivi) e l’espansione del capitale non si sovrappongono, ma sotto la pressione del mondo del lavoro operano e in forma dialettica con quest’ultimo producono benefici di profonda valenza sociale.


La musica oggi, per usare una metafora, è cambiata, così come la qualità dell’orchestra, mentre il pubblico, strutturalmente lo stesso, ha abbandonato i posti in platea per i piani alti della galleria, dove i suoni giungono fiochi e gli attori si distinguono a fatica. La rapacità del capitalismo finanziario sovranazionalista riduce ai minimi termini la funzione dello Stato. L’ordine dominante non ha interesse a far emergere talento politico o di gestione amministrativa, poiché la mondializzazione dei fattori della produzione e la massificazione dei profitti non tollera confini fisici e giuridici. A farne le spese sono i bisogni della maggioranza – equità distributiva, valorizzazione della cultura, il lavoro e i valori sociali – che sono beni pubblici difendibili solo su scala nazionale.


Rispetto alla scena strutturalmente diversa dei gloriosi trent’anni (1945-75/80), il capitalismo mondialista presenta oggi altri bisogni. Lo Stato è un avversario e deve essere destrutturato, la sua etica irrisa, il suo ruolo limitato, mantenere l’ordine pubblico e poco altro. I capitali devono fluire speditamente dove il profitto è più elevato e i rischi minori. I suoi rappresentanti, inclini all’obbedienza, ricevono in cambio briciole di autorità, onori formali e laute ricompense. Uno Stato efficiente ed eticamente strutturato, attento ai bisogni sociali, governerebbe i flussi finanziari, ostacolerebbe le delocalizzazioni, tutelerebbe il lavoro, i salari, un’occupazione stabile, gli investimenti sociali. Lo spessore del personale di Stato deve essere modesto, la professionalità minima, l’impegno etico elastico, la disposizione d’animo china e rinunciataria.


Con l’inaridimento della coscienza, muore la passione politica. Il Parlamento diviene un traguardo aziendale, mentre le burocrazie sono ricompensate con rendite, prebende e carriere. Nessuno Stato così stremato – i dipendenti pubblici italiani non superano la metà della media europea, mentre sulla qualità ciascuno può giudicare da solo – potrebbe ostacolare la colonizzazione del Paese da parte delle oligarchie globaliste e dell’ordo-liberismo tedesco-centrico. Mentre l’arena pubblica diviene il parco-giochi dove i padroni della finanza ultra-statuale si spartiscono il bottino insieme ai complici nazionali, ai pochi ma genuini servitori dello Stato, è questa l’amara conclusione, dotati di cultura politica e tensione etica, vengono assegnati ruoli coreografici, di mera tribuna, tecnicamente necessari ma esterni ad ogni decisione di peso.


Il percorso è simile a quello seguito nei processi di decolonizzazione degli anni ‘50, quando le potenze coloniali in uscita lasciano ai dirigenti locali appositamente sagomati il compito di tutelare i loro interessi nel più classico dei modelli gattopardeschi. Per comprendere le ragioni del decadimento della dirigenza italiana è dunque all’aspetto strutturale che occorre guardare, non a quello sovrastrutturale. Sono i rapporti di produzione, centrati oggi sul dominio della finanzia, che delineano gli assetti del potere.


In un quadro in cui la funzione pubblica deve essere destrutturata, il personale deprofessionalizzato e l’etica pubblica derisa, l’obiettivo dell’ordine dominante è l’edificazione di un popolo affamato e impaurito, per di più sostituibile da delocalizzazioni e immigrati sradicati alla ricerca di una vita migliore. Persino i consumatori, e certamente gli elettori, sono divenuti superflui. I profitti sono derivati della finanza, mentre la classe politica, per mantenere formale credibilità, consente solo un’ingannevole partecipazione alla vita democratica.


Come in un labirinto, se lo Stato è privo di risorse, i suoi rappresentanti non sono all’altezza. Se i suoi rappresentanti sono scadenti, lo Stato non è in grado di opporre resistenza a tutela dei beni collettivi. Come uscirne? È ragionevole ipotizzare, fatta salva l’imprevedibilità delle umane vicende, che quando il decadimento delle istituzioni pubbliche, il divario tra cittadinanza e istituzioni e i danni inflitti alla vita del Paese avranno superato la soglia di guardia, il contraccolpo di rimbalzo riattiverà un processo di recupero. Per impedire il saccheggio finale del Paese, sovranità costituzionale e funzionalità statuale – nulla a che vedere con le distorsive stigmatizzazioni accusatorie di genere sovranista – saranno a quel punto i cardini su cui puntare contro le forze distruttive delle élite finanziarie e della macchina del consenso, politica, accademica e mediatica, al loro servizio.


Le posizioni dottrinali di sinistra, di centro o di destra, che il cannoneggiamento mediatico fa apparire distinte le une dalle altre, giocano la commedia dell’impostura. Il pluralismo è un capitolo della commedia dell’arte, recitato per un pubblico dirottato su temi innocui, deviazioni di priorità, distrazioni finesettimanali, affinché il Signore della Finanza, che sa come ricompensare i servizi resi, abbia campo libero.


Sul palcoscenico politico del Paese la destra riflette il volto economico del potere, i valori dell’immobilismo sociale, la difesa dei rapporti di forza, l’ossessione fobica di congelare onori e privilegi. Il centro fornisce il personale politico, perché l’angoscia della polarizzazione sollecita l’asseveramento delle posizioni mediane, con l’obiettivo di tener a bada l’emersione di qualche imprevedibile dottrina di rottura. La dimensione culturale viene infine coperta da una sinistra denaturata, incoronatasi depositaria di uno spirito critico di cui non rimane che un’ombra insecchita al sole del deserto.


Tale prisma di potere a tre teste ha bisogno di turibolari di mestiere, servitù mediatiche e accademiche, insieme alle truppe cammellate della funzione pubblica, tutte sensibili a carriere e prebende. Si tratta di un’impalcatura di esecutori reclutati per incorporamento ai valori del padrone, nell’interesse delle élite finanziarie (nazionali e straniere), mentre le masse – inoccupati, disoccupati, emarginati a vario titolo, classi medie precarizzate – sono tenute lontane da ogni alito di consapevolezza.


Nel solco della grande tradizione confuciana, faremmo un passo nella giusta direzione se applicassimo quel corollario rivoluzionario passato alla storia come rettificazione dei nomi. Mentre sul centro e sulla destra è bene stendere un rapido velo pietoso, la sinistra, in attesa che le condizioni storiche conducano la sua attuale dirigenza verso una salutare redenzione, essendo oggi l’alfiere del liberismo e insieme la colonna avanzata degli interessi delle élite dominanti, andrebbe espropriata dell’usurpata rappresentanza dei ceti oppressi.


Gli avversari infatti sono riconoscibili, hanno un volto e un nome. I nemici più insidiosi sono dietro di noi, con il coltello pronto a colpire. Protetti da una maschera di imposture, impediscono la riscossa di un popolo in macerie, invece di alzare il vessillo della palingenesi e del rinnovamento. Una sinistra, che pure un tempo era per definizione depositaria di inquietudine politica, è oggi vuota di idealità. Travolta dalla sconfitta storica del comunismo novecentesco, abbandona i sempiterni ideali di giustizia, rinnega la dottrina del cambiamento e si occupa solo di carriere e ricompense, mentre il popolo – che resta organicamente di sinistra – è alla deriva. L’epilogo di tale percorso, il suicidio storico, è dietro l’angolo.


L’ascesa dell’oligarchia sovranazionalista richiede spostamento di poteri istituzionali, e dunque cessione di sovranità costituzionale (economica e monetaria) dal livello statuale a quello sovrastatuale. Il cosiddetto progetto europeo, quell’Unione Europea che mai diverrà uno Stato Federale degno di questo nome, giunge a proposito, si fa per dire. Con tale passaggio, le élite finanziarie sovranazionali demoliscono quel che rimane dell’apparato istituzionale dello Stato, unico luogo istituzionale dove i ceti dominati possono trovare protezione ai loro bisogni essenziali, lavoro e servizi sociali. Come già rilevato, ma repetita iuvant, ai rappresentanti dello Stato del XXI secolo non è richiesto senso dello stato, ma improvvisazione e sottomissione, mentre il Paese viene saccheggiato da politiche esterovestite, un percorso che trova drammatica accelerazione con l’adesione dell’Italia all’eurozona.


Le decisioni cruciali che riguardano il Paese (legge finanziaria, modulazioni di spesa, indebitamento pubblico e così via) sono così assoggettate al benestare di tecnostrutture esterne eterodirette, non democratiche e rispondenti agli interessi delle élite europee. Anch’esse sottomesse al potere delle tecnostrutture globaliste, le frange di potere industriale e finanziario domestico, partecipi dell’ordine dominante, spiccano per vuoto di coscienza e etica collettiva. Ai poteri pubblici nazionali sono relegati solo aspetti di contorno strutturale, rilevanti ma sempre estranei a economia e finanza (diritti civili, corruzione, crimine organizzato, battaglie su briciole di potere tra partiti ormai indistinguibili gli uni dagli altri). La monarchia sovranazionale che controlla moneta e capitali, e dunque la struttura del sistema, lascia la gestione della sovrastruttura a volti pigri, selezionati e ben retribuiti, con la cruciale complicità della macchina del consenso.


Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i diversi incarichi ricoperti, è stato Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-alberto_bradanini__linsostenibile_impalpabilit_del_ceto_dirigente/82_36160/?fbclid=IwAR21dpMOrLVUgxQdc6Zag2WJnlbftoQ_5lsvin8piA_DJT0BJAEeE_yD53E

Di Red

„Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d'inventare l'avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l'avvenire.“ — Thomas Sankara

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