L’analisi di 30anni di export bellico dell’Italia, fino alle fregate comprate dall’Egitto e ultimate nelle fabbriche Leonardo, ad ogni costo, in piena emergenza Covid. I rapporti di Greenpeace e di Archivio Disarmo denunciano la scarsa applicazione della legge 185 e la poca trasparenza.
La storiografia ha già archiviato il mito degli “italiani brava gente”. Adesso tocca ai dati: il Belpaese esporta sempre più armi e sempre più verso le aree calde del mondo. A dimostrare il cambio di passo dell’export bellico tricolore dell’ultimo quinquennio è un’analisi di Rete Disarmo pubblicata in occasione del trentesimo anniversario della 185/90, la legge che regola il commercio italiano di armi. Il risultato è inequivocabile: negli ultimi 5 anni la Farnesina ha rilasciato quasi la metà delle licenze concesse negli ultimi 30 anni (44 miliardi di euro tra il 2015 e il 2020 su un totale di 98 miliardi autorizzati tra il 1990 e il 2020).
Oltre ai volumi di traffico, negli ultimi anni sono cambiate anche le destinazioni, con le nostre armi dirette sempre più verso Paesi coinvolti in conflitti o regimi autoritari. Il 63% delle autorizzazioni italiane 2019 sono infatti destinate a Paesi fuori dall’Alleanza atlantica e dall’Unione europea. L’anno prima questa quota era addirittura il 73%. Greenpeace ha visualizzato questo sbilanciamento verso le aree “calde” del mondo con una mappa interattiva, che mette in correlazione le autorizzazioni all’esportazione (e le consegne definitive) italiane con il Normandy Index: un indice del Parlamento Europeo che misura la minaccia alla pace considerando non solo fattori tradizionali come i conflitti armati e il terrorismo, ma anche criteri nuovi, come l’insicurezza energetica e il cambiamento climatico. Sono molti gli importatori di armi tricolore ad alto rischio, a cominciare dai due principali clienti del 2019: Egitto (commesse per 872 milioni di euro) e Turkmenistan (446 milioni di euro). Nella lista dei clienti italiani compaiono anche Arabia Saudita, Turchia, Tailandia, Marocco, Israele, India, Nigeria e Pakistan. Tutti con un Normandy Index sotto la media mondiale, e finiti spesso nel mirino delle ONG a tutela dei diritti umani.
La mappa di Greenpeace mette a confronto anche il budgetmilitare dei Paesi che importano le nostre armi con la spesa pubblica sanitaria. Il risultato è una correlazione stretta tra le nazioni che minacciano maggiormente la pace e quelle che gonfiano il budget per la difesa a scapito della salute collettiva: i Paesi che investono di più nelle attività militari che nella cura della popolazione si concentrano infatti nelle zone di maggior tensione, come Medio Oriente, Nord Africa e Asia meridionale. E a tutti l’Italia vende armi. Spesso aggirando la 185, che vieta l’esportazione verso “Paesi in stato di conflitto armato” o responsabili di “gravi” violazioni dei dirittiumani.
Malgrado le voci critiche fuori e dentro il Parlamento, l’11 giugno Palazzo Chigi ha dato parere favorevole alla vendita di due navi da guerra all’Egitto (1,2 miliardi di euro), senza passare per un voto delle Camere. Eppure la legge prevede che l’esportazione, l’importazione e il transito di materiale di armamento siano “conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia”. Il via libera all’esportazione deve essere ancora ufficializzato dall’Autorità competente (l’Uama, incardinata all’interno del ministero degli Esteri), ma potrebbe essere solo l’inizio. Indiscrezioni di stampa, infatti, parlano di una mega commessa per il Cairo da oltre 9 miliardi di euro, che comprenderebbe altre 4 navi da guerra, 20 pattugliatori, 24 caccia multiruolo Eurofighter e 24 aerei addestratori M364. Se andasse in porto, segnerebbe un record mai raggiunto dal nostro export di armi.
Dubbi sulla corretta applicazione della legge 185 sono sorti spesso. Dopo tante denunce e proteste per l’utilizzo contro civili in Yemen di ordigni fabbricati in Sardegna dalla Rwm, nel giugno 2019 il governo ha bloccato le licenze per “bombe di aereo e missili e loro componentistica” verso Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, ma ha continuato a dare semaforo verde a tutti gli altri tipi di armamento diretti a Riad o ad Abu Dhabi. In pratica, come ha dichiarato il ministero degli Esteri rispondendo a un’interrogazione di Leu del 10 giugno, tra il 26 giugno e il 31 dicembre 2019, l’Italia ha autorizzato esportazioni di armi verso l’Arabia Saudita per circa 105 milioni di euro: otto volte il valore del 2018.
Le contraddizioni dell’Italia non finiscono qui. Se nel 2019 il Paese che ha incassato il valore più alto delle autorizzazioni tricolore è stato l’Egitto, la nazione che ha ricevuto più armi nostrane è stata la Turchia (338 milioni di euro): la stessa alla quale la Farnesina ha sospeso il rilascio di nuove licenze dal 15 ottobre 2019, in risposta all’offensiva di Erdogan. Come dimostrano i dati Istat sul commercio estero, però, le aziende hanno continuato a consegnare armi e munizioni alla Turchia, con un’impennata proprio in ottobre, mentre piovevano bombe sulla Siria nordorientale.
L’azienda che nel 2019 ha ricevuto la stragrande maggioranza di autorizzazioni (58%) è stata, come quasi ogni anno, Leonardo, l’ex Finmeccanica partecipata dal ministero dell’Economia. Il settore della Difesa è sempre stato sostenuto dai governi come strategico, malgrado registri un rapporto molto basso tra investimenti e posti di lavoro. Quando il Paese è entrato in “lockdown” per fermare il contagio del Covid-19, l’industria dell’aerospazio e della difesa è stata autorizzata a proseguire le attività, al pari dei comparti sanitari e della filiera agroalimentare.
Tutti i dossier pubblicati in occasione dei 30 anni della 185, dall’analisi di Rete Disarmo al rapporto di Greenpeace, fino allo studio di Archivio Disarmo, denunciano la scarsa applicazione della legge. Sul banco degli imputati anche la scarsa trasparenza della Relazione che il governo presenta ogni anno al Parlamento per fare il punto sull’export di armamenti. Malgrado le migliaia di pagine e tabelle, è impossibile determinare quale azienda venda quali armi a quale Paese. Sparita anche la lista dei Paesi “off limits” ai quali l’Italia non può esportare materiale bellico. Tanto che viene il dubbio che siano considerati tutti potenziali clienti.