Di: Ruben Vezzoni
I have not been able to find a single source that is against ‘sustainability’. Greenpeace is in favour, George Bush Jr. and Sr. are, the World Bank and its chairman (a prime war monger in Iraq) are, the pope is, my son Arno is, the rubber tappers in the Brazilian Amazon are, Bill Gates is, the labour unions are.
Erik Swyngedow (in Gibbs and Krueger, 2007)
Lagarde mette in capo all’agenda politica della BCE l’acquisto di obbligazioni “green” e si dichiara pronta ad esplorare ogni opzione nella lotta al cambiamento climatico[i],[ii]. Ursula von der Leyen lancia il Green Deal europeo (guai a metterci un New di mezzo) per portare l’Europa verso “un impatto climatico zero” entro il 2050[iii]. Il World Economic Forum annuncia il suo programma in risposta alla recente pandemia, il Great Reset, per un nuovo contratto sociale per la gestione dei commons (beni comuni) globali e delle economie nazionali[iv]. E mentre le star di Hollywood si danno alla produzione di docufilm ambientali di grande spessore, Letizia di Spagna, la regina Maxima d’Olanda, Elisabetta II, Kate, Carlo d’Inghilterra e pure il principe Harry si impegnano in vario modo a diffondere il verbo della lotta al cambiamento climatico[v].
Questa serie di roboanti iniziative segnala il moltiplicarsi di soluzioni calate dall’alto in risposta alla crisi ambientale che unisce in modo trasversale l’umanità in quanto tale. Secondo la strategia populista, il nemico è individuato in un elemento esterno, vuoto, oggettivato e ambiguo in quanto privo di connotato sociale. Il sogno proibito del populismo ambientale è scovare la presenza di un intruso, la CO2, il virus, le macchine a diesel, che inquina e corrompe un sistema altrimenti perfetto. La natura, in primis, è Natura unica e universale. È collante trasversale che unisce tutti quanti, che abbraccia l’umanità intera. Annichilisce qualsiasi divisione interna al sistema, anzi ne fortifica le geometrie. Risponde ad una pressante chiamata alle armi per evitare la catastrofe imminente. “Ci restano solo X anni” è la retorica di coloro che da un lato hanno assimilato il fatto che la soluzione (spesso di natura tecnologica) possa provenire solo dall’attuale forma neoliberale della società di mercato; e dall’altro hanno ancora, seppur poco, tempo da vendere. Coloro che invece non hanno più tempo, e si direbbe non l’hanno mai avuto, sono gli emarginati dai processi redistributivi, le escluse dai ruoli decisionali, e colori i quali barattano quotidianamente la propria dignità per un pezzo di pane e l’illusione di scalate sociali sempre più rare. Il paradosso, o forse la genialità, dell’ambientalismo universalista sta proprio nell’arruolare le masse dei perdenti del sistema per consolidare gli attuali rapporti di forza, anche e soprattutto in vista degli effetti destabilizzanti del dissesto ambientale.
Il discorso post-politico che si è venuto a formare attorno al tema del cambiamento climatico impone consenso diffuso ed è dunque negazione della politica. Vari autori, tra cui Žižek e Mouffe, suggeriscono una definizione di post-politica quale rifiuto delle divisioni ideologiche, della molteplicità degli immaginari sociali, dei possibili intrecci delle condizioni materiali (tanto ecologiche quanto economiche), a favore dell’universalizzazione di domande particolari. L’arena politica viene così invasa da attori non tradizionali, quali NGO, rappresentanti cittadini, piattaforme digitali, ma soprattutto attori finanziari e multinazionali (curioso a tal proposito il recente scontro tra Coca-cola and Co vs Facebook & Friends[vi]). Mentre la base del consenso viene estesa ad una più ampia platea di attori, il tavolo delle soluzioni viene spostato dalla stanza della politica all’aula dei tecnici. Si fa (post-)politica dati alla mano, con grafici, proiezioni, report annuali e forum di esperti a cui viene relegata non solo la decisione finale, ma anche l’iniziativa di avanzare proposte.
La soluzione accordata sta nel rendere tutto più “sostenibile”, aggettivo che come il nero sta bene su tutto, per cui noi, umanità in senso lato, abbiamo bisogno di “sviluppo sostenibile”, “aziende sostenibili”, “governo sostenibile”. E se invece non ce ne fregasse niente di sostenere l’attuale sistema? O meglio, e se ci fossero opinioni contrastanti, interessi antitetici a cui rispondere? La negazione della politica sta proprio nel precludere la possibilità di decidere cosa sostenere e cosa debellare, quali gerarchie consolidare e quali annichilire, quali bisogni soddisfare e quali eradicare. L’atrofizzazione dell’immaginario collettivo, anche in tema ambientale, è la conseguenza dell’assenza del politico, quale atto che anziché rispondere alle necessità del sistema, ne destabilizza le fondamenta e cambia i parametri di ciò che è possibile immaginare. In questo senso alcuni autori, trai quali Žižek, definisco la politica l’arte dell’impossibile.
Il cambiamento climatico invece ci mette tutti sulla stessa barca. Come riportato nella citazione d’apertura, mette d’accordo tutti per il semplice motivo che esclude, marginalizza e rende deprecabile qualsiasi voce dissonante dal coro. Sebbene il contesto socio-naturale, e dunque le condizioni materiali, di un impiegato della camera di commercio di Cremona siano totalmente dissimili da quelle di un miliardario che aspetta l’arrivo dell’apocalisse dal suo yacht al largo delle coste neozelandesi, lo sconquasso ambientale pare doverli interessare allo stesso modo. Contrariamente alla narrativa dominante, Keucheyan[vii][viii] descrive brillantemente come questioni di classe, razza, genere siano in realtà di cruciale importanza nel determinare vinti e vincitori, e le modalità in cui costi e benefici vengono redistribuiti. Gli spudorati spot pubblicitari dei VIP nostrani che invitavano a stare a casa durante la fase più severa della pandemia perché “a casa si sta bene” (“Ci starai bene te, stronzo, con 4 salotti, la palestra e la piscina sul terrazzo” cit. Franco il gommista) sono una dimostrazione di come i dissesti ambientali, in questo caso un’infezione virale trasformatasi in pandemia, acuiscono, anziché lenire, le differenze tra privilegiati e non. Riprendendo Swyngedouw[ix], la verità è che l’idea e il bisogno di “sostenibilità” di Bill Gates e Flavio Briatore sono profondamente diversi da quelli di una contadina del Bangladesh o di un fornaio di Tuscania.
La Natura non esiste. Esistono piuttosto un’immensa varietà di possibili combinazioni di condizioni biologiche, sociali (ed economiche) che determinano l’unicità di ogni contesto. Ciò non significa tuttavia decostruire qualsiasi lettura universale del problema ambientale. Significa al contrario riconoscere quali fenomeni sociali si impongono su questa costellazione di molteplici contesti, e come tali fenomeni riproducano in maniera sistematica le stesse trame di sfruttamento e accumulazione, sia ambientale che sociale, secondo le stesse geometrie di potere. Diversi vinti e vincitori vengono dunque selezionati tramite medesime modalità. La (ri)politicizzazione della questione ambientale passa dalla de-istituzionalizzazione dell’attuale sistema, dalla definizione esplicita d’immaginari sociali alternativi e dalla riorganizzazione dei processi metabolici dell’economia. In risposta al populismo post-politico dei sacerdoti della lotta alla CO2 è utile, suggerisce Swygedouw, recuperare l’orizzonte democratico quale terreno per la coltivazione dei conflitti e degli antagonismi. È da questo humus che possono emergere nuovi e diversi futuri, visioni a cui è necessario affibbiare un nome, così come il socialismo e il capitalismo venivano dapprima identificati e poi dibattuti nell’arena politica del secolo scorso.
Per non confondere tra loro gli interessi particolari, è dunque utile differenziare tra programmi ambientali. Dato che non siamo tutti sulla stessa barca, non abbiamo tutti bisogno dello stesso equipaggiamento. Personalmente, dell’agenda della Lagarde, delle campagne pubblicitarie delle istituzioni UE[x], delle fantasie proibite del World Economic Forum o dei reali di mezzo mondo non so che farmene. Gli interessi particolari di chi scrive sono incatenati a quelli del simbolico 99% della popolazione. La nostra lotta al cambiamento climatico, in speculare contrapposizione agli esempi elitari riportati sopra, risponde piuttosto al bisogno di una banca centrale che supporti il pieno impiego per la messa in sicurezza del patrimonio ambientale e la trasformazione delle catene di produzione (anziché giocare a freccette col 2% d’inflazione); di istituzioni pubbliche radicalmente democratiche e in rappresentanza dell’interesse comune anziché di gruppi industriali, finanziari o di nazioni con pretese egemoniche mai sopite; di un drastico ridimensionamento della geografia economica, che rallenti e riduca le tratte su scala globale, e rilocalizzi i processi produttivi con particolare attenzione a soddisfare, in maniera quasi autarchica, le necessità di base di ogni località.
[i] https://www-ft-com.ezproxy.babson.edu/content/f776ea60-2b84-4b72-9765-2c084bff6e32
[ii]https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-10-23/ecb-asset-purchases-set-for-a-green-twist-under-lagarde-chart
[iii] https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/european-green-deal_en
[iv] https://www.weforum.org/great-reset
[v] https://d.repubblica.it/moda/2020/06/05/news/famiglia_reale_principi_regine_duchesse_i_reali_ecologisti_kate_middleton_principe_carlo_letizia_di_spagna-4739763/
[vi]https://www.ilsole24ore.com/art/da-coca-cola-the-north-face-perche-big-company-stanno-boicottando-facebook-AD5zC0a
[vii] Keucheyan, R., 2016. Nature is a battlefield: towards a political ecology. Newark: Wiley.
[ix] Swyngedouw, E., 2007. Impossible “Sustainability” and the Post -Political Condition, in: Gibbs, D., Krueger, R. (Eds.), The Sustainable Development Paradox. Guilford Press, New York, pp. 13–40.
[x]https://www.yanisvaroufakis.eu/2020/02/09/the-eus-green-deal-is-a-colossal-exercise-in-greenwashing-the-guardian/FacebookTwitterWhatsAppTelegramCopy LinkShare