Scrive la storica Mary Stanton nel suo recente volume sull’attività del Partito comunista in Alabama: “i semi della liberazione nera, dello Student Non-Violent Coordinating Committee, del Black Power, delle Black Panthers e di Black Lives Mathers possono tutti essere rintracciati nell’eredità del Southern Negro Youth Congress, tra i cui membri erano inclusi giovani comunisti neri, e alle tattiche dell’ILD, nonché agli ideali della League of Struggle for Negro Rights, del National Negro Congress e del Civil Rights Congress [le ultime citate erano organizzazioni legate, a diversi livelli, al Partito comunista, n.d.t.]” [1]. Negli ultimi decenni una parte della storiografia sul Partito Comunista degli Stati uniti d’America (CPUSA) ne ha messo in luce, fra tanti altri aspetti, il ruolo nelle lotte per la liberazione degli afroamericani, nonché l’impegno di molti di questi ultimi come suoi militanti, contribuendo a darne un’immagine ben più complessa rispetto a ricostruzioni che lo volevano un mero strumento nelle mani di Mosca.

Tanto più grottesco appare dunque il fatto che, proprio col riaffacciarsi in primo piano delle mobilitazioni degli afroamericani – in particolare quelle suscitate dall’assassinio di George Floyd da parte della polizia – siano ritornate in voga grossolane caricature sul rapporto tra neri e URSS, caricature che attraversando l’Atlantico trovano terreno fertile in una sinistra intossicata da decenni di rozza propaganda anticomunista, maldestramente dissimulata dietro la mascheratura dell’antistalinismo; e questo persino nelle ricostruzioni meno tendenziose del rapporto tra gli afroamericani e l’URSS [2]. Mobilitazioni rispetto alle quali, anche in Italia, non mancano reazioni francamente ingenerose, caratterizzate come sono da un misto di sicumera, paternalismo e superficialità, ancor di più quando provengono da parte comunista, ovvero da chi dovrebbe essere consapevole della storia ben sintetizzata dalla citazione con cui si apre questo testo. Si va dalle lezioncine sulla necessità dell’organizzazione, al biasimo per l’abbattimento di monumenti celebranti figure discutibili, quando non odiose, per il loro coinvolgimento a vario titolo nell’oppressione degli afroamericani e di altre comunità, passando per l’immancabile e arcigno militante che rimarca la preminenza della classe rispetto a razza, genere, ecc. Il tutto spesso liquidato evocando lo spettro dell’identity politics, accodandosi al panico morale scatenato da certi media, accademia e politica liberali, sottovalutando dunque l’importanza, per molti dei soggetti coinvolti nelle proteste di queste settimane, così come per altri oppressi negli USA, di affermare la propria identità a fronte dell’imposizione di quella dei dominanti.

A ciò si aggiunge, di frequente,  un disconoscimento dell’impegno antimperialista, a sostegno degli stati sotto attacco degli USA, da parte di numerosi militanti neri, tanto più degno di nota perché proveniente dall’interno del ventre della bestia [3]. Per tanto, questo scritto proverà a rievocare il più accuratamente possibile, ma ovviamente senza alcuna pretesa di completezza (anche dal punto di vista dell’arco temporale trattato) o peggio obiettività, vicissitudini, personalità e lotte di una parte della variegata galassia comunista statunitense in riferimento specifico alla liberazione nera,  cercando di fornire in nota, ai lettori interessati ad approfondire per proprio conto, una serie di riferimenti utili a farsi un’idea della complessità della questione.

Gli afroamericani e il socialismo negli Stati Uniti prima del Partito comunista

Nelle principali organizzazioni socialiste e più o meno vagamente marxiste del periodo precedente la fondazione del CPUSA, come il Socialist Party of America (SPA), sorto nel 1901 scindendosi dal Socialist Labour Party (SLP), il problema della lotta degli afroamericani per i propri diritti non era percepito come specifico, o degno di attenzioni e organizzazioni apposite, rispetto a quello degli sfruttati in generale; non solo, l’SPA manteneva al sud sezioni in cui vigeva la segregazione e non era raro tra le sue fila attribuire la responsabilità dei bassi salari a neri e immigrati. Ancor più trascurate, in questa e altre organizzazioni, erano le lotte delle donne afroamericane, sebbene vi siano state figure di attiviste nere, come la militante del Workingman’s Party, antesignano dell’SLP, Lucy Parsons, la quale ebbe anche un ruolo nella fondazione dell’Industrial Workers of the World (IWW), ma che trattò le questioni di classe, e dell’oppressione delle donne, non attribuendo preminenza a quella razziale.

Tuttavia, non mancavano tra i numerosi intellettuali orbitanti intorno al Socialist Party of America, o a esso esplicitamente aderenti, anche personalità della comunità afroamericana, in particolare il sociologo W.E.B. Du Bois, le cui inclinazioni socialiste avevano avuto un ruolo nell’inimicargli eminenti leader neri come Booker T. Washington, fautore di una linea più riformista e compromissoria nell’affrontare quel complesso di norme discriminatorie e segregazioniste noto come Leggi Jim Crow. Du Bois fu per altro tra i fondatori nel 1909 della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People), insieme ad altre personalità nere, come Ida B. Wells-Barnett, ma anche bianche, come la militante dell’SPA Mary White Ovington.

Un radicalismo più esplicitamente marxista nell’affrontare le questioni di classe e razziali, prima della fondazione del CPUSA, trovava espressione nella rivista Messenger, fondata nel 1917 da A. Philip Randolph e Chandler Owen; rivista nella quale – accanto alla posizione sul razzismo e le sue più brutali manifestazioni, come il linciaggio, intesi quali strumenti del capitale finalizzati a impedire l’unità di proletari neri e bianchi – si sollevava il tema dell’autodifesa degli afroamericani contro la violenza razziale, e si accoglieva con entusiasmo l’ascesa dei Bolscevichi. Su una linea simile, si muoveva l’organizzazione African Blood Brotherhood (ABB), e la rivista a essa associata The Crusader, fondate da Cyril Briggs, fautore di una combinazione tra nazionalismo nero e socialismo rivoluzionario, di origini caraibiche come un altro membro dello stesso gruppo, Richard B. Moore, quest’ultimo in seguito tra i primi e più rigorosi critici del termine “negro”: entrambi confluirono successivamente nel Partito comunista.

L’ABB intratteneva rapporti, sia pur critici e destinati infine a naufragare, con la Universal Negro Improvement Association (UNIA), l’influente organizzazione panafricanista fondata nel 1914 da Marcus Garvey, il quale, pur essendo fondamentalmente anticomunista, giudicò positivamente la figura di Lenin e la fondazione dell’Unione Sovietica. In un volantino del 1920, oltre a quelle già citate – cui vanno aggiunti anticolonialismo e antimperialismo – si può leggere un elenco che sintetizza le posizioni dell’ABB: una razza liberata, l’assoluta uguaglianza razziale (dal punto di vista politico, economico e sociale), la promozione dell’autostima razziale, l’opposizione organizzata e senza compromessi al Ku Klux Klan, un fronte unito dei neri, sviluppo industriale, salari più alti per i neri, riduzione dell’orario e migliori condizioni di lavoro, istruzione e, da ultimo, cooperazione con le altre comunità di colore, nonché coi lavoratori bianchi dotati di coscienza di classe [4].

Gli afroamericani e la III Internazionale

Nel febbraio del 1919, John Reed scriveva a Zinoviev, fornendo al di lì a breve presidente della Terza  Internazionale un quadro dell’oppressione cui erano soggetti gli afroamericani in USA, ma anche del loro spirito di resistenza, introducendo così la questione nei dibattiti del Comintern; l’anno successivo, in occasione del II Congresso dell’Internazionale comunista, nel suo Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, Lenin sosteneva la necessità di un supporto diretto dei partiti comunisti ai movimenti rivoluzionari dei paesi dipendenti, citando, insieme all’Irlanda, i “neri d’America”. Il IV Congresso del Comintern, nel 1922, sviluppò una discussione più ampia del problema, con la partecipazione di figure di primo piano come il poeta giamaicano Claude McKay e il comunista americano, ma nativo del Suriname, Otto Huiswoud.

Il primo, nel suo intervento, non mancava di far notare come pregiudizi, nonché scarsa volontà di affrontare la questione nera, tra socialisti e comunisti statunitensi, costituissero un ostacolo per la diffusione di qualsiasi forma di propaganda radicale tra gli afroamericani, ma anche come gruppi di radicali neri avessero già, autonomamente, iniziato a veicolare nelle loro comunità le posizioni della III Internazionale sul colonialismo. Il secondo, già impegnato nell’ABB e primo nero a unirsi al CPUSA, se definiva la questione nera “un problema fondamentalmente economico”, rimarcava però l’eredità della schiavitù  come fattore modellante ostilità e pregiudizi dei lavoratori bianchi nei confronti dei neri; ancora, forniva un resoconto della difficile condizione di questi ultimi, specie nel sud, oltreché denunciarne l’esclusione dai sindacati; inoltre, riferiva delle organizzazioni e della stampa dei neri tanto negli Stati Uniti che in Africa, citando oltre all’ABB l’UNIA di Garvey, della quale evidenziava il carattere “ultra-nazionalista”, ma anche il potenziale antimperialista. Fatto degno di nota, in quanto esempio d’impegno internazionalista: il ruolo di McKay e Huiswoud nel definire la discussione del IV Congresso ricevette l’importante supporto di uno dei cofondatori del Partito comunista giapponese, Sen Katayama, il quale aveva vissuto negli USA dove si era interessato ai problemi degli afroamericani.

Prettamente internazionalista era la composizione della commissione dedicata alla questione nera, tra gli esiti principali del IV Congresso, sfociata nell’adozione di una serie di tesi in proposito, con le quali si indicava il legame degli afroamericani, insieme ad altre comunità afrodiscendenti, con altre popolazioni oggetto di oppressione razziale; vi si esprimeva inoltre la “necessità di sostenere ogni forma di movimento nero tendente a minare il capitalismo e l’imperialismo”, impegnava l’Internazionale comunista a lottare per l’uguaglianza fa bianchi e neri, dal punto di vista economico, politico e dei diritti.

Intanto, tra l’ottobre e il settembre del 1919, un anno dopo la fondazione di The Crusader, a Chicago nascevano il Communist Party of America e il Communist Labor Party, le due formazioni si sarebbero unite nel 1921 assumendo solo in seguito la denominazione Communist Party USA. Nel 1924, sulla scorta di quanto detto poco più su, il CPUSA, all’epoca denominato Workers Party of America, rivolgendosi all’UNIA, proclamava il proprio schierarsi affianco degli afroamericani, nonché a favore della “cacciata degli imperialisti europei fuori dall’Africa e dell’autodeterminazione dei suoi popoli” [5].

Gli afroamericani e il Partito comunista

Nella prima metà degli anni Venti il Partito comunista, la cui base bianca in buona parte costituita da immigrati spesso parlava a malapena inglese, iniziava a conquistarsi un certo seguito tra gli afroamericani; ad esempio, tra il 1923-24, l’ABB cessava di essere un’organizzazione autonoma diventando, come riferisce Harry Haywood  nella sua autobiografia, terreno di reclutamento per il partito. Partito che iniziava anche a sostenere le lotte delle donne nere, come durante lo sciopero contro i negozi di abbigliamento a Chicago nel 1924, occasione nella quale, come in altre, deleterio fu l’orientamento discriminatorio dell’American Federation of labor (AFL) riguardo alla sindacalizzazione. Discriminazioni nei sindacati che trovarono strenua opposizione da parte di alcuni importanti militanti comunisti, come William Z. Foster, che sarebbe stato a lungo segretario del partito e candidato alla presidenza in ticket con l’afroamericano James W. Ford, Rose Pastor Stokes e sopratutto William F. Dunne.

Dunne contestò aspramente luoghi comuni come quello di una presunta inclinazione dei lavoratori neri al crumiraggio e il mito dello stupratore nero, una delle più odiose costanti del razzismo contro gli afroamericani;  razzismo a cui riteneva scorretto equiparare la sfiducia dei neri nei confronti dei bianchi, giustificata dall’oppressione passata e presente, bianchi ai quali spettava la responsabilità di superarla (lezione quanto mai utile oggi, in tempi di farneticazioni su un presunto razzismo al contrario); sottolineava infine la connessione tra lotte delle masse afroamericane con quelle degli altri neri nelle “colonie e sfere d’influenza dell’imperialismo”.

All fine degli anni Venti, il Partito comunista statunitense, anche su pressione del Comintern, adottò la tesi secondo la quale gli afroamericani, in particolare quelli stanziati nel sud, costituivano una nazionalità oppressa avente diritto all’autodeterminazione, tesi che si impose al VI Congresso dell’Internazionale comunista nel 1928, grazie anche all’azione del già citato Harry Haywood. Figlio di una famiglia proletaria (entrambi i genitori erano nati schiavi), autodidatta, già membro dell’ABB, si unì al partito comunista nel 1923 ed ebbe modo di formarsi in Unione Sovietica tra il 1926 e il 1930.  Haywood fu una figura di spicco nel partito fino agli anni Quaranta, ma tra le tante lotte cui prese parte vale la pena ricordare quella che impegnò i comunisti statunitensi in un celebre caso di (in)giustizia razziale negli anni Trenta, ossia quello dei cosiddetti Scottsboro Boys: un gruppo di nove giovani afroamericani, alcuni adolescenti, ingiustamente accusati in Alabama di aver stuprato due ragazze bianche, ritenuti colpevoli nel corso di diversi processi da giurie di soli bianchi  e condannati a morte.

Numerosi militanti e quadri neri, oltre a Haywood, B.D. Amis, William Patterson e Benjamin Davis Jr, contribuirono a fare luce sulla vicenda e fornire una difesa adeguata agli imputati, tramite organizzazioni affiliate al Partito comunista come la League of Struggle for negro Rights (LSNR), l’International Labor Defence (ILD), nonché a internazionalizzarla, in particolare con l’intervento dell’attivista panafricanista e membro del partito USA George Padmore, all’epoca ai vertici dell’International Trade Union Commitee of Negro Workers [6].

I comunisti statunitensi diedero un ulteriore esempio della loro capacità organizzativa sempre in Alabama, uno stato diviso tra il complesso minerario-industriale intorno Birmingham e le aree rurali, con l’industria mineraria che basava i propri profitti sulla presenza di una vasta mano d’opera a basso costo, sia bianca che nera, alimentata anche dall’afflusso di contadini senza terra e immigrati da altre zone del paese. Nonostante l’ambiente ostile del sud, il partito comunista e le organizzazioni a esso affiliate godevano in Alabama di un certo seguito, agendo come tramiti delle lotte della classe lavoratrice nera, comprese le donne, ma riuscendo comunque ad attrarre anche una parte di bianchi e operando a un ampio livello di autonomia, sia rispetto ai vertici nazionali che all’URSS.

Ambiente ostile si diceva, non solo a causa delle autorità locali e della polizia, ma anche per via del Ku Klux Klan, la cui violenza si abbatteva con particolare frequenza contro i militanti neri del partito, vittime di ripetuti pestaggi e persino rapimenti; Ku Klux Klan che produceva appositi volantini per intimare agli afroamericani di non partecipare alle iniziative comuniste. Tra gli organizzatori afroamericani che il partito riuscì a reclutare vanno citati Angelo Herndon, minatore radicalizzatosi nel duro ambiente delle miniere di carbone e conquistato dall’impegno comunista contro il razzismo; Al Murphy, istruitosi alle scuole serali mentre lavorava, venne a contatto coi comunisti grazie a un volantino che recitava “Stop ai linciaggi – Pieni diritti per i neri – Abbasso la guerra imperialista!”; a sua volta Murphy reclutò l’operaio siderurgico Hosea Hudson, ed entrambi furono cruciali nell’attirare futuri attivisti afroamericani del partito. Quest’ultimo, nel corso degli anni Trenta, riuscì a consolidarsi in Alabama organizzando i disoccupati, i minatori e in particolare i fittavoli attraverso la Sharecroppers’ Union (SCU), la cui base era costituita prevalentemente, se non totalmente, da neri.

Si è accennato di passaggio al ruolo delle donne afroamericane nel partito, figure di varia estrazione sociale e formazione, talvolta provenienti dalla classe media, come Grace Campbell, oppure di origini proletarie come Williana Jones e Maude White; non di rado, completata la loro istruzione, trovavano impiego nei servizi sociali, nell’insegnamento o in lavori d’ufficio. Altrettanto varie erano le vie che le conducevano a diventare comuniste: la Campbell fu la prima donna nera iscritta al Socialist Party of America, distaccandosene anche a causa del prevalente riduzionismo di classe riguardo alla questione nera, in seguito si unì all’ABB di Briggs, confluendo quindi nel CPUSA all’interno del quale si oppose alla linea dell’autodeterminazione per i neri del sud; similmente Williana Jones fece prima parte dell’SPA, abbandonandolo per le medesime ragioni, poi dell’American Negro labor Congress (ANLC), organizzazione fondata dal Partito comunista, aderendo infine a quest’ultimo nel 1927; Maude White fu introdotta diciottenne al comunismo dalla sua insegnante d’inglese, un’iscritta al partito, rimanendo entusiasta di un ambiente in cui i neri intervenivano a manifestazioni interrazziali e nel quale si contestavano apertamente razzismo e imperialismo.

Accomunava tutte le personalità citate l’ammirazione per i progressi nella condizione femminile compiuti in URSS e, nel caso della Campbell e di altre comuniste nere, come Hellen Holman, la loro familiarità con gli ambienti della Harlem Renaissance, nei quali non era rara la contestazione dei valori piccolo e medio borghesi in materia di sessualità, genere, famiglia, ecc. Fra i  principali strumenti dell’attività di alcune di queste militanti vi era l’Harlem Tenants league (HTL): formata nel 1928, si occupava di organizzare scioperi degli affitti, opporsi agli sfratti e di problemi abitativi in generale, inquadrandoli anche nel contesto più ampio della lotta contro suprematismo bianco, capitalismo e imperialismo. In conclusione di questa breve rievocazione è doveroso menzionare Claudia Jones, originaria di Trinidad, immigrata giovanissima a New York aderì a diciotto anni al CPUSA, emergendo come una brillante organizzatrice e giornalista, additando con decisione la triplice oppressione inflitta alle donne afroamericane – come lavoratrici, nere e donne – denunciando inoltre la riluttanza, o incapacità, di molti movimenti progressisti a dare spazio alle loro rivendicazioni e valorizzarne le lotte; nel corso degli anni sarebbe stata incarcerata diverse volte e poi deportata nel 1955, trovando asilo in Gran Bretagna dove mantenne vivo il proprio impegno tra la comunità nera londinese [7].

Gli ultimi anni della vicenda di Claudia Jones conducono questa rassegna in un altro periodo della storia del comunismo statunitense, segnato dalle persecuzioni maccartiste, da disillusioni e abbandoni e in seguito, tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, dall’emergere di nuovi movimenti d’ispirazione comunista, nazionalista, o svariate combinazioni delle due tendenze, spesso con lo sguardo rivolto alla Cina maoista. Movimenti che spesso riproponevano anche tematiche richiamate nei precedenti paragrafi: quella dell’autodifesa armata, particolarmente sentito dal Revolutionary Action Movement (RAM), ispirato dall’attività di Robert Williams, il quale nel 1957 aveva organizzato gruppi armati al fine di reagire alle violenze del Ku Klux Klan e, nel 1961 – a seguito di false accuse di sequestro – trovò asilo a Cuba; o ancora la tesi dei neri del sud come nazione con diritto all’autodeterminazione, abbracciata da gruppi antirevisionisti tra cui il Partito comunista (marxista leninista) (CP [ML]) che vantava tra le sue fila Harry Haywood. Non ci si dilungherà su organizzazioni più note, una per tutte il Black Panther Parthy, dopo tutto, in questo testo sono state trascurate figure altrettanto famose, e non solo per l’impegno politico, come Paul Robeson e Langston Hughes, sulle quali anche in italiano si può trovare qualcosa.

Per concludere, all’inizio di quest’ultimo paragrafo si è parlato di disillusioni e abbandoni, tuttavia è significativo – come ha fatto notare lo storico Malcolm Sylvers – che molti tra i neri più in vista del CPUSA ricordati non lasciarono il Partito comunista, fatta eccezione per Haywood, il quale però ne uscì da sinistra, su posizioni maoiste, e coerenti con quanto aveva sostenuto nella sua precedente militanza.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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