La diffusione del virus ha reso evidente l’indebolimento dell’ideologia neoliberista e la tenuta del legame tra Stato ed economia centrato sulle ricette dell’ordoliberalismo di matrice tedesca. Nell’Europa del post-pandemia è venuto il tempo di un nuovo equilibrio nel rapporto tra economica e società?

In un’intervista recente, il filosofo e antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro ha definito l’antropocene e le sue conseguenze, tra cui la pandemia di Covid-19, come un fatto sociale totale, riprendendo l’espressione di Marcel Mauss. Per Viveiros de Castro, la crisi del Covid-19 è un’anteprima della grande catastrofe climatica che ci attende e che rischia di avere luogo nei prossimi decenni. La situazione attuale ci lascia intravedere gli effetti dell’antropocene, ovvero dell’era storica presente, caratterizzata dall’impatto delle attività umane sull’ecosistema, effetti che vanno dal campo delle migrazioni alla situazione economica, alle necessità di approvvigionamento alimentare e delle principali risorse (Viveiro do Castro, Philosophie Magazine, luglio 2020).

L’antropocene e le sue manifestazioni, quali la pandemia da coronavirus, sono dunque da leggere come un fatto sociale totale ovvero, per Mauss, un evento che coinvolge e intreccia simultaneamente la vita economica, sociale e religiosa di una comunità umana in un dato momento storico. La pandemia ha permesso di togliere il velo ai meccanismi di funzionamento politico, sociale ed economico della società occidentale contemporanea e dei suoi legami con il resto del mondo. In particolare, mi vorrei soffermare qui su due dimensioni: quella territoriale e spaziale della politica contemporanea e il rapporto tra economia e società in Europa.

La diffusione del coronavirus e le risposte che le nazioni e gli organismi sovranazionali hanno dato, hanno messo in luce la duplice dimensione transnazionale e territoriale della politica contemporanea. Il virus non conosce confini geografici, anzi li travalica, ne ridisegna di nuovi, si diffonde seguendo le rotte della logistica e del commercio globale, spostandosi così dalla regione cinese di Wuhan alla Pianura Padana al seguito delle rotte di manager e operai. Tuttavia, il fatto che il virus sia di per sé un fenomeno che oltrepassa le frontiere non significa che la dimensione territoriale e spaziale sia irrilevante. Al contrario, se guardiamo la mappa della diffusione del virus in Europa, vediamo che le zone più colpite vanno dalle metropoli di Londra, Parigi, Bruxelles al Sud della Germania, all’Italia del Nord fino a Barcellona, lasciando fuori gran parte dell’Europa dell’Est, parzialmente i Paesi Scandinavi e il Sud, tra cui la Grecia ed il resto dell’Italia.

Da un punto di vista geografico, questa zona corrisponde a quella che, in ambito di studi urbani, si chiama la “blue banana”, l’asse storico dello sviluppo industriale e urbano in Europa. La zona di Wuhan in Cina ha delle caratteristiche di urbanizzazione e di industrializzazione molto simili a quelle della Pianura Padana. Ovviamente, non si tratta di mettere in discussione l’urbanizzazione in sé, ma di partire dalla constatazione che la pandemia di coronavirus è stata un fenomeno molto legato al territorio, con una diffusione molto diversa a seconda delle caratteristiche del territorio stesso, e di come le varie zone geografiche, a seconda delle caratteristiche di tipo di sviluppo urbano, abbiano risposto diversamente al virus e alla sua diffusione.

Per “territorio” qui si intende il sistema di relazioni tra lo spazio, la politica e l’economia, ovvero il risultato di specifiche politiche, non certo un mitologico stato di natura. La pandemia ha messo in evidenza il carattere differenziato, ineguale e specifico dello sviluppo territoriale e regionale a livello continentale in Europa e nei vari Stati membri. Da questo dato bisogna partire per analizzare le ripercussioni del dopo-pandemia su scala europea e transnazionale. Il paradosso della sospensione del Trattato di Schengen e della libera circolazione dei cittadini europei all’interno dell’Unione quale risposta alla pandemia non fa altro che mettere in evidenza la natura territoriale e spaziale della politica europea e globale. Il senso principale dell’Europa, che risiede proprio nell’essere uno spazio comune, è stato sospeso dalle misure adottate per contenere la pandemia, mostrando la privazione della libertà di spostamento attraverso i confini che subiscono normalmente i migranti e anche la possibilità di un ritorno a dei rigidi spazi nazionali.

Un secondo aspetto empirico mostra le diseguaglianze territoriali e nazionali in Europa nella risposta alla pandemia di Covid-19, in particolare per quanto riguarda le infrastrutture sanitarie. Se guardiamo ai dati Eurostat, vediamo che il livello di spesa degli Stati europei per la sanità, in percentuale del Pil, è abbastanza simile: circa 11% per la Germania, la Francia e la Svezia 9,5% per il Regno Unito, 8,8% per l’Italia. Tuttavia, se rapportiamo le somme investite in sanità alla popolazione, il quadro cambia: la Svezia spende 5.200 euro all’anno per cittadino, la Germania 4.300 euro, la Francia un po’ meno di 4.000 euro, il Regno Unito circa 3.000 euro e l’Italia 2.500. Questo dimostra che la Germania investe nella salute dei cittadini e può contribuire a spiegare perché per i tedeschi la pandemia è stata meno letale che per gli italiani o gli inglesi.

Economia e Società

Queste differenze confermano le disparità territoriali ed economiche all’interno dell’Unione europea. Tuttavia, vorrei proporre una lettura filosofica di queste differenze. In Nascita della biopolitica (traduzione italiana, Feltrinelli 2005), Michel Foucault propone un’analisi dell’evoluzione del pensiero economico ordoliberale tedesco che parla al nostro presente. In particolare, nelle lezioni del 3 gennaio e del 7 febbraio 1979, racchiuse in Nascita della biopolitica, Foucault propone una genealogia dell’ordoliberismo in contrapposizione con il neoliberismo di stampo anglosassone. Foucault ritorna sul discorso pronunciato da Ludwig Erhard, che diventerà poi Cancelliere federale tedesco per la CDU (Unione Cristiano Democratica), il 18 aprile 1949. Erhard all’epoca era incaricato di gestire la ricostruzione dell’economia tedesca del dopoguerra.

Si trattava di una sfida paradossale: la Germania era divisa, dunque qualsiasi ricorso alla nazione tedesca come fondamento della ripresa era diventato impossibile. Inoltre, non era nemmeno possibile appellarsi al popolo tedesco, il Volk, perché una simile retorica avrebbe ricordato il III Reich. Si pone dunque il dilemma di come fondare un nuovo Stato tedesco, nel momento in cui il territorio dello Stato è diviso e la sua storia, le sue tradizioni non possono più essere invocate come fondamento della sovranità senza rievocare i fantasmi del recente passato nazista. La soluzione proposta da Ludwig Erhard segnerà in profondità l’evoluzione della politica nel dopoguerra: sarà l’economia tedesca che farà da substrato unificatore dello Stato tedesco. Lo Stato tedesco, la sua sovranità e la sua legittimità si basano dunque sull’economia, e lo Stato ne garantisce il quadro d’esercizio.

Per comprendere meglio quest’analisi e la sua importanza oggi in Europa e nel mondo, rievochiamo il saggio di Max Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905). A partire dal XVI secolo, nella società protestante, il fatto che un individuo fosse ricco era interpretato come il segno della benevolenza divina. Nella Germania del dopoguerra, la prosperità dell’economia tedesca era l’unico segno dell’esistenza della nazione tedesca, o meglio, la prosperità economica tedesca diventa una sorta di sostituto della sovranità popolare. Il ruolo della politica è di garantire questa prosperità, e le spese nella sanità pubblica ne sono uno degli elementi chiave: si investe nella salute dei cittadini tedeschi perché la produttività sia a un livello migliore. Questo modello che Foucault definisce come ordoliberale caratterizza la società tedesca, ma anche quella scandinava, ed è completamente diverso dal neoliberismo di matrice anglosassone.

Infatti, nel Regno Unito come negli Stati Uniti prevale la visione per la quale l’economia è una specie di stato di natura, caratterizzata da una feroce concorrenza di stampo quasi “darwinista”. In queste condizioni, l’economia prospera solo se lo Stato la lascia “libera”, se non tenta di inquadrarla né di regolamentarla. Al contrario, deve regnare il “laissez-faire” e il “ciascuno per sé”. Oggi, la pandemia ha rivelato le debolezze del sistema anglosassone, lasciando un Regno Unito spaventato e ulteriormente provincializzato dalla Brexit, e gli Stati Uniti appaiono come una potenza in declino, i cui leader politici sono parsi assolutamente inadeguati a gestire la crisi del Covid-19. La Germania invece, e i Paesi dell’Europa del Nord con l’eccezione della Svezia, hanno saputo mettere in pratica delle misure efficaci, sia in termini di servizi pubblici che in termini di regole sociali, che hanno evitato alti numeri di morti durante la pandemia.

Da questa situazione di indebolimento delle forze neoliberiste a livello globale e a livello europeo, e di tenuta o perfino di rafforzamento del legame tra Stato ed economia in senso ordoliberale di matrice tedesca, potrebbe emergere un nuovo equilibrio europeo. Si possono leggere in questa prospettiva la sospensione del Patto di Stabilità durante la pandemia, e probabilmente la sua futura revisione, e le discussioni sui vari strumenti finanziari che l’Unione mette in campo per il dopo-pandemia, su tutti la discussione in merito a una prima forma di mutualizzazione del debito europeo attraverso il meccanismo del Recovery Fund. Questi passi, che sembravano impossibili fino a pochi mesi fa, sono stati resi possibili proprio dall’allontanamento del Regno Unito dall’Unione.

La Brexit mette alla prova l’ordine territoriale, spaziale ed economico dell’Unione: quale modello di capitalismo si imporrà ora in Europa? La Francia con i Paesi mediterranei, tra cui Italia e Spagna, riuscirà a ottenere un compromesso con i Paesi del Nord? Il punto chiave sarà ridefinire il ruolo dello Stato in relazione all’economia. Facciamo di nuovo un passo di lato e spostiamoci ad affrontare la questione da un punto di vista filosofico, continuando con l’analisi di Michel Foucault.

Francoforte contro Friburgo

Michel Foucault nella lezione del 7 febbraio 1979 si concentra sul conflitto latente tra società e capitalismo. Questo conflitto origina nella “razionalità irrazionale” del capitalismo. La ragione capitalista manifesta la sua irrazionalità, tra le altre cose, nell’ambito della sanità pubblica: in un sistema in cui conta solo il profitto, il servizio sanitario pubblico è visto come un costo che si tratta di ridurre. Tuttavia, questa non è una scelta razionale, perché la cattiva salute dei lavoratori non garantisce un’economia performante. Lo Stato, consapevole che la logica capitalista può distruggere la società se prende di mira l’educazione, la sanità, le cure per le persone anziane, o ancora l’ambiente, deve dunque vegliare a un equilibrio nei rapporti di forza.

All’interno del pensiero tedesco del Novecento, questo problema è stato affrontato in due modi contrapposti. La prima strada, quella battuta dalla Prima Scuola di Francoforte (con filosofi come Max Horkheimer, Theodor Adorno ed Herbert Marcuse), consiste in una soluzione da sinistra al dilemma della razionale irrazionalità del capitalismo, soluzione che propone di governare con una nuova ragione sociale e politica l’irrazionalità economica. La seconda strada, quella scelta dalla scuola di Friburgo (composta da economisti come Walter Eucken o Franz Böhm, riuniti negli anni Trenta intorno alla rivista “Ordo”), si pone come obiettivo quello di fondare un’arte del governo attraverso l’economia, o precisamente un governo ordoliberale (Eucken sarà consigliere scientifico di Erhard nel 1948).

La società tedesca, cosi come quella del Nord Europa, è divisa tra queste due prospettive, che, tradotte in politica sono quella social-democratica e quella, appunto, ordoliberale. Nell’Europa del post-pandemia, la strada socialdemocratica classica sembra fragile: sarà possibile rivitalizzarla a livello dell’Unione? O sarà necessario uscire da queste due opzioni che hanno caratterizzato il dopoguerra e inventare una nuova strategia per contrastare i danni, esposti alla luce del giorno, della razionale irrazionalità capitalista, che ha tenuto in ostaggio l’Unione negli anni delle politiche di austerità?

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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