articoli di Andrea Staid, Danilo Tosarelli, Elena Fabrizio, Franco Di Giorgi, Giovanna Lo Presti, Leo Essen, Lucio Garofalo, Marco Prestininzi, Matteo Saudino, Rosangela Pesenti, Tomaso Montanari, Teresa Celestino, Usb, Marco Rostan, Alessandra Basso, Valentina Flamini, Eleonora Franchini, Sara Gandini

Covid-19: Cosa Rischiano i Bambini e i Ragazzi a Scuola?

Alessandra Basso (TINT, Università di Helsinki), Valentina Flamini (Biologa molecolare), Eleonora Franchini (docente di scuola secondaria di secondo grado), Sara Gandini (IEO, SEMM)

Vi passo qui di seguito un testo scritto da un gruppo di ricercatrici italiane che è veramente una boccata di ossigeno nello tsunami di fesserie e di bugie che ci sta sommergendo. Non un testo facile, non un testo annacquato. Un esame approfondito della letteratura scientifica. Non è un testo di opinioni, è un testo di dati e di fatti. E che arriva alla conclusione che il rischio di un ritorno a scuola per i nostri bambini è minimo o inesistente, e che — soprattutto — è trascurabile rispetto ai danni psicologici che i bambini ricevono standosene isolati a casa.

La cosa più bella è il successo che questo testo ha avuto. Pubblicato sul sito Facebook “Pillole di Ottimismo” è stato condiviso oltre 2500 volte in 24 ore. E’ un risultato eccellente considerato il marasma che è Facebook al momento attuale. Dei circa 500 commenti, praticamente tutti sono favorevoli, molti ringraziano per la spiegazione. Soprattutto, sono genitori e mamme preoccupate per i loro bambini costretti in una situazione innaturale di isolamento e segregazione.

Come sappiamo, l’informazione pubblica in Italia è dominata da sorgenti di informazione completamente inaffidabili e di solito impegnate nel raccontarci bugie. Ma quest storia ci fa vedere come c’è ancora spazio per raccontare le cose come stanno. C’è ancora gente in grado di recepire un messaggio anche complesso quando capiscono che gli autori (le autrici, in questo caso) hanno lavorato seriamente per fare un servizio di informazione pubblica. (UB)

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I bambini non sono i più colpiti da questa pandemia, ma rischiano di essere le sue più grandi vittime”. Così apre il report delle nazioni unite dedicato all’impatto del Covid-19 sui bambini (1).

Effetti della chiusura delle scuole

La chiusura delle scuole e il confinamento domestico hanno rappresentato un grosso sacrificio per le categorie più giovani che hanno subito un cambiamento repentino e prolungato della loro quotidianità. Bambini e ragazzi sono stati costretti a rinunciare alla scuola, luogo insostituibile non solo per il loro bisogno di apprendimento, ma anche di crescita sociale ed emotiva. Questa rinuncia ha generato una sofferenza che è stata comunicata in modi diversi, spesso con segnali di iperattività e irrequietezza, oppure, al contrario, con la comparsa di abulia, stanchezza, disturbi del sonno (2).

Numerosi studi hanno dimostrato che il confinamento domestico e la chiusura delle scuole hanno avuto conseguenze negative gravi e di lunga durata sulla salute fisica e psicologica dei bambini. Gli effetti sulla salute fisica sono legati soprattutto ad una alimentazione meno sana, una diminuita attività fisica e all’aumento dell’uso di dispositivi elettronici: televisione, cellulare e video-giochi (3).

Gli effetti sul benessere psicologico ed emotivo erano già stati ampiamente documentati durante le epidemie di SARS e Ebola, e sono stati confermati dalle indagini condotte nei mesi scorsi. Il confinamento domestico, infatti, ha causato un aumento del livello di stress che può avere effetti a lungo termine sul benessere di bambini e ragazzi e aumenta il rischio di sviluppo di malattie mentali nell’età adulta. Uno studio del 2013, per esempio, ha evidenziato un livello di stress-post traumatico quattro volte superiore nei bambini sottoposti a misure di confinamento domestico rispetto a quelli non sottoposti alla quarantena (4). Tra i sintomi più diffusi, ci sono l’insorgenza di nuove paure (come la paura di essere contagiati), l’ansia da separazione, segnali di regressione, disturbi del sonno, irritabilità e comportamento oppositivo.

Una recente indagine condotta dal Gaslini di Genova rileva problematiche comportamentali e sintomi di regressione nel 65% dei bambini minori 6 anni, e nel 71% di bambini e ragazzi compresi tra i 7 e i 18 anni (5). Sempre in Italia, lo studio osservazionale condotto da Pisano, Galimi e Cerniglia ha fatto emergere una prevalenza di comportamenti oppositivi (il 53% dei bambini mostra segni di irritabilità e intolleranza alle regole), e anche di comportamenti adattivi (il 49% è apparso capace di adattarsi alle regole del confinamento), ma ammonisce che questi indizi di resilienza possano in realtà nascondere un maggiore disagio psicologico (6). La chiusura delle scuole, inoltre, causa un ritardo nel conseguimento degli obiettivi scolastici e più in generale dello sviluppo socio-emotivo nell’età evolutiva. Un mese di vita pesa in modo molto differente nell’età dello sviluppo rispetto all’età adulta.

Non si tratta solo delle opportunità di apprendimento andate perdute, ma anche del rischio di dimenticare quello che è stato acquisito fino a quel momento con il risultato di un regresso duraturo che difficilmente potrà essere recuperato. In passato, studi sulla chiusura estiva e sull’interruzione dei servizi scolastici causata da eventi metereologici hanno dimostrato effetti duraturi nell’apprendimento scolastico: ogni 10 giorni di chiusura straordinaria provocano una diminuzione del 5% del numero di studenti che raggiungono gli obiettivi di fine anno (7, 8).

Un recente articolo di Guido Neidhöfer, inoltre, mette in luce come la pandemia e le misure restrittive abbiano effetti differenziati sui bambini, colpendo più gravemente quelli provenienti da contesti svantaggiati, e di conseguenza possano inasprire le disuguaglianze sociali nel lungo periodo (9).

L’articolo rileva che la pandemia e le conseguenti misure restrittive possono ingrandire le disuguaglianze economiche e sociali agendo su più livelli. Da una parte, la riduzione del rendimento scolastico associata alla chiusura delle scuole incide sulle future competenze professionali e sui redditi una volta entrati nel mondo del lavoro. Negli Stati Uniti, il costo della chiusura delle scuole in termini di mancati rendimenti futuri è stato stimato al 12,7% del PIL. Gli studenti provenienti da contesti svantaggiati hanno minori opportunità educative oltre alla scuola e pertanto sono più esposti a questo effetto collaterale. Un secondo veicolo di inasprimento delle disuguaglianze sociali è legato agli effetti del lockdown sul lavoro dei genitori. I lavoratori meno qualificati, e ancora di più quelli del settore informale, sono i più vulnerabili alla riduzione dei salari e alla perdita del lavoro. Di conseguenza, le famiglie in fondo alla distribuzione reddituale affrontano una riduzione più accentuata delle risorse economiche e questo ha un impatto profondo sulle opportunità dei figli.

Un documento firmato da 9 reti di associazioni (circa duecento in tutto) che lavorano con bambini e ragazzi in Italia sottolinea le disuguaglianze nelle opportunità di crescita, di apprendimento e di sviluppo nel nostro paese: secondo dati Istat 2018/2019, il 12,3% dei ragazzi di 6-17 anni vive in case prive di pc o tablet; secondo dati Eurostat 2019, il 10,7% dei giovani di 15-19 anni non sono occupati e non sono in formazione. Il documento evidenzia inoltre che l’educazione è cruciale per ridurre le disuguaglianze: secondo l’ONU e un’ampia letteratura scientifica nazionale e internazionale, l’investimento in educazione, in particolare quella dei bambini in età 0-2, è quello maggiormente in grado di prevenire le ineguaglianze nel corso della vita.

Che ruolo hanno i bambini nella trasmissione del virus?

Stanti gli studi scientifici e le evidenze dagli altri paesi ad oggi disponibili sul ruolo dei bambini nella trasmissione del virus, l’apertura delle scuole non dovrebbe creare paure perché i dati sono rassicuranti: i bambini e i ragazzi si ammalano meno e hanno meno probabilità di trasmettere il virus alle persone con cui entrano in contatto. Mentre è noto che i bambini siano veicolo di infezione per malattie come l’influenza stagionale, gli studi finora condotti mostrano che ciò non sia vero nel caso del COVID-19 (10, 11, 12).

Una indagine condotta nella regione francese Crépy-en-Valois, a nord-est di Parigi, recentemente pubblicata, ha analizzato l’andamento dell’epidemia su un campione di 1.340 persone, di cui 510 bambini di sei diverse scuole elementari. Prima che le scuole chiudessero per le vacanze di febbraio e per il successivo lockdown, sono stati riportati solo tre casi di infezione riconducibile al Sars-Cov-2 nei bambini i quali, peraltro, hanno manifestato sintomi lievi della malattia (11). La bassa percentuale degli infettati tra il personale docente (7,1%) e non docente (3,6%), contrapposta all’alta percentuale degli infetti tra i genitori dei bambini (61,0%) ha portato alla conclusione che i bambini non siano stati il veicolo per la trasmissione del virus. I ricercatori ipotizzano che, al contrario, possano essere stati i genitori ad infettare i figli e non viceversa.

Un altro studio condotto tra aprile e maggio a Parigi, la regione più colpita dall’epidemia in Francia, su 605 bambini e ragazzi di età compresa fra gli zero e i 15 anni conferma i risultati dell’indagine preliminare appena descritta: i bambini sembrano essere meno suscettibili alla malattia e sono probabilmente anche poco contagiosi (10). I ricercatori hanno combinato i risultati di tamponi e test sierologici con lo scopo di valutare la diffusione del virus tra i più giovani. Si è visto che fratelli e sorelle all’interno di famiglie con almeno un membro affetto non risultavano più facilmente positivi al tampone né all’esame sierologico e questo conferma che il contagio dei bambini avvenga attraverso i genitori.

Anche un recente studio condotto da Andrea Crisanti a Vò Euganeo, che uscirà a breve su Nature, conferma che i bambini non si ammalano anche in presenza di una forte esposizione: dei 234 bambini sotto i 10 anni presi in considerazione, nessuno è risultato positivo al virus, nemmeno i 13 che hanno vissuto a contatto con positivi in grado di trasmettere l’infezione (13).

Le scuole hanno ricominciato la didattica in presenza in diversi stati europei. In Germania la spinta alla riapertura è seguita ai risultati di uno studio preliminare di quattro università tedesche (Heidelberg, Friburgo, Tubinga e Ulm) su 2.500 bambini di età compresa fra uno e dieci anni e i loro genitori. Dai test effettuati è emerso che nel periodo preso in esame, tra aprile e maggio, un bambino e un genitore si sono ammalati, mentre 64 sono risultati positivi al test sugli anticorpi, dunque avevano contratto il virus senza accorgersene. Meno di un terzo dei contagiati erano bambini. Nella maggioranza di casi di genitori contagiati, poi, non si osservava l’infezione nei figli, confermando che i bambini sono meno suscettibili al virus Sars-Cov-2 (14).

In Olanda alla riapertura delle scuole, avvenuta gradualmente fra l’11 maggio e l’8 giugno, senza misure di distanziamento sociale stringenti, non è conseguita l’insorgenza di focolai e i test condotti sul personale scolastico dal 6 maggio in poi non ha mostrato un aumento dei casi in percentuale positivi al Sars-Cov-2 (12). L’esperienza olandese conferma, ancora una volta, l’impatto minimo della riapertura delle scuole sull’evoluzione della pandemia.

Conclusioni

Alla luce delle recenti evidenze scientifiche rispetto ai rischi di contagio da parte dei bambini e ragazzi, possiamo concludere che la riapertura delle scuole non sembra influire in maniera determinante sull’andamento della pandemia da Sars-Cov-2 mentre la chiusura rischia di minare la salute psico-fisica, l’apprendimento scolastico e la socialità delle future generazioni, soprattutto per i bambini e ragazzi provenienti da contesti più difficili. Resta aperta la riflessione sulle “modalità di apertura” che auspichiamo tengano conto dei dati scientifici prodotti, oltre che delle esperienze già in atto nei paesi citati, e mirino a ristabilire in bambini e ragazzi la serenità e spontaneità nell’incontro con l’altro.

da qui (anche i link alle citazioni)

Geometra per noi

Una risorsa in più per ripartire a settembre in sicurezza

Un concreto supporto ai dirigenti scolastici e ai loro collaboratori per aiutarli a preparare la ripresa delle attività didattiche in presenza all’inizio del nuovo anno scolastico, offrendo loro strumenti pratici per verificare la capienza delle aule e degli altri spazi scolastici e per programmare i flussi e lo scaglionamento delle classi all’ingresso e all’uscita, nel rispetto delle misure di distanziamento.

Spazio alla Scuola è una piattaforma informatica gratuita, pensata e sviluppata dalla Fondazione Agnelli, insieme a BIMGroup del Politecnico di Milano e all’Università di Torino, presentata oggi ai media e disponibile online all’indirizzo www.spazioallascuola.it

Alla presentazione hanno partecipato Andrea Gavosto e Martino Bernardi, rispettivamente direttore e ricercatore della Fondazione Agnelli, insieme a Giuseppe Martino Di Giuda, vice rettore dell’Università di Torino e responsabile scientifico del BIMGroup del Politecnico di Milano.

https://www.fondazioneagnelli.it/2020/07/17/spazio-alla-scuola/

da qui

Il piano Colao e la medicina digitale per i malanni della scuola – Teresa Celestino

Quali sono i rimedi suggeriti dal recente Piano Colao nientemeno che per il “rilancio dell’Italia nel settore dell’Istruzione” nella fase di emergenza post Covid-19?

I punti programmatici sono caratterizzati da una pervasività di termini ed espressioni dal significato fumoso, che si cerca di nascondere attraverso l’uso reiterato e francamente irritante di anglicismi. Come già accaduto in situazioni analoghe, è molto probabile che questa cortina di fumo favorirà l’inserimento di tale lessico in pianta stabile nel variegato mondo scolastico italiano, con pericoli e degenerazioni a dir poco allarmanti. Vorrei proporre qualche esempio, in particolare per quanto riguarda la formazione scientifica. Il punto 78 è intitolato:

«Spinta alla formazione su nuove competenze – Lanciare un programma didattico sperimentale per colmare gap di competenze e skill critiche (capacità digitali, STEM, problem-solving, finanziarie di base)».

Si presentano alcuni dati a riprova del fatto che le “skills digitali” (sic!) siano poco diffuse nella popolazione italiana. Non è chiaro a quale tipo di abilità digitali tali dati si riferiscano: alla Digital Literacy (DL) o alla Digital Education (DE)? O, ancora, alla Digital Fluency? L’espressione che compare successivamente (“competenze digitali di base”) sembra deporre a favore della DL. Inoltre più avanti è possibile leggere che “solo il 20% degli insegnanti ha effettuato corsi formativi in materia di alfabetizzazione digitale e il 24% delle scuole manca ancora di corsi di programmazione”.

Dunque ci si riferisce alla DL, una mera alfabetizzazione digitale che consiste nel semplice uso dei nuovi media richiesto a un bambino di 10 anni al termine della scuola primaria! Non si stenta a credere che solo una piccola parte degli insegnanti abbia svolto corsi di questo tipo: la stragrande maggioranza di essi è già alfabetizzata digitalmente. A un livello superiore si colloca la DE.

Come ha sottolineato Enrico Nardelli, professore ordinario di Informatica (Università di Roma Tor Vergata) e co-fondatore del laboratorio di ricerca Link&Think, la DE dovrebbe essere completamente conclusa al massimo entro il termine della scuola secondaria di secondo grado e la DL entro la fine della scuola primaria. [1] Scrive inoltre il prof. Nardelli a proposito della DE: “gli strumenti digitali in se stessi non sono, secondo me, attori di primo piano in tale percorso educativo. Non perché siano trascurabili, tutt’altro: è proprio la loro ubiquità che rende urgenti queste discussioni. Essi vanno però interpretati come dei “mezzi”, sui quali bisogna fornire una qualche forma di educazione – pena l’inutilità del resto del processo formativo, ma non costituiscono l’oggetto primario dell’educazione digitale.” [2] (il corsivo è del redattore)

Indicando un 24% di scuole mancanti di corsi di programmazione, il Piano Colao caldeggia apparentemente l’estensione dell’insegnamento dell’Informatica, in realtà relegandola in versione ridotta al solo livello extracurricolare. La programmazione è infatti solo una parte di questa disciplina, come lo stesso prof. Nardelli ha ribadito in varie occasioni [3]; inoltre l’Informatica è presente come disciplina curricolare solo nel biennio degli istituti professionali (limitatamente alle TIC), nel biennio degli istituti tecnici (nel triennio solo se di indirizzo informatico) e nell’opzione “scienze applicate” del liceo scientifico: quindi in una percentuale sicuramente minore del 76% di scuole in cui si presume che tali corsi di programmazione siano presenti.

Di fatto, si continua a negare a questa disciplina la possibilità di essere inserita a pieno titolo nelle materie di insegnamento istituzionali. Il CINI (Consorzio Interuniversitario Nazionale per l’Informatica) ha elaborato una proposta di Indicazioni Nazionali per un inserimento capillare, graduale e ragionato dell’informatica dalla primaria alla secondaria di secondo grado [4].  Nonostante queste sollecitazioni, in ogni discorso sulla scuola ci si limita a evidenziare quasi ossessivamente l’importanza delle “skills digitali” piuttosto come una invocazione taumaturgica, confondendo strumenti e dispositivi con principi concettuali di grande valore formativo (algoritmi, linguaggi di programmazione, reti). Di conseguenza l’Informatica vera e propria continua a essere relegata in alcuni indirizzi specialistici della scuola secondaria di secondo grado, in controtendenza con i provvedimenti attuati o in programma in nazioni come l’Inghilterra [5] e la Francia [6], nelle quali il dibattito sull’inserimento di questa materia a pieno titolo nel sistema scolastico ha già prodotto buoni frutti.

Dunque si auspicano altri corsi extracurricolari, oltre i già numerosissimi attuati nelle scuole italiane sin dalla scuola dell’infanzia tramite i fondi europei utilizzati dai Programmi Operativi Nazionali (PON) – che spaziano dall’alfabetizzazione digitale alla fotografia, dagli scacchi alla lingua giapponese (e che gli studenti del triennio delle scuole secondarie frequentano soprattutto per racimolare qualche punto di credito in vista dell’Esame di Stato, ovviamente trascurando lo studio dei contenuti delle singole discipline).

Il piano Colao sottolinea inoltre le carenze degli studenti italiani nella literacy scientifica, nella capacità di lettura critica avanzata e nella financial literacy, fattore che rende sempre più difficoltoso l’incontro tra l’offerta e la sempre crescente domanda di lavoratori nel settore STEM (sigla anglosassone che sta per “scienze, tecnologie, ingegneria e matematica”). Si tratta di un tema dalle ampie implicazioni culturali. Qualche anno fa Filippo Ciampolini, docente emerito di Elettrotecnica all’Università di Bologna, evidenziava in uno scritto la diffusione della “falsa idea che la lingua italiana abbia poco a che vedere con la matematica, con la fisica ecc.”, individuando nella “carenza logico-linguistica” il principale fattore di insuccesso nelle materie tecnico-scientifiche; seguivano una serie di suggerimenti dettati dalla sua esperienza di insegnamento universitario e di collaborazione con i docenti delle scuole superiori. [7] Il rimedio proposto nel Piano Colao non ha nulla a che vedere con le indicazioni del prof. Ciampolini, non accennando minimamente alla dimensione linguistica ma a “programmi didattici sperimentali erogati su piattaforma digitale” (!) in modalità blended imperniati sullo sviluppo di “competenze e skill critiche” (indicate genericamente nel calderone “capacità digitali, STEM, problem-solving”) attraverso “co-progettazione e coinvolgimento degli insegnanti” (bontà loro, gli insegnanti saranno coinvolti!). Dapprima sperimentato su classi pilota “unitamente all’analisi dei bisogni formativi degli insegnanti e dei livelli di competenza degli studenti” tramite “analisi multilivello INVALSI”, questo programma didattico potrà essere lanciato su larga scala, monitorato e migliorato sulla base di feedback e risultati nei test standardizzati internazionali come PISA.

Da notare l’accento sui “bisogni formativi” degli insegnanti, considerati dei polli da imbeccare con pillole di didattica digitale.

Veniamo al punto 79, relativo al reperimento di fondi tramite iniziative upskilling co-finanziate da pubblico e privato, “facendo leva sul settore privato per supportare insegnanti, cultura, ricerca e scuola”.

Si propone di lanciare una campagna di volontariato nel supportare le strutture pubbliche nella formazione, sia “cash” che “in kind”. Seguono proposte di campagne di crowdfunding e “donazioni per potenziamento delle strutture educational, con la quale infrastrutturare digitalmente e tecnologicamente classi di diverso ordine e grado in modo da contribuire a creare un sistema equal opportunity nell’istruzione”.

Altra proposta di formazione degli insegnanti riguarda un programma nazionale durante il quale per 20 sabati all’anno grandi aziende high tech, enti di ricerca e università faranno “corsi di aggiornamento su temi innovativi agli insegnanti di liceo e medie” (escludendo istituti tecnici e professionali?).

Inoltre, “aziende e donatori organizzano una serie di concorsi tipo Hackathon per giovani studiosi (scuole superiori) su temi di grande rilievo tecnologico, sociale e culturale”. I concorsi premieranno studenti e scuole mettendole in contatto con gli investitori. Infine, si propone un accordo con RAI Scuola/RAI Educational per il potenziamento di forme di didattica innovative.

Ciò che colpisce – oltre alla totale mancanza di riferimenti a spazi, edifici, laboratori, palestre, biblioteche e cortili con le relative attrezzature – è l’assenza delle parole “pedagogia” e “didattica”. Sembra di leggere un piano di business che rende le scuole appetibili per l’investitore privato, non certo un programma che intende migliorare l’istruzione affidandosi all’insegnante quale professionista riflessivo in grado di mettere in atto, senza condizionamenti esterni, le prassi didattiche che ritiene più opportune. Si insiste sull’importanza della matematica, delle scienze naturali e della tecnologia in una società avanzata, ma quale miglioramento è possibile senza la centralità dell’insegnante che cerca di venire incontro alle condizioni sempre in mutamento del nostro mondo, cercando di innovare con equilibrio e buon senso?

Sfugge completamente quella dimensione umanistica della scuola espressa con intensità da Natalia Ginzburg quando,  in un suo intervento del 1976 [8] riferito ai corsi di formazione per i maestri, scriveva che l’educazione è “cosa strana e misteriosa”, nella quale è impossibile “tracciare delle leggi e formulare un tipo di comportamento unico, immoto e costante”. Qualche decennio più tardi anche lo scrittore Domenico Starnone, pur con la sua lunga esperienza di docente di scuola, si arrendeva alla difficoltà di definire come dovesse comportarsi un insegnante, limitandosi a scrivere in maniera volutamente utopistica e quasi scherzosa:

“occorre una sintesi superiore di dottrina, intelligenza, ricchezza umana. Insomma, per essere all’altezza dobbiamo diventare persone eccezionali.” [9]

(Poco prima aveva precisato: “ci devono pagare meglio, lo so; ci devono far lavorare con agio, lo so; ci devono trattare con le molle, è chiaro: ci devono fornire di strumenti e spazi adeguati; ma ammettiamolo: sarebbe un lavoro appassionante).

Massimo Recalcati [10] e Umberto Galimberti ripetono da anni che gli insegnanti devono affascinare. Sono le emozioni che portano uno studente ad appassionarsi alla matematica, alle scienze o alla storia dell’arte; è il desiderio di provare l’emozione di capire che porta un ragazzo a trascorrere ore sui libri. Ore durante le quali si accenderà la passione per un campo del sapere (teorico o pratico che sia), per un mestiere, per una professione.

Nessun cenno a un ruolo incisivo delle università nella formazione dei futuri insegnanti: una formazione strutturale, non certo frammentata ed estemporanea, che innalzi il livello culturale dei futuri docenti, senza le ricette preconfezionate a cui si riferiva Natalia Ginzburg; una formazione che affronti invece quegli aspetti di comunicazione profonda, di sentimento, quasi di presenza scenica, inafferrabili eppure nel cuore della pedagogia e della didattica (oltre agli aspetti epistemologici e antropologici dell’appropriazione delle conoscenze).

Ai 20 incontri annuali con esperti high tech (proposta che giudico offensiva) sarebbe opportuno sostituire un Examen philosophicum di stampo norvegese, se davvero si vuole migliorare l’insegnamento delle materie STEM.

Nessun cenno a forme di collaborazione fra scuola e università, ad esempio tramite tesi di laurea in didattica disciplinare di alto livello, un po’ come avveniva con i laureandi che affiancavano Emma Castelnuovo durante l’insegnamento della matematica nelle scuole medie. [11] Nessun cenno di incremento dei dottorati in didattica offerti agli insegnanti, una delle vie per potenziare l’attività di ricerca insita nell’insegnamento.

Dulcis in fundo, il punto 81 è dedicato all’orientamento, in un tripudio di anglicisimi quali Career EducationCareer&Life CounsellingLife Design Labsoft smart skillsLifelongAwareness/Activation/Participationpolicy makers… A dir poco inquietanti le proposte inzuppate in una salsetta indigesta della più banale psicologia positiva (e qui rimando a un articolo di Rossella Latempa), altro terreno di formazione per gli insegnanti:

“Azioni di Consulenza di carriera e di vita personale (Career &and Life Counselling) nella scuola superiore, organizzate da esperti (psicologi con formazione ad hoc) in collaborazione con gli insegnanti (formati) e con i genitori: interventi per favorire progettualità sul futuro, superamento degli ostacoli, sviluppo di capitale psicologico (curiosità, coraggio, ottimismo realistico, speranza).”

Non v’è traccia, nel documento dei valenti membri della commissione Colao, del valore formativo delle discipline umanistiche e scientifiche (incluse l’Informatica, il Diritto, l’Economia …), di come esse costituiscano un percorso, quello della scolarizzazione, atto a facilitare l’introspezione e dunque la conoscenza delle proprie aspirazioni. No: qualche nozione alla rinfusa, un po’ di skills digitali e….  tranquilli: per comprendere le loro inclinazioni gli studenti verranno sottoposti a consulenze psicologiche, attingendo non tanto alle proprie risorse interiori quanto ai consigli di un “esperto” (non pedagogista ma rigorosamente psicologo, dunque pronto a intercettare eventuali “disturbi”).

Segue:

“Attivazione di Life Design Lab (università) per la definizione di progettualità realizzabili, lo sviluppo di soft e smart skills (resilienza, adattabilità), l’acquisizione di una prospettiva ‘Lifelong’, la sperimentazione delle transizioni professionali.”

Traduzione: un precoce addestramento alla precarietà e all’instabilità del mercato del lavoro, utile per spegnere sul nascere qualsiasi forma di ribellione a una situazione che, negli anni universitari, si tende a immaginare con un pizzico di sano idealismo.

Infine:

“Interventi di Awareness/Activation/Participation per docenti, famiglie, studenti, aziende, mondo del lavoro e policy makers, per la co-costruzione di buone visioni del futuro, dell’innovazione e del rapporto col mercato del lavoro.”

Per ora non è dato sapere in cosa consista concretamente la “co-costruzione di buone visioni del futuro”, e se davvero si può essere addestrati a questo compito.

Occorrerebbe ribadire una volta per tutte che la scuola è un sistema complesso, e come tale va studiato e trattato. [12] In un approccio sistemico, le proprietà “emergenti” – non risultanti dalla somma delle caratteristiche dei componenti da cui esse hanno origine – rendono il sistema scolastico spesso inafferrabile, soprattutto per i non addetti ai lavori. Arrovellandosi nel tentativo di comprensione delle dinamiche delle relazioni che in esso si consumano, gli scrittori hanno speso fiumi di parole in un vero e proprio filone narrativo di analisi: ormai i romanzi sulla scuola sono talmente numerosi da aver quasi dato vita a un genere letterario a parte. [13] Le soluzioni “tecniche”, oneste quando nate in seno alla concreta pratica didattica, sono necessarie ma non risolvono il nodo principale sui cui tutti sono d’accordo: la dimensione emotiva è fondamentale nell’applicazione allo studio (termine dal significato sovversivo mai menzionato nell’intero documento). Solo insegnanti di vasta e profonda preparazione culturale possono agire su di essa, senza obbedire a banali prescrizioni di finta pedagogia; i fondi dovrebbero essere usati solo allo scopo di assicurare le condizioni strutturali per far sì che essi lavorino al meglio, in piena autonomia professionale.

Ipotetici piani di rilancio dell’istruzione come quelli descritti nel Piano Colao aprono a scenari distopici raccapriccianti di insegnanti e studenti burattini alla mercé di investitori e psicologi dedicati alla profilazione del buon lavoratore e consumatore. Mettere sul banco varie medicine digitali affiancate da qualche pillola di psicologia spicciola è offensivo per i docenti, per gli studenti e per le loro famiglie, nonché per tutti coloro che da anni si dedicano con passione alla ricerca didattica nella scuola e nell’università.

Riferimenti:

[1] Nardelli, E. (2017). Internet e nuove tecnologie: passeggeri, marinai o navigatori dell’oceano digitale? L’articolo è contenuto nella pagina:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/02/09/internet-e-nuove-tecnologie-passeggeri-marinai-o-navigatori-delloceano-digitale/3377376/

[2] Nardelli, E. (2014). La società digitale: dall’alfabetizzazione all’educazione. L’articolo è contenuto nella pagina:

https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/02/09/la-societa-digitale-dallalfabetizzazione-alleducazione/874625/

[3] Nardelli, E. (2018). Coding o informatica: questo è il problema. L’articolo è contenuto nella pagina:

https://link-and-think.blogspot.com/2018/09/coding-o-informatica-questo-e-il-problema.html

[4] CINI (2017). Proposta di Indicazioni  Nazionali per l’insegnamento dell’Informatica nella Scuola. Si veda:

https://www.consorzio-cini.it/index.php/it/component/attachments/download/745

[5] Royal Society (2012). Shut down or restart? The way forward for computing in UK schools. Si veda :

https://royalsociety.org/~/media/education/computing-in-schools/2012-01-12-computing-in-schools.pdf

[6] Académie des sciences. (2013). L’enseignement de l’informatique en France. Il est urgent de ne plus atteindre. Si veda :

https://www.academie-sciences.fr/fr/Rapports-ouvrages-avis-et-recommandations-de-l-Academie/l-enseignement-de-l-informatique-en-france-il-est-urgent-de-ne-plus-attendre.html

[7] L’articolo del prof. Filippo Ciampolini “Educazione ambientale e metodi per evitare il rischio di inquinamento culturale” è contenuto nel volume “Appassionatamente curiosi – Per una didattica delle scienze dell’atmosfera”, a cura di Stefano Versari e Franco Belosi. Ed. Tecnodid (collana “I quaderni dell’USR per l’Emilia Romagna”, Quaderno n. 15, 2006).

[8] L’articolo di Natalia Ginzburg “Pagate i maestri come i ministri” è stato pubblicato sulla prima pagina del “Corriere della Sera” il primo ottobre 1976.

[9] Domenico Starnone ha scritto considerazioni molto profonde sul mestiere di insegnante nel libro “Solo se interrogato: appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso” (Feltrinelli, 2013).

[10] Si legga “L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento”, di Massimo Recalcati (Einaudi, 2014).

[11] Il libro di Carla degli Esposti e Nicoletta Lanciano “Emma Castelnuovo” (L’Asino d’Oro, 2016) descrive anche questo aspetto.

[12] “Complessità dinamica dei processi educativi”, a cura di Francesco Abbona, Giuseppe Del Re, Guglielmo Monaco. Ed. FrancoAngeli, 2008.

[13] Si legga la tesi di Cinzia Ruozzi “Raccontare la scuola. Testi, autori e forme del secondo Novecento” (Università degli Studi di Ferrara, 2013). La tesi è stata pubblicata nel 2014 (Ed. Loescher).

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Qualche punto chiaro per ripartire con la scuola a settembre – Marco Rostan

Non mi ricordo un solo anno nel quale la scuola italiana sia iniziata  regolarmente  a settembre con le classi e le sezioni formate secondo le norme vigenti, i docenti presenti dal primo giorno, i supplenti in servizio dove manca il titolare, il sostegno, con relativa riduzione del  numero degli alunni (20) per le classi dove sia presente un alunno portatore di handicap, i libri gratuiti per chi ne ha  diritto, no ai doppi turni ma neanche “classi pollaio” di 27-30  alunni, con inevitabili lezioni frontali, cioè con l’insegnante che parla a tutta la classe, un tempo aiutandosi con la lavagna, oggi con qualche supporto informatico (in realtà con 25 o 30 alunni in classe, se non sei un insegnante bravissimo in classe e capace di seguire i lavoro dei diversi gruppi , non combini un granché). Nessuna riforma organica, tentata periodicamente da ministri di tutti i colori è riuscita a realizzarsi, trovando principalmente negli insegnanti, categoria di cui ho fatto parte per vari decenni, opposizioni anch’esse di tutti i gusti e colori, corporazioni, sindacati autonomi, familismi…. Eppure sono veramente tanti gli insegnanti che alla nostra scuola, comunque organizzata hanno, dato l’anima, vivendo il loro impegno come una vera vocazione.

Ma adesso ci si è messo di mezzo anche il coronavirus e l’agitazione per settembre sta montando. Perché, da un lato, non bisogna abbassare la guardia, ma dall’altro non ci si può neanche inventare una scuola o una nuova didattica fra scuola e casa senza alcuna preparazione e con i tempi da rispettare.

Che cosa succederà? La confusione è tanta, decide il ministro o decidono i presidi? Il governo o le regioni? E se non sono d’accordo? E poi ancora bisogna che sia rispettata la “rima buccale”, la distanza tra bocca e bocca, e poi ancora il plexiglas e i box? E se ti pigli il raffreddore? E si finirà con le solite emergenze e magari l’utilizzo di palestre e simili già giudicate a rischio e bisognose di manutenzione da effettuarsi prima che caschino i soliti pezzi di soffitto…

Guardando le simulazioni degli spazi e della possibile disposizione dei banchi, mi sono accorto che di alunni, in una aula, non ce ne stanno più di 18. E mi sono detto: vai a vedere che uno degli obiettivi più importanti sostenuti nelle battaglie sindacali sulla scuola, nei contratti, e al tempo stesso mai veramente raggiunto, quello dei 25 alunni perclasse, lo conquisteremo per obbligo con le linee guida del coronavirus

Vi è un altro aspetto della indubbia trasformazione che la scuola sta vivendo con il crescente utilizzo delle connessioni virtuali, del resto sempre più diffuse, dei social… in futuro si lavorerà molto da casa e anche molto da soli come già avviene in molti settori, dal commercio, al turismo all’amministrazione, apparentemente tutto più veloce, facile, vantaggioso. Ma nella scuola questa trasformazione andrà attentamente governata perché in un ambito formativo come è quello scolastico non si dovrà assolutamente far venir meno la dimensione dell’incontro, fisico, del gruppo, della ricerca in comune che valorizzi e discuta sulle diversità, non ciascuno a casa dietro il suo tablet.  A parte l’informatica qui si gioca l’educazione civica, l’assunzione di responsabilità, la formazione delle classi dirigenti. Questione essenziale per il futuro del paese.

E infine, a proposito del rapporto tra formazione e lavoro, vale la pena ricordare un tentativo che si realizzò per iniziativa del sindacato dei metalmeccanici (Flm) nel corso degli anni ’70. Nel contratto collettivo del 1972 veniva riconosciuto agli operai l’utilizzo di un monte-ore annue non per la formazione professionale, che già c’era, ma per il miglioramento e l’autonomia culturale attraverso il recupero scolastico della licenza media. Pochi avevano questa licenza e di conseguenza erano penalizzati in partenza dal punto di vista della qualificazione e degli scatti salariali: Non c’era internet e neanche la lezione frontale, c’era (all’inizio) soprattutto una grande passione, non c’erano libri di testo, ma tutto era battuto a macchina e poi ciclostilato (!).

Le 150 ore non hanno provocato una egemonia della classe operaia nella scuola, come qualcuno sperava o temeva, ma chi ha vissuto questa esperienza in prima persona ha imparato dalla realtà e non dalle idee quante cose si potrebbero fare anche con i ragazzi della scuola “del mattino” che possano contribuire a comprendere il nostro mondo e a migliorarlo.

Cosa c’entra tutto questo con la scadenza di settembre e l’incertetezza sugli effetti del coronavirus? In realtà poco. Salvo il fatto di stimolare tutti quelli che si occupano o si occuperanno di scuola perché al centro rimangano i contenuti, l’autonomia, la produzione di pensiero, le relazioni umane e non soltanto le connessioni in un mondo virtuale tecnologicamente all’avanguardia.

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Riapertura delle scuole: due modelli a confronto – Giovanna Lo Presti

1.

Se qualcuno avesse sul serio sperato che, alla fine della fase acuta della pandemia, qualcosa sarebbe cambiato in meglio nel nostro Paese, ecco che il mese di giugno dell’anno bisestile si incarica di far capire a tutti che una cosa sono le speranze un’altra la dimensione fattuale. Anche questa volta, la soluzione vincente dei reazionari e dei conservatori è quella di dirottare i propri avversari dalla via maestra, disperdendoli in viottoli e sentierucoli che portano molto lontano dalla soluzione del problema.
Non fa eccezione la scuola. La domanda è: come sarà la riapertura a settembre?
Depistati dalla via maestra, i “progressivi” immaginano soluzioni, purché le scuole riaprano. Mischiati a quel coro troviamo anche molti esponenti della parte avversa: c’è chi immagina barriere di plexiglass, chi ipotizza lezioni sui prati, chi propone soluzioni ibride tra scuola “a distanza” e scuola “in presenza”. A questo fastidiosissimo chiacchiericcio, che conferma il conto in cui davvero viene tenuta la scuola, opponiamo due citazioni.
La prima è tratta dalla lettera aperta indirizzata al Governo nel settembre del 2019 da Legambiente:

«Caro Governo, le scuole stanno riaprendo e per questo ti scrivo. Perché quasi il 40% degli edifici ha bisogno di interventi di manutenzione straordinaria urgente; in oltre l’80% non sono state realizzate indagini per verificare la sicurezza dei solai, oltre il 60% degli istituti non dispone del certificato di agibilità e più del 76% delle amministrazioni non ha effettuato le verifiche di vulnerabilità sismica. Insomma, se per te la Scuola è una priorità, sappi che è urgente intervenire per mettere in sicurezza tutti gli edifici e garantire le stesse possibilità educative agli alunni di tutte le regioni italiane, perché negli ultimi dieci anni la situazione non è migliorata e anzi sembra proprio essere bloccata: la progettazione è troppo lenta e quasi non c’è stato nessun passo avanti in tema di riqualificazione e sostenibilità».

Questa è la prima cosa da fare entro settembre 2020, accompagnandola con un piano di assunzioni massiccio, che dia alla scuola le risorse di cui abbisogna. E non stiamo parlando soltanto di insegnanti ma anche di collaboratori scolastici e personale tecnico ed amministrativo, decurtati vergognosamente negli ultimi decenni. Se continueremo a lavorare a scuola con scarse risorse, rischieremo, dopo la crisi sanitaria, una crisi culturale, i cui effetti saranno più lenti (già si vedono, però, ad occhio nudo) ma non meno devastanti. Quindi, in primo luogo, basta parole e aprite i cantieri: non quelli delle “grandi opere” ma quelli delle scuole.

2.

Partendo da questo punto, veniamo alla seconda citazione, tratta dalle “Schede di lavoro” del Piano Colao (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/06/12/il-vecchio-mondo-del-piano-colao/) e stilata da una task force composta da tre top manager, tre economisti, due sociologi, una psicologa, uno psichiatra, un fisico esperto di innovazione, uno specialista del lavoro, un avvocato, un commercialista e un esperto di disabilità. Era prevedibile che i malcapitati non sapessero bene cosa dire sul tema dell’istruzione, forse anche per la mancanza di “esperti” del settore. Vediamo cosa scrivono sull’edilizia scolastica. Alla scheda 41-42 (“Edilizia abitativa ed edilizia sociale”) veniamo informati che «circa l’87% degli edifici scolastici risulta non adeguato alle norme antisismiche». Notiamo che la percentuale è addirittura più alta di quella indicata da Legambiente, e notiamo anche che è l’unico aspetto evidenziato. Va bene che stiamo uscendo da una pandemia, ma è possibile ridurre il problema che concerne l’edilizia scolastica al rischio terremoti? E gli impianti non a norma, i locali inadeguati, i servizi igienici carenti, l’assenza di strutture scolastiche in numerose aree del Paese, il fatto che ogni tanto caschi un soffitto, una plafoniera, una finestra, dove li mettiamo? La gran parte del patrimonio edilizio che ospita le nostre classi è fortemente inadeguato al proprio compito, ma la task force, forse perché si sentiva sul collo il fiato pesante della catastrofe, ha pensato soltanto alle norme antisismiche.
Come sapranno coloro che hanno dato un’occhiata alle Schede, esse si articolano in “Contesto” (in questo caso, è la parte in cui si parla del non adeguamento alle norme antisismiche) e “Azioni specifiche”, dove apprendiamo come rimediare a quello che innegabilmente è un grosso problema in un Paese ad alto rischio sismico. Ecco: «Per le scuole, costituzione di un fondo che emetta “social impact bond” acquistabili non solo da grandi imprese ma anche da piccoli e medi imprenditori e risparmiatori». I social impact bond (SIB) sono strumenti finanziari innovativi «destinati alla realizzazione di progetti di pubblica utilità, con una remunerazione degli investitori solo in caso di effettiva generazione di impatto sociale positivo, opportunamente misurato». Comportano «la possibilità di generare un risparmio per la Pubblica Amministrazione attraverso l’iniziativa oggetto di finanziamento; la condizionalità della remunerazione, versata soltanto a seguito del raggiungimento degli obiettivi e, quindi, della generazione di un impatto sociale positivo (verificato e misurato). Proprio quest’ultimo, infatti, permette alla Pubblica Amministrazione di risparmiare le risorse che possono successivamente essere destinate alla remunerazione dell’investitore».
Speriamo che i lettori, abituati a parlare di scuola, abbiano capito l’astuzia della task force, che consiste nel reperire fondi privati che diventeranno remunerativi soltanto se si verificherà un impatto sociale positivo. Visto come va l’Italia nei test internazionali (ai quali la task force caldeggia la partecipazione) lo Stato difficilmente dovrebbe remunerare l’investitore privato. Riterremmo opportuno chiederci perché un investitore privato dovrebbe investire fondi in un progetto zoppicante, ma accantoniamo questa troppo banale domanda e guardiamo allo spirito dell’“azione specifica”. Intanto, i fondi pubblici possono andare a finanziare altro (immaginiamo a favorire la molto trascurata grande industria) e anche le tasse possono essere ridotte al minimo, poiché a finanziare la scuola pubblica ci penseranno i privati.

3.

Se qualcuno pensasse che il progetto di riduzione della spesa pubblica per la scuola riguardi solo l’edilizia scolastica si sbaglia di grosso. Dopo averci informato che, oltre a leggere e scrivere con difficoltà i nostri studenti non se la cavano bene in financial literacy (secondo l’ultimo rapporto PISA il 20% risulta analfabeta finanziario contro circa il 14% OCSE) i nostri esperti ci suggeriscono le azioni da mettere in campo per recuperare il gap di 1,4 punti di PIL che ci distanzia dalla media europea.
Questo il che fare: «Lanciare una campagna di volontariato che affianchi le strutture pubbliche (ovviamente senza sostituirle) nel supporto della formazione, sia “cash” che “in kind”». Seguono una serie di “progetti”, che riportiamo tal quali:

– “Adotta una classe”: campagna di crowdfunding e donazioni per potenziamento delle strutture “educational”, […] con la quale infrastrutturare digitalmente e tecnologicamente classi di diverso ordine e grado in modo da contribuire a creare un sistema “equal opportunity” nell’istruzione (ad es. dotare di streaming, PC e supporti informatici le classi per didattica a distanza). Contribuzione “cash”.– “Impara dai migliori”: programma nazionale coordinato di “aggiornamento degli educatori” per il quale 20 sabati all’anno grandi aziende high tech, enti di ricerca e università fanno corsi di aggiornamento su temi innovativi agli insegnanti di liceo e medie. Le lezioni possono essere frontali o a distanza. I contenuti vanno sincronizzati e resi omogenei a livello nazionale. L’iniziativa è gratuita. La formazione va riconosciuta dal MUR . Contribuzione “in kind”.
– “Gara dei talenti”: aziende e donatori organizzano una serie di concorsi tipo Hackathon per giovani studiosi (scuole superiori) su temi di grande rilievo tecnologico, sociale e culturale. I concorsi premiano gli studenti e le scuole (e casomai li mettono in contatto con investitori). Contribuzione “cash/in kind”.

Qualsiasi commento è superfluo per chi ha a cuore la scuola pubblica. Mettiamo in evidenza soltanto la precisione con cui si alterna cash e in kind, cosa che, per i profani, sembrerebbe rimandare a una sincronica convivenza tra scambio monetario e baratto, non si sa bene a qual fine. Dalle orrende “tre I” berlusconiane in poi è stata una ignobile gara a ridurre le risorse della scuola pubblica e ad asservire lo studio alla “occupabilità”. Naturalmente questo vale per i figli delle classi subalterne. Gli altri, i figli dell’attuale “razza padrona” andranno a studiare fuori d’Italia e troveranno lavori prestigiosi non in base al merito, ma in base al privilegio dell’esser nati in uno strato sociale ultra-privilegiato. E, soli o quasi, potranno permettersi di studiare anche argomenti la cui utilità immediata non esiste.
Sta a chi ancora riesce a comprendere che imparare è un atto di emancipazione ed è il punto di partenza per una società migliore dell’attuale, l’opporsi al “modello Colao” e a ogni succedaneo, magari più edulcorato.

4.

Intanto, per settembre c’è una sola esigenza: forti investimenti per la scuola pubblica, affinché, soprattutto a chi ha di meno, possa essere offerta dallo Stato la possibilità di crescere e diventare non un lavoratore asservito e funzionale ma un cittadino che esercita i diritti che gli spettano in una società democratica. E infine, battiamoci per la gratuità del sapere, contro ogni avvilente tecnocrazia, contro ogni ottuso utilitarismo. Il momento è favorevole, perché un virus sconosciuto ci ha appena ricordato la fragilità delle nostre esistenze e l’importanza di custodire i valori più alti della nostra società – e questi non coincidono né con il cash né con l’in kind.

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L’8 settembre della scuola italiana – Tomaso Montanari

Il presidente del Consiglio che alla fine di giugno chiede altro tempo per capire come riaprire le aule tra due mesi è il simbolo dell’8 settembre della scuola italiana. Sia chiaro: la scuola pubblica collassa sotto il peso di decenni di malgoverno. Tagli selvaggi, organici drammaticamente insufficienti, aziendalizzazione, precariato schiavistico, edilizia da incubo, autonomia per finta: ecco il prodotto dell’estrema marginalità della scuola nella mentalità dei politici italiani.

Ma la colpa di Giuseppe Conte, e del suo Governo, è quella di stare completamente dentro questa mentalità: dimostrando che, per la scuola, un Governo vale l’altro.

Conte era stato avvisato: il ministro Fioramonti (il quale aveva evidentemente preso sul serio la retorica del cambiamento del Movimento 5Stelle) aveva chiesto con forza un’inversione di marcia, fino a dimettersi di fronte alla pervicace inerzia con cui il presidente del Consiglio rifiutava di dare attenzione alla scuola. La reazione di Conte fu la più democristiana possibile, in senso deteriore: spacchettare il MIUR, e usare scuola e università per fare tutti contenti nel palazzo. E tutti scontenti nella scuola, e nell’università.

E ora è il Covid a presentare il conto.

Mentre l’università vive una sorta di eclissi collettiva, la ministra Azzolina si è rivelata radicalmente incapace di governare la scuola, rilasciando dichiarazioni contraddittorie e rinviando costantemente le decisioni. Che si sono poi sempre risolte (come dimostrano ancora una volta le, tardive e non risolutive, linee guida diffuse all’ultimo momento) in uno scaricabarile che lascia dirigenti e consigli d’istituto a prendere decisioni molto più grandi di loro.

Fin dai primi di marzo Azzolina avrebbe dovuto lavorare, ventre a terra e in silenzio, per assumere almeno altri 100.000 docenti (che ci volevano comunque, e che ora diventano indispensabili per riaprire); bloccare gli effetti della pessima legge Gelmini che taglia classi e scuole; ottenere non 5,5 (saldo attuale, almeno sulla carta) ma almeno 7,5 miliardi di euro (che ci sono eccome, ma stanno su altri capitoli di spesa meno decisivi per il futuro del Paese); acquisire spazi provvisori e avviare subito i cantieri per ampliare quelli stabili; scrivere direttive chiare e univoche.

Non ha fatto niente di tutto questo: ottenendo il difficile risultato di compattare in unico fronte di sacrosanta protesta presidi, professori, famiglie e ragazzi, che ora annunciano di voler occupare le scuole… per poter fare scuola!

Nonostante gli annunci, gli stessi ragazzi che ora vanno in discoteca e in palestra e gremiscono piazze e spiagge, rischiano seriamente di non tornare in aula a settembre. E sarebbe un vero disastro, perché come ha detto una bambina di origine tunisine alla sua professoressa di italiano in prima media: «Se io non la guardo negli occhi, e lei non mi guarda negli occhi, non è scuola».

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Il nozionificio high tech – Giovanni Fioravanti

E alla fine, toh, chi si rivede: l’autonomia scolastica. È più che ventenne il dpr 275 del 1999 che attribuisce a tutte le scuole del paese autonomia didattica, organizzativa, di sperimentazione e ricerca. Tutto quello che serve in questo momento per far ripartire le lezioni a settembre. Tutto è già scritto lì: flessibilità, unità orarie, modulazione delle discipline, aggregazione per aree, smembramento delle classi, articolazione dei curricoli plurisettimanale, annuale, pluriennale, modalità di impiego dei docenti, reti di scuole, risorse del territorio.

L’autonomia scolastica: si trattava di prendere in mano quel decreto, leggerlo attentamente e di fornire a tutte le scuole i mezzi necessari per realizzarla. Anche in epoca di Covid-19, non si doveva fare nient’altro che quanto già sancito da una legge dello Stato: risorse economiche e personale innanzitutto, a partire dall’organico funzionale. E invece si pagano task force e comitati tecnico scientifici per dire alle scuole di arrangiarsi. Vai avanti tu che mi viene da piangere, in questo caso. Andate avanti così, come sempre, con le innovazioni che restano scritte sulla carta perché non ci sono soldi e perché burocrazia e paura di assumersi responsabilità hanno paralizzato anche la scuola.

Perché passare dalla piramide al piano orizzontale richiedeva di cambiare il paradigma di un sistema scolastico per troppo tempo verticistico. I provveditori agli studi non esistono più da allora, ma non è venuta meno l’abitudine o l’ossequiosità di chiamare così i dirigenti degli uffici scolastici territoriali. E poi c’è l’autonomia a cui non sono mancati i detrattori, specie quelli preoccupati che la scuola potesse trasformarsi in una azienda. Così in mano non ci resta che un’anatra zoppa.

Ora, che si riproponga niente più che la situazione di fatto per affrontare questo frangente o è donabbondismo o si tratta di pericolosi dilettanti allo sbaraglio. È che la ministra Azzolina, neodirigente scolastico, non ha avuto il tempo di fare il suo anno di prova perché impegnata a viale Trastevere, ma qualcuno di quelli che frequentano i corridoi del ministero poteva anche dirglielo prima che in questo paese esiste l’autonomia scolastica da più di vent’anni. L’autonomia scolastica, però, non è stata proprio pensata per affrontare i problemi di sicurezza legati alle epidemie, ma per consentire di qualificare e arricchire l’offerta formativa delle nostre scuole, garantendo flessibilità sia organizzativa che didattica, quello di cui c’è più necessità proprio ora. Ma è indispensabile che i professionisti della scuola, riuniti in collegio dei docenti, progettino, deliberino un nuovo piano formativo in grado di far ripartire la scuola a settembre, garantendo sicurezza senza mortificare l’istruzione. Con i mesi estivi in mezzo è pressoché impossibile che ciò possa accadere, se poi consideriamo l’esperienza, mai smentita, dell’avvio di ogni anno scolastico con le cattedre vuote in attesa dell’assunzione di migliaia di precari, il quadro assume tinte tali da ritenere che difficilmente anche a settembre le nostre scuole potranno riaprire.

In questi mesi l’insegnamento a distanza ha coperto lo stato di collasso del sistema scolastico, che poteva essere evitato se da subito ci si fosse preoccupati di pensare a come ripartire con la didattica in presenza, a come affrontare la condizione della scuola italiana, che è molto simile a quelli della Sanità: bravi professionisti ma privi di mezzi, con strutture e risorse economiche inadeguate. Occorreva correre subito ai ripari nel senso di riparare i guasti di anni di politiche dissennate, di tagli e di ideologie, dalla Moratti alla Gelmini. Con una crisi più pesante di quella del 2008, forse la peggiore in assoluto dalla depressione degli anni Trenta, difficilmente sarà possibile recuperare errori, tempo e risorse perdute.

Arriveranno i soldi dall’Europa? Per spenderli bene, però, bisogna avere un progetto di sistema formativo che non guardi solo alla situazione contingente, un progetto dalla vista lunga e dal respiro ampio, con obiettivi da raggiungere. Ma tutto questo è politica, proprio quello che in questo momento manca al paese.

Se si legge la scheda di Colao sull’istruzione c’è da chiedersi quale morbo oltre al virus ci abbia colpiti. Un vuoto assoluto in fatto di sistema formativo da ripensare e ridisegnare, l’avvenire delle nostre scuole affidato al cash and kind, al crowdfunding per dotare le classi di supporti informatici per la didattica a distanza. Un programma nazionale di aziende high tech che per 20 sabati all’anno aggiornino insegnanti di liceo e medie su temi innovativi. Gara di talenti sui temi di grande rilievo tecnologico, sociale e culturale. E poi Rai ScuolaRai Educational.

In questo panorama è facile prevedere che o a settembre tutto ritorna come prima perché il virus scompare, o la strada è già consapevolmente tracciata dal governo come dalla ministra, del resto i grillini hanno una predilezione per il digitale, dalla piattaforma che non a caso porta il nome di un grande pedagogista: Rousseau.

È la strada della didattica a distanza o comunque un sistema misto che garantisce enormi riduzioni di spesa pubblica senza la necessità di tagli che sono tanto impopolari.

Come negare che con la didattica a distanza si risparmia sull’edilizia scolastica, sugli arredi, sul riscaldamento, sui trasporti, sulle mense, sul personale. Le aule virtuali possono essere più numerose di quelle reali. E l’arricchimento dell’offerta formativa non costa, oltre alla Rai, c’è Youtube e multinazionali come la Pearson. Intanto si moltiplicano i corsi di formazione per la didattica a distanza.

Chi si era fatto viaggi di ingegneria scolastica resterà deluso: perché la grande riforma della scuola è già in attocon il ritorno al passato sicuro, al passato già collaudato, dal nozionismo della tradizione, che speravamo d’aver sconfitto, al nozionificio dei tempi moderni: il nozionificio high tech.

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Un new deal per la scuola – Matteo Saudino

Il Covid-19 ha malinconicamente ribadito, come se non fosse già chiaro ed evidente, che in Italia la scuola pubblica statale non rientra nelle priorità politiche di nessun Governo. A parte le retoriche dichiarazioni di rito, come sempre lastricate di buone intenzioni e di frasi altisonanti del tipo «la scuola è il futuro» (io mi accontenterei più modestamente di pensare al presente), il sistema scolastico continua, infatti, a ricoprire il triste ruolo di Cenerentola degli investimenti.

Questi mesi di pandemia hanno messo a nudo e accentuato le tante problematiche di un mondo dell’istruzione impoverito e umiliato da decenni di riforme finalizzate a tagliare e contenere le spese, il tutto nel nome di una modernizzazione ideologica, che ha assunto il modello aziendale come paradigma di riferimento di uno sviluppo fondato non sulla emancipazione della persona e della collettività, ma sulla competizione, sul mercato e sull’individualismo. In questo drammatico contesto il Ministro dell’Istruzione Azzolina ha gestito la crisi in modo inadeguato, approssimativo e ondivago, all’interno di un esecutivo che complessivamente ha relegato l’istruzione ai margini degli interventi per sbloccare e rilanciare il Paese. Durante il lockdown la scuola, che coinvolge direttamente la vita di circa otto milioni di studenti e di oltre ottocentomila docenti e indirettamente quella di milioni di famiglie italiane, è caduta in un buco nero di tentennamenti e rinvii, illuminato solo dalla fioca luce della didattica a distanza, inizialmente assunta a comoda panacea di ogni difficoltà, dimenticando che i processi di apprendimento e di formazione avvengono innanzitutto in presenza, soprattutto nell’età dell’infanzia e della adolescenza.

In molti, troppo ingenuamente, hanno pensato che la pandemia potesse essere l’occasione per rivedere le priorità del nostro modello di sviluppo, mettendo finalmente al centro la sanità, l’istruzione e l’ambiente, come orizzonte per migliorare le condizioni materiali di vita. Per far ciò purtroppo però non basta una pandemia, la quale nell’immediato sembra anzi aver accresciuto gli interessi particolari di categoria, bensì serve una vera e propria rivoluzione copernicana politica, economica e culturale; sino a quando al centro dell’esistenza non vi saranno il benessere comune e l’armonia uomo-natura, ma la costante ricerca del profitto privato, la scuola, la salute e l’ecologia rimarranno le variabili dipendenti del mercato capitalistico e del suo processo globale di mercificazione e sfruttamento. E alla secolare favola dell’interesse privato che si armonizza con quello collettivo non ci credono neanche più i bambini, nonostante ci venga ancora raccontata ogni sera prima di andare a dormire.

Nonostante i mesi di silenzi e di improvvisazioni, molti cittadini si sarebbero aspettati, al temine del periodo di crisi più buio e duro, un segnale politico forte da parte del ministro dell’Istruzione e del premier Conte, invece ancora una volta la montagna ha partorito il topolino: le prime linee guide emanate, dopo alcune imbarazzanti idiozie come il plexiglass per separare gli studenti, di fatto demandavano ai dirigenti scolastici la risoluzione dei problemi organizzativi per la riapertura della scuola il 14 settembre 2020. Per fortune le proteste di piazza, dei sindacati e degli enti locali hanno portato, in questi giorni, il governo a stanziare un ulteriore miliardo per affrontare l’emergenza. Segnale importante, ma del tutto insufficiente, perché di fronte a una situazione così complessa non basta annunciare un po’ di assunzioni o il distanziamento di un metro da bocca a bocca, bensì serve un vero e proprio new deal scolastico di medio periodo, finanziato dalla riduzione delle spese militari e dalla lotta all’evasione fiscale e fondato su alcuni punti programmatici irrinunciabili.

In primo luogo, dalla scuola primaria alla scuola secondaria di secondo grado, le classi devono essere composto da non più di 20 alunni, 15 nel caso vi siano degli studenti con disabilità fisiche e psichiche. Una didattica di qualità, autenticamente inclusiva e laboratoriale, non si può realizzare con 27, 30 o 33 studenti. Senza questa riforma tutte le analisi pedagogiche valgono meno delle chiacchiere da bar sul calciomercato. L’apprendimento passa per il rapporto diretto che gli insegnanti riescono nel tempo ad instaurare con i propri studenti.

In secondo luogo, è necessario un piano straordinario di assunzioni di almeno 150.000 insegnanti (a partire dai precari con tre anni di servizio) e di 50.000 lavoratori amministrativi, tecnici e ausiliari al fine di garantire la didattica in presenza per tutti gli studenti e una riapertura delle scuole in piena sicurezza.

Infine, urge mettere mano, in modo profondo, all’edilizia scolastica, attraverso ingenti investimenti che permettano lavori di manutenzione e ammodernamento delle strutture esistenti, di ristrutturazione di edifici pubblici dismessi e inutilizzati e di costruzione di nuove infrastrutture realizzate secondo innovativi criteri ecologici. Un ambiente sano è oggi più che mai fondamentale per favorire l’apprendimento, il benessere e la crescita degli alunni.

Queste richieste, però, non devono sorgere solo da una sparuta parte di docenti e studenti. La necessità di dare vita a un new deal scolastico deve diventare egemone nella società, poiché la scuola in una democrazia o è di tutti o non è di nessuno. La scuola che nella sostanza lascia indietro i più fragili è una scuola democratica solo a parole. La scuola o è un luogo orizzontale per crescere insieme verticalmente o è un ingiusto arcipelago di poche isole beate in un mare di sofferenza e impoverimento. La cultura individualista del pensare solo a se stessi è il cuore malato di un liberalismo che ha rinnegato ogni istanza progressista, diventando un avido mostriciattolo che quotidianamente divora quei principi di solidarietà e di uguaglianza, indispensabili per fondare una società aspiri ad edificare una democrazia reale, fatta di inclusione ed emancipazione, in cui ogni individuo sia messo nelle condizioni di provare a realizzare le proprie potenzialità e i propri sogni.

Senza ingenti investimenti nel sistema scolastico nazionale, non ci resterà che assistere al progressivo trionfo della libertà dei pochi (ricchi, fortunati, benestanti o geniali che siano) e alla marginalizzazione dei molti, per i quali la scuola diventerà un parcheggio o un luogo in cui ribadire e reiterare le ingiustizie sociali.

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I limiti della didattica a distanza (DAD) e le inadempienze del MIUR – Marco Prestininzi

La didattica a distanza attuata dalle scuole per mezzo delle risorse online, in seguito all’interruzione delle attività in presenza, ha fatto riemergere, acutizzandoli, i problemi derivanti dalla trasformazione della scuola pubblica italiana in terreno di conquista da parte di società private nazionali o multinazionali che si occupano della realizzazione e della gestione da remoto di software per la dematerializzazione della didattica, delle procedure amministrative in materia di istruzione, dei rapporti con le comunità’ dei docenti, del personale, degli studenti e delle famiglie degli alunni.

I succitati problemi, già evidenti durante la didattica in presenza, rimangono irrisolti a causa della totale inadempienza del MIUR che, al massimo, si limita a fornire delle indicazioni sulle piattaforme da usare, piuttosto che occuparsi direttamente della realizzazione, l’attivazione e il management di software per la scuola pubblica.

Con l’introduzione dei registri elettronici, a partire dall’anno scolastico 2012/2013, ogni scuola italiana versa annualmente, a società private, fino a 5000 euro l’anno, per la gestione da “remoto” di software dedicati al management di attività legate alla didattica, al personale, al bilancio, alle comunicazioni per via telematica con gli alunni e con le famiglie. Per il reperimento delle risorse economiche le scuole attingono dal fondo d’Istituto e dai contributi volontari delle famiglie, con la “complice indifferenza” del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

Il giro d’affari che c’è dietro la succitata operazione può garantire alle 7 maggiori società di programmazione che operano sul territorio nazionale, introiti complessivi fino a quaranta milioni di euro l’anno.

L’implementazione del registro online è avvenuta oltretutto senza il perfezionamento da parte del MIUR del necessario piano per la dematerializzazione e senza l’approvazione del Garante per la Privacy. A tutt’oggi quindi non sussiste nessun obbligo per le scuole di dotarsi di registri elettronici.

Il MIUR dovrebbe assumersi la responsabilità di realizzare in proprio o commissionare con gara d’appalto un unico programma per la gestione da remoto delle attività didattiche e amministrative delle istituzioni scolastiche piuttosto che consentire a soggetti privati di vendere annualmente, con contratti separati scuola per scuola, la gestione esterna online di programmi di loro proprietà, contravvenendo alle più elementari regole che dovrebbe rispettare chiunque governi un paese civile, quando implementa dotazioni tecnologiche in una struttura pubblica.

Durante il mese di marzo 2020, è avvenuta in Italia e in molti altri stati europei la sostituzione della didattica in presenza con quella a distanza (DAD) a causa dell’emergenza CoViD 19.

Tale nuova modalità di “insegnamento-apprendimento” impone alcune riflessioni intorno allo stravolgimento del ruolo della scuola pubblica, al sistema di relazioni che si instaurano nelle comunità scolastiche e al frequente ricorso ai colossi statunitensi della tecnologia informatica, come Google Suite e Office 365, per la dematerializzazione della didattica.

Le testimonianze dirette di docenti, alunni e genitori e le inchieste sulla DAD condotte in alcuni paesi europei, come quella promossa dall’università di Bordeaux su 31 mila famiglie francesi, evidenziano un significativo incremento della dispersione scolastica riguardante prevalentemente gli alunni appartenenti ai ceti sociali più deboli sotto il profilo economico e/o culturale. Le difficoltà che anche i docenti incontrano durante le lezioni in modalità telematica, legate alla qualità dell’ambiente domestico, dei dispositivi elettronici e della linea wifi, si amplificano se i bambini e i ragazzi in età scolare provengono da famiglie di classe sociale umile. È meno probabile inoltre che queste ultime, abbiano la possibilità o la capacità di supportare i propri figli nello studio e nella rielaborazione degli argomenti spiegati o assegnati nella DAD, rispetto alle famiglie colte e agiate. Le lezioni “dematerializzate” accrescono quelle disparità che la scuola pubblica avrebbe il compito costituzionale di attenuare. Da non sottovalutare inoltre il clima surreale che spesso si crea durante la “lezione virtuale” per via telematica, tra docente e alunni, in particolare quando si ripropongono (sbagliando) verifiche orali con le stesse modalità della didattica in presenza (disconnessioni, webcam improvvisamente non funzionanti o orientate solo sui capelli dello studente, risposte che giungono a video oscurato con notevole ritardo, restituzione di compiti interamente copiati da Wikipedia o da altre fonti web); situazioni grottesche che ledono la dignità del docente e degli studenti stessi, quasi mai sperimentate nella didattica in presenza. In tale contesto il MIUR, si è limitato a indicare piattaforme private online, multinazionali o nazionali, utilizzabili per il management della DAD. Colossi come Google sono entrati così nelle istituzioni scolastiche pubbliche, anche in base alle succitate indicazioni ministeriali, oltretutto senza gare d’appalto. Chi ci assicura che la privacy sarà rispettata da una multinazionale il cui enorme fatturato si basa principalmente sull’acquisizione dei dati degli utenti per usi commerciali e di orientamento? Nella malaugurata ipotesi che a settembre 2020 non si ritorni ad una piena didattica in presenza, è inderogabile che il MIUR si occupi direttamente della DAD, sanando l’inadempienza e l’atteggiamento pilatesco che, in questo settore, lo ha contraddistinto sin da quando, nel 2012, ha previsto il registro elettronico.

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La condizione postmoderna della scuola e il desiderio di “normalità” – Franco Di Giorgi

Beato l’uomo che sopporta la tentazione [prova] (peirasmós), perché una volta superata la prova [egli, il dókimos, il provato, il saggiato, il messo alla prova] riceverà la corona della vita (stéphanon tes zoes) che il Signore ha promesso a quelli che lo amano (Gc 1, 12).

1.

Nel 1979, ormai più di quarant’anni fa, nel suo famoso Rapporto sul sapere (meglio noto con il titolo La condition postmoderne) basato su studi di cibernetica e di telematica effettuati negli Stati Uniti e risalenti fino agli anni Trenta, Jean-François Lyotard, uno dei filosofi del pensiero postmoderno, aveva previsto e detto a chiare lettere che con l’introduzione del calcolatore elettronico, con il computer, il destino delle grands narrations sarebbe stato segnato. Così come sarebbe stato compromesso parallelamente anche il destino dell’istruzione, dell’insegnamento e della trasmissione di queste metanarrazioni o del sapere in generale, con tutti i loro approcci e le loro metodologie. Si veda in particolare il capitolo 12 del saggio Insegnamento, legittimazione, performatività (Feltrinelli, 1981).

Dopo la delegittimazione posta in essere dalla «incredulità nei confronti delle metanarrazioni» (p. 6), cioè delle grandi ideologie politiche e filosofiche che legittimavano la modernità, il criterio ormai prevalente della performatività, ossia dell’ottimizzazione delle prestazioni resa possibile dall’informatizzazione delle società e del sapere, più che stimolare ideali di emancipazione mira a formare competenze funzionali al potere e quindi al sistema sociale che le sollecita per le sue riconfigurazioni. Giacché, scrive Lyotard, «la questione nell’era dell’informatica è più che mai la questione del governo» (p. 20) o del potere, appunto. Uno degli esiti evidenti di una tale delegittimazione è ad esempio la riduzione della lotta di classe a «utopia», a «speranza», e l’impegno per l’insegnamento tradizionale a una specie di «protesta di principio» (p. 29). Con l’annuncio della seppur «parziale sostituzione dei docenti con delle macchine», la postmodernità in ogni caso anticipa e progetta la morte stessa dell’“era del professore” (p. 98). Quasi a conferma di quanto aveva dedotto nelle pagine della Condizione postmoderna, lo stesso Lyotard nel 1984 pubblicherà un piccolo testo dal titolo significativamente provocatorio: Tombeau de l’intellectuel et autres papieres (Galilée, Paris).

Ora, dal punto di vista postmoderno, ben lungi dal creare un danno o una perdita, una tale sostituzione tecnologica comporterebbe piuttosto enormi vantaggi sia sul piano performativo o delle prestazioni sia sul piano economico, soprattutto per quegli Stati con un alto debito pubblico. L’insegnamento basato sulla didattica relazionale poteva avere una sua specifica funzione didattico-pedagogica all’interno di quell’orizzonte umanistico che si può far risalire alla Grecia classica e ai Dialoghi di Platone, e che, con il suo progetto educativo e formativo, è riuscito a resistere alle intemperie del tempo e della storia, affermandosi lungo tutta la modernità.

Già però con la rivoluzione tipografica realizzata da Gutenberg nel 1445, cioè con l’invenzione della tipografia a caratteri mobili, all’interno dell’istituzione religiosa cattolica si era creato un profondo trauma, simile per certi aspetti a quello rilevato dal Fedro platonico a proposito dell’invenzione della scrittura, una profonda e dolorosa cesura, giacché in quella istituzione gli intellettuali erano riusciti a conquistarsi nei secoli una certa prerogativa nella trasmissione di un sapere religioso che, almeno fino al Seicento (ben oltre quindi la prima Rivoluzione scientifica), faceva tutt’uno con il sapere tout court (Machiavelli e Galileo docent). Grazie poi a Lutero, che si avvantaggerà di quell’invenzione, e alla sua traduzione del testo sacro nella lingua tedesca, ogni singolo individuo poté leggere la Bibbia direttamente alla propria famiglia all’interno delle mura domestiche, senza dover andare necessariamente in chiesa, escludendo in tal modo l’intervento di quegli intellettuali ed evitando con ciò stesso anche le loro sottili e capziose interpretazioni.

Dopo circa mezzo secolo, un trauma simile è quello che la rivoluzione delle nuove tecnologie sta producendo all’interno di quell’ampio orizzonte umanistico. Anche qui, ora, man mano che passa il tempo e con il continuo perfezionamento dei dispositivi tecnologici, i docenti si vedono scalzati nel loro antico appannaggio di comunicatori del sapere in una relazione diretta con i loro discenti (si veda a tal proposito il recente appello firmato da sedici intellettuali italiani contro la prospettiva di un “modello in remoto” e rivolto alla neo-ministra dell’istruzione Lucia Azzolina).

Secondo precise fasce orarie e a seconda dei più diversi interessi (da non chiamarsi più “discipline”), il collegamento programmato a una banca dati forniti dagli esperti delle varie materie o la connessione a un solo computer adeguatamente predisposto sarebbe in grado, volendo, di fornire in simultanea e in remoto un sapere manualistico o digitale a migliaia se non a milioni di utenti scuola. La DaD, la Didattica a Distanza, resasi necessaria quest’anno a causa della pandemia di Covid 2019, è solo il passo intermedio dalla lectio ex cathedra alla lectio sine cathedra, ossia al libero approvvigionamento di un sapere non più obbligatorio secondo programmazioni preconfezionate, di un sapere «alla carta» (p. 91), dice Lyotard, e non più «costituito da uno stock organizzato di conoscenze» (p. 93).

Sebbene attraverso lo schermo di un computer e con l’ausilio di piattaforme comunicative, mediante una didattica domiciliare (da casa a casa, intramoenia si potrebbe dire mutuando un termine dal comparto “Sanità”) oggi gli insegnanti possono continuare a mantenere la loro cattedra, il loro posto di lavoro. E sarebbe proprio il caso di ricordare a tal proposito che quello che oggi, con il solito anglicismo, viene chiamato smart working non sarebbe poi una gran novità, giacché era già una realtà ben consolidata in Inghilterra fin dal tempo della prima Rivoluzione industriale (cfr. Giovanna Lo Presti, Non lasciamo ai tecnocrati e politici ignoranti il governo della scuola, “Il Ponte”, 20 aprile 2020). Sicché, almeno dal punto di vista storico, più che di un’emancipazione, specie se guardiamo al ruolo sociale delle donne, si tratterebbe anzi di una regressione. Ma, come si accennava, il récit emancipatorio presuppone una pragmatica o un gioco linguistico eterogeneo rispetto al récit performativo: il primo, ricordava Lyotard, si fonda su criteri etico-teoretici come vero/falso, giusto/ingiusto, il secondo su criteri di mercato come utile/inutile, efficace/inefficace, vendibile/invendibile (p. 94).

Comunque sia, pur a fronte di una tale prospettiva certo non rosea per il destino dell’istruzione (sia pubblica che privata), la ministra ha persino annunciato l’assunzione di altri 32 mila insegnanti attraverso i concorsi, la sistemazione di 4.500 precari e di 4 mila nuovi ricercatori universitari. Ma fino a che punto tutti costoro potranno continuare a mantenere pienamente le loro cattedre? E in generale, fino a che punto potrà continuare questo servizio essenziale garantito dallo Stato e previsto (ancora) dall’articolo 33 della Costituzione, se il destino della scuola sembra essersi ormai avviato verso la sola didattica a distanza, se non addirittura verso la connessione ad un unico dispositivo base in remoto, verso un solo computer-madre senza la presenza dell’insegnante, a delle «banche di dati […] collegate a terminali intelligenti messi a disposizione degli studenti», diceva Lyotard (p. 93)? D’altro canto, una volta superato il difficile confronto con i paesi membri dell’Unione europea sulla scelta della formula con cui ottenere i fondi europei, i debiti che i governi hanno dovuto contrarre per fronteggiare l’emergenza lavoro a causa del Coronavirus dovranno comunque essere pagati. A tal riguardo, poi, il problema più urgente non è tanto l’ammontare dei 55 miliardi di euro che il governo riuscirà a stanziare per l’emergenza Covid 19, ma come i cittadini possono ottenere questi stanziamenti, poiché tra le leggi predisposte e l’effettivo godimento dei finanziamenti si interpone la solita burocrazia italiana che con le sua nota farraginosità rischia di bloccare la ripresa di un intero Paese. Per questo molti politici italiani, a partire dallo stesso premier Conte, oltre che di responsabilità e di certezze, parlano di semplificazione delle procedure, di modernizzazione della macchina burocratica, di velocizzazione della pubblica amministrazione, specialmente adesso che, diceva proprio il primo ministro durante la sua recente relazione in Senato, la salute non può più continuare ad essere un corollario, bensì la «pre­condizione dello sviluppo del Paese».

E se questa volta a farne le spese, come è purtroppo accaduto in passa­to, non sarà più il comparto “Sanità”, logica vuole che, proprio in virtù dell’utilizzo di quelle tecnologie, siano altri comparti a pagarle: ad esempio quello dell’“Istruzione”, specie, come si è detto, in Stati come l’Italia che presentano un debito più elevato a causa di un precedente indebitamento. Pertanto, sebbene l’annuncio di quelle nuove assunzioni non lo lascino ancora intravedere, la graduale dismissione degli insegnanti è quindi nelle cose: in un prossimo futuro, prima della scomparsa delle sedi fisiche della scuola (così sono scomparse anche le grandi fabbriche), prima della chiusura degli istituti scolastici (con tutti i vantaggi economici che ciò comporterà per le casse dello Stato), si cominceranno dapprima pian piano dolorosamente a tagliare gli stipendi agli insegnanti e subito dopo si procederà anche ai tagli alle cattedre. Si preannuncia per­tanto un esercito di ex-cathedratici, di migliaia di disoccupati nel personale della scuola, la perdita di altrettanti posti di lavoro e quindi l’estensione della povertà.

Questa, dunque, la «minaccia tecnocratica» che incomberebbe sulle nostre scuole, la quale, come s’è visto, porterebbe con sé anche un’ulteriore ondata di precariz­zazione del lavoro in generale. Ma se queste sono le temibili previsioni, allora quel «nuovo modo di concepi­re la scuola, ben diverso da quello tradizionale», quel «complessivo e articolato processo di riforma» cui fa cenno il testo di quell’appello, come pure l’aspira­zione a un «nuovo umanesimo», non potranno che rivelarsi ancora una volta come il sogno di una bella cosa, come un’utopia, una speranza, un’idea.

Inoltre, secondo la prospettiva qui delineata, che inclina inesorabilmente all’estinzione della scuola, anche la dignitosa idea dell’insegnare meno, insegnare tutti risulta quanto meno anacronistica, in ritardo in ogni caso coi tempi, se non addirittura fuori tempo massimo: poteva valere ancora prima della crisi del 2008, ma da allora in poi, con l’emergenza della crisi economica, con il rischio default e con il fantasma Grexit che soffiava sul collo degli Italiani, non fu più possibile nemmeno parlarne, al punto che colui che tentava di farlo veniva visto come un ingenuo, un’anima bella, un irresponsabile, un disfattista. Sulla scorta o con il pre­testo di quella emergenza, l’ex premier Mario Monti, con la flemma e l’aplomb che lo contraddistinguevano, proprio per mettere una pietra tombale su quel principio egualitario avanzò addirittura la proposta di aumentare l’orario di la­voro settimanale degli insegnanti da 18 a 20 ore. Il che sarebbe stata ancora una fortuna se pensiamo che l’allora ministro dell’Istruzione e dell’Università Francesco Profumo voleva aumentarle di 6 ore, cioè fino a 24.

2.

Sulla scorta di quanto precede, non dovremmo affatto, quindi, augurarci di tornare alla “normalità”, e non solo per quanto riguarda la scuola, perché quella “normalità”, proprio in quanto “normalità”, conteneva in sé qualcosa di vischioso e di scivoloso a cui da troppo tempo siamo stati costretti ad abituarci: conte­neva visibilmente quella tendenza avversa e innaturale che ha origini lontane ma che nel giro di pochi giorni (anche in questo modo e con questa rapidità si manifesta l’irreversibilità dei processi naturali di cui da molto tempo ci parlano gli scienziati) ha fatto riprecipitare l’intero pianeta sul bordo del baratro, preda questa volta del Coronavirus. Ma chissà quale altro baratro ci riserva il futuro. Tornare allo “stesso”, insomma, sarebbe una vera sconfitta per il genere umano in questa lotta impari contro un siffatto virus coronato, il quale è stato capace con una sola mossa di mettere in scacco l’intera umanità.

Eppure, in virtù di una sempre imprevedibile eterogeneità dei fini, intesa come corolla­rio del principio della necessaria priorità del negativo, in virtù di una sorta di positivo contrappas­so cosmico, proprio questo virus inghirlandato, con tutte le migliaia di morti che continua a mietere in tutto il mondo – morti a cui ben presto ci abituiamo e che altrettanto rapidamente dimenti­chiamo –, esso, nonostante la sua subdola letalità, è riuscito ad aprire nel nostro duro carapace una breccia. Proprio attraverso questa incrinatura, durante il periodo di isolamento abbiamo avuto modo di vedere sotto una nuova luce non solo il mondo esteriore, ma anche il mondo interiore: li abbiamo visti entrambi diversi, più pacificati, più abitabili, più accoglienti; simili al cielo limpido e immensurabile di Austerliz che in Guerra e pace il principe Andrej Bolkonskij vede su di sé in attesa di una possibile morte, o ai sublimi Firmaments e ai Planets di James Brown. Li abbiamo visti come in un sogno da cui, proprio ora che si è entrati nella fase 2, avremo voluto quasi non essere più risvegliati; li abbiamo visti cioè così come ce li immaginiamo segretamente dentro di noi e come, volgarizzandoli, nel mondo “normalizzato” ce li presentano i dépliant turistici o i testi catechistici. In entrambi i mondi abbiamo colto nuove sfumature, nuove sfaccettature, nuove possibilità che per varie ragio­ni siamo stati costretti ad accantonare per realizzarne delle altre; possibilità che, essendo rimaste allo stato latente, risultavano persino ignote a noi stessi quando meravigliati le abbiamo ritrovavate in quel vuoto, in quel silenzio e in quella solitudine, sia esteriori che interiori. Uno dei momenti più intensi e pieni di sconcerto che un po’ tutti, cercando di sfuggire alla morte, abbiamo avuto modo di vivere durante la lunga segregazione forzata, è stato certamente assistere al volo degli uccelli sulla campagna o sulla città, perché con il loro verso ecoico marcavano la tanto incredibile quanto benefica assenza degli esseri umani in esse. Era insomma come se dentro di noi quel virus avesse destato quelle possibilità dal lungo sonno imposto ad esse dalla modernità e poi anche dalla postmodernità, dalle società evolute e dalle loro leggi, dalle loro ragioni, dalle loro scelte, dalle loro tendenze. Tendenze che hanno reso quelle possibilità, oggettive e soggettive, sociali e indivi­duali, delle utopie, le quali, seppure come mere illusioni, come visioni intorpidite, riuscivano tuttavia a guidare il nostro incerto cammino dentro i sen­tieri sempre più asfittici delle società opulente e distopiche. Prigioniere della loro agitata veglia, ostaggi della loro devastante insonnia, queste società, insomma, riuscivano finanche a utilizzare e a sfruttare utopisticamente quelle idee per realizzare la loro distopia. Sicché, pur volendo in teoria realizzare in terra il più perfetto dei mondi possibili, una sorta di paradiso terrestre, esse in realtà mettevano mano al perfezionamento continuo dell’inferno, di quella specie di gheenna, di gorgo infuocato, potenzialmente in grado di risucchiare l’intera umanità in una sola volta.

Voler tornare alla “normalità” significherebbe allora riportare quelle possibilità umane, sia quelle sociali che quelle individuali, allo stato di latenza, equivarrebbe a richiudere quello squarcio, a spegnere quel baluginio, quella luce nuova che da esso riusciva a filtrare e che ci ha consentito di scoprire il volto sommerso, represso e dolorante del mondo esterno e di quello interno; tornare allo “stesso” vorrebbe dire insom­ma estinguere il sogno e con esso anche l’utopia di un mondo diverso, di un’umanità nuo­va. Sicché, anche in questo momento di scelte radicali, a fronte di un generalizzato e incontenibile desiderio di tornare alla vita “normale”, ora che proprio quel “benedetto” virus stephanódes, cioè a forma di corona, era riuscito ad aprire quella breccia di luce salvifica dentro la ferita purulenta dell’umanità, proprio adesso valgono ancora e sempre nella storia umana le parole dell’apostolo: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3, 19).

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Il piano integrato Colao-Bianchi e la riduzione della scuola a forza produttiva – Elena Fabrizio

L’enfasi che il dibattito sulla didattica a distanza ha suscitato a livello ministeriale e tra gli organi e gli enti, senza trascurare la longa manus degli altoparlanti mediatici, che da anni premono per una trasformazione della scuola in tassello della più ampia filiera produttiva, doveva suonare subito sospetta, non fosse altro perché palesemente orientata a spostare i problemi della formazione culturale degli studenti sul bisogno di colmare il ritardo e il gap di competenze digitali, intese come esclusivo elemento di giudizio della qualità della didattica scolastica.

Un’enfasi condita dal discorso emotivamente pregnante e propagandistico che fa delle diseguaglianze economiche e sociali, pervenute alla coscienza dei nostri governanti paradossalmente proprio nella fase dell’emergenza sanitaria nei soli termini del digital divide, l’espediente sul quale fare leva per «sfruttare la crisi» dirottando la scuola in maniera ancora più incisiva sul modello impresa e assumendola quale parte attiva della ripresa economica del paese. Nessun bilancio politico di vent’anni di autonomia scolastica e delle politiche antisociali delle quali essa è espressione, nessuna iniziativa per riparare all’emergenza culturale ed educativa che si vuole strumentalmente appiattire sul possesso delle competenze digitali lette nell’ottica esclusiva di un mercato del lavoro in cerca di manodopera salariata.

La duplice direzione amministrativa che il Governo vorrebbe imprimere all’istruzione, per assecondarla ai desiderata delle classi dominanti, emerge chiaramente dalla combinazione delle iniziative proposte dal Comitato di esperti in materia economica e sociale per il rilancio “Italia 2020-2022” e dal Comitato di esperti del Ministero dell’Istruzione, rispettivamente coordinati da Vittorio Colao e da Patrizio Bianchi.

Da una parte, prestare il fianco a una nuova sussunzione della Scuola al Capitale, il quale cerca di riposizionarsi, come sempre accade in situazioni di crisi, attraverso nuove forme di integrazione finalizzate a inglobare in termini di investimenti economici e di interventi gestionali la formazione di base e la conoscenza; dall’altra, sfruttare al meglio il quadro normativo dell’Autonomia scolastica per delegare le funzioni del Welfare istruzione ai territori e al terzo settore, attraverso una commistione di pubblico e privato, fatto passare quest’ultimo per sostegno solidale e filantropico.

Naturalmente non si tratta di un effetto sorpresa, ma di una continuità persistente e coerente con il pacchetto di riforme che dalla legge sull’autonomia fino alla Legge 107/2015 (Buona Scuola), passando per le note politiche dei tagli, ha già fortemente compromesso la formazione culturale dei nostri studenti attraverso la riduzione congiunta di tre fattori: tempo, classe, studio. Il modello produttivistico dell’offerta formativa con la sua logica di marketing perfettamente interiorizzata, la iperstimolazione e progettualità continua anche attraverso l’ingresso di banche, imprese, enti privati, l’asfissiante burocratizzazione e giuridificazione di ogni aspetto della vita scolastica, la rimodulazione curriculare con l’introduzione delle pratiche lavorative e del Liceo quadriennale, avevano già di fatto compromesso la qualità della didattica e sottratto gli alunni alle classi, diminuendo il tempo dello studio e della formazione culturale, svalutando il ruolo centrale della didattica disciplinare assimilata a strumento di formazione tra gli altri. Nel frattempo la riforma degli Esami di Stato, con l’introduzione del colloquio strutturato in macroaree (nel contempo un attacco alle discipline e un elogio della superficialità) e la rendicontazione dell’esperienza lavorativa, l’eliminazione della traccia di storia, ulteriore sintomatico avvertimento della superfluità dell’impianto disciplinare dei saperi e della coscienza critica ed emancipativa che essi inevitabilmente stimolano, veniva incontro all’esigenza di superare la cultura delle discipline per introdurre la didattica delle competenze. Sulla quale non si è raccolto alcun consenso di fondo o evidenza scientifica tali da supportare l’eventuale beneficio che ne trarrebbe la formazione globale degli studenti, se è a questa che la scuola deve ancora puntare. Un modello di scuola che mentre si propaganda per inclusivo, continua a evidenziare un classismo strisciante nel protagonismo delle famiglie agiate autorizzate a condizionare le dinamiche scolastiche e a stravolgere la funzione pubblica dell’istruzione in servizio privato, ma sempre in grado di sopperire con i propri mezzi economici (lezioni private, certificazioni, viaggi all’estero, corsi di lingua e di preparazione ai test di ingresso ecc.) alle falle di un sistema chiamato a soddisfare troppe esigenze con risorse scarse. Si può intuire come in questa situazione esso possa finire per smarrire la sua funzione culturale primaria e per assecondare un successo formativo fasullo.

Sempre più in là nella privatizzazione della formazione

Per chiarire di cosa stiamo parlando, proviamo a proporre un quadro integrato, necessariamente sintetico e provvisorio, delle iniziative proposte dai due comitati, con la necessaria precisazione che il Comitato coordinato da Bianchi lavora a un piano di “miglioramento del sistema di istruzione nazionale”, che punta alla realizzazione di obiettivi evidentemente più ampi dei limiti imposti dall’emergenza sanitaria. Una tragedia che se sfruttata al meglio potrà essere ricordata come congiuntura favorevole al progetto che da lungo tempo i settori dell’economia chiedono ad ogni Ministero di concretizzare.

Il piano Colao e il programma Bianchi chiariscono quanto già emergeva dal Decreto Rilancio (DL 34/2020), dove tra le varie voci alle quali sarebbe destinato l’irrisorio incremento di 331 milioni di euro (dispositivi di protezione e sicurezza, contrasto alla dispersione scolastica, interventi di piccola manutenzione, messa a disposizione di strumenti digitali per gli studenti meno abbienti), troviamo un non meglio precisato «sostenimento di modalità didattiche innovative», del resto più volte ribadito dalla Ministra Azzolina nelle sue conferenze stampa con il vago «nuova scuola».

Le novità, come dicevamo, suonano in verità come un disco rotto, almeno per chi conosce il “Piano nazionale della Scuola Digitale”, «pilastro» della Legge 107, la quale ha sferzato una significativa accelerata, almeno sul piano programmatico, al didatticismo dogmatico del digitale. Questa volta però le novità annunciate scoperchiano con una chiarezza quasi cristallina l’indeterminatezza cognitiva e semantica in cui fino all’altro ieri oscillava il dibattito sulle competenze e gli strumenti con i quali raggiungerle. Ci pensa innanzi tutto il piano Colao[1] a dare una prima torsione al diritto all’istruzione nei termini assai eloquenti di «diritto alle competenze», il quale dovrà essere sostenuto da fondi speciali per «potenziare la capacità di inclusione del sistema di istruzione superiore al fine di migliorare l’equità e di contrastare le diseguaglianze di classe, di genere, etniche e territoriali» (Scheda 80). Siamo di fronte ad una lettura delle diseguaglianze negli esclusivi termini di «gap di competenze e skill critiche» da tradurre, si badi bene, in «capacità digitali, STEM, problem-solving, finanziarie di base» (Scheda 78), secondo una sequenza che letta nel suo coerente susseguirsi non ad altro rimanda se non alle competenze aziendali o adeguate al mercato del lavoro. Tali competenze devono essere acquisite da docenti e alunni attraverso programmi didattici sperimentali «pensati per un utilizzo combinato di lezioni in aula e su piattaforma digitale», misurati attraverso «monitoraggio e miglioramento continuo dell’offerta didattica, sulla base di feedback e risultati nei test standardizzati internazionali (ad esempio PISA)» (Ibidem). È uno stilema tecnicistico, ripetutamente abusato, nel quale tutta la letteratura critica che riporta deficit e fallimenti dell’istruzione piegata sul digitale, sulla valutazione standardizzata e sull’idea di mercato, non assume nessun ruolo euristico, ma sarebbe chiedere troppo. Ciò che invece va rimarcato in questo passaggio che sussume la scuola al Capitale è la modalità con la quale lo Stato è chiamato ad assecondare un imperativo economico (digitale e piattaforme private, impresa, competenze ecc.) integrandolo nella forma costituzionale diritto. Non ci meravigliamo dunque che i nostri esperti aziendali citino a sostegno di questo piano l’art. 3 della Costituzione, ma pur sempre con i noti subdoli raggiri. Perché infatti, il passo successivo per colmare la scarsità di investimenti in istruzione e diritto allo studio, e dunque la percentuale di Pil investito per il quale l’Italia si assesta nelle ultime posizioni in Europa, si propone la predisposizione di un progetto di «Partnership per upskilling» (Scheda 79). Iniziative cofinanziate da pubblico e privato, ma con «Logiche e fonti di funding» che pescano principalmente nel privato e le cui «Azioni specifiche» sono principalmente due. Il lancio di «una campagna di volontariato» a supporto della formazione pubblica con contribuzione in cash o in kind, che per inciso formula in termini concreti il bisogno di reperire fondi, che lo Stato non sarebbe nelle condizioni di investire, attraverso la solidarietà filantropica del Capitale italiano sollecitata ultimamente da più parti (cfr. De Bortoli e Montezemolo sul Corriere della Sera). Con un linguaggio tra il paternalistico e il moralistico, questa prima azione specifica che destatalizza e privatizza la scuola, si traduce in un triplice programma. Una «campagna di crowdfunding e donazioni per il potenziamento delle strutture “educational”, con la quale infrastrutturare digitalmente e tecnologicamente classi di diverso ordine e gradoin modo da contribuire a creare un sistema “equal opportunity” nell’istruzione (ad es. dotare di streaming, PC e supporti informatici le classi per didattica a distanza)». Tale iniziativa, per la quale è stata scelta la caritatevole denominazione «Adotta una classe», andrà potenziata con un programma coordinato a livello nazionale (“Impara dai migliori”), «per il quale 20 sabati all’anno grandi aziende high tech, enti di ricerca e università fanno corsi di aggiornamento su temi innovativi agli insegnanti di liceo e medie»; e andrà sostenuta con premialità emulative tipo “Gara dei talenti” promossa da aziende e donatori con «concorsi tipo Hackathon per giovani studiosi (scuole superiori)» da mettere eventualmente in contatto con «investitori». Si può immaginare quale definitivo colpo questo piano imprimerebbe alla mai risolta questione meridionale.

La seconda azione specifica, che investe direttamente le ricadute destrutturanti che le competenze intese in questo modo selettivo hanno sulla formazione culturale dei nostri studenti, dovrà impegnarsi nella «Pianificazione di un accordo con Rai Scuola/Rai Educational per il potenziamento di forme di didattica innovative».

Un passaggio sull’egemonia delle didattiche innovative

Giungiamo così al nesso tra competenze e didattica, che in termini propri si definisce digitalizzazione degli apprendimenti, propagandata in molte forme da Confindustria, Fondazione Agnelli, Associazione Nazionale Presidi, Invalsi, per non parlare dei mass media (Sole 24 Ore, Repubblica, Corriere della Sera, Stampa, Presa diretta) responsabili di dare ampia visibilità in modo acritico, fazioso e disinformato a consulenti pedagogici che fanno grandi affari sull’educazione diventata evidentemente ulteriore forza produttiva del Capitale.

Vale la pena di precisare, a solo motivo di non dare adito alle reprimende volgarizzazioni con le quali questo universo mediatico cerca di marginalizzare la critica a questa nuova forma di egemonia, l’ampia condivisione sull’urgenza di formarsi all’uso consapevole del digitale. La tecnica-macchina, è perfino superfluo sottolinearlo, in quanto oggettivazione dell’antropos e della sua intelligenza, funge da funzione retroattiva di apprendimento continuo, e può quindi offrire enormi potenzialità all’avanzamento progressivo della formazione culturale, se è però questo fine che si vuole conservare. Ancor più necessario affinché il controllo critico dei processi tecnologici nei quali siamo immersi sia reso possibile da soggetti culturalmente attrezzati, con elevate capacità di autonomia e autogestione. Quello che di conseguenza si discute è l’applicazione sistematica e sostitutiva di un preciso modello cognitivo ripiegato su logiche computazionali e metodologie analitico-pragmatiche che retroagiscono anche sui contenuti culturali, distorcendoli e impoverendoli, quindi l’estensione di uno suo specifico utilizzo alla formazione generale degli studenti, per non parlare della stessa libertà dell’insegnamento minacciata dall’imposizione di metodologie a senso unico, e che sorvola sull’aggiornamento culturale e disciplinare del quale tale libertà ha bisogno.

Volendoci concentrare sulle pratiche maggiormente sponsorizzate e diffuse, Cooperative learning,  Flipped Classroom (Classe rovesciata), Eas (Episodi di apprendimento situato),  Jigsaw (Classe puzzle), possiamo notare che a unirle è il comun denominatore del microlearning. Tale tecnica è strutturata sul trasferimento della complessità dalla conoscenza alla produzione di soluzioni, sulla riduzione delle conoscenze a «prestazioni semplici», sulla memorizzazione di nozioni o micronozioni (microcontents) da gestire in porzioni di tempo contratte (microtimes), che possono a loro volta essere segmentate e distribuite ai singoli gruppi per essere apprese. La produzione di soluzioni, puntando al protagonismo dello studente nella costruzione del proprio sapere e al suo coinvolgimento emotivo – secondo una tendenza psicologistica per la quale il sapere per essere attraente deve essere appreso senza incontrare ostacoli e trovare riscontro in un campo precostituito di desideri individuali -, può tradursi nell’artefatto digitale (mappatura, power point, podcast, fumetti, ebook, prove di realtà ecc.), nella gara del Debate e in altre possibilità.

Già la terminologia, per la sua semantica performativa, esplicita un evidente sbilanciamento del tempo da dedicare alle conoscenze, e alla loro approfondita e critica elaborazione, su quello necessario per l’organizzazione della didattica e della produzione. Pertanto, i rischi insiti nell’assunzione di queste metodologie afferiscono alla decostruzione del pensiero discorsivo, alla marginalizzazione dello studio, alla frammentazione e banalizzazione del sapere, riproducendo, in forma forse più attraente, il nozionismo che queste pratiche vorrebbero combattere. La logica che soggiace al sapere ridotto ad una «cassetta degli attrezzi» è funzionale al conseguimento di abilità tese al «saper fare, applicare, utilizzare», per l’acquisizione delle quali si assemblano dati e frammenti slegati, o collegati da nessi fittizi, comunque decontestualizzati dai processi culturali e storici che li hanno generati. È una didattica che chiede al docente un ulteriore passo indietro, una nuova riduzione del proprio ruolo a organizzatore, «coach», «instructor», «facilitatore», assemblatore di contenuti esterni standardizzati e non sempre filtrati criticamente. È la figura del «docente liquido», non più il medium di una relazione che mette in comunicazione il sapere e gli studenti, sulla base di una formazione culturale solida, critica e aperta al continuo aggiornamento disciplinare, bensì un tecnico esperto ed esecutore di procedure, supervisore del buon andamento di pratiche, mezzo tra altri mezzi, servo e non padrone del metodo. Ma la trasmissione delle conoscenze attraverso la digitalizzazione informatica a cui queste metodologie devono inevitabilmente ricorrere per essere efficaci, produce anche una preoccupante frammentazione ed esternalizzazione della stessa conoscenza. Innanzi tutto, attraverso l’espulsione del libro dai banchi di scuola, per non parlare dei classici, e di tutte le competenze che esso stimola in termini di lettura-scrittura, concentrazione-riflessione, cognizione-comprensione, organizzazione logico-argomentativa e motivazione dei propri pensieri. Produce il controllo della conoscenza da parte degli operatori privati dell’informatica e una più efficace egemonia politica nella selezione e manipolazione delle informazioni e della stessa cultura, come è sufficiente constatare passando dalla povertà dei contenuti reperibili sulle varie piattaforme didattiche private al monopolio dell’informazione storica da parte della Rai. La quale nella fase di emergenza è diventata piattaforma privilegiata da cui attingere non solo contenuti culturali e disciplinari, ma anche unità di apprendimento standardizzate, talvolta di qualità assai discutibile. Produce impoverimento culturale degli stessi docenti dai quali si pretende principalmente formazione e aggiornamento informatico, con un’intensificazione sfibrante del lavoro che non lascia margini al tempo dello studio e della ricerca. Ma la sistematica astrazione e decontestualizzazione dei saperi, speculare all’accelerazione del tempo, allo sradicamento e alla semplificazione, alla rimozione delle contraddizioni della concretezza storica che soprattutto i saperi umanistici con la loro discorsività sono in grado di rappresentare, ha una conseguenza anche nella crescita della soggettività degli studenti, nella consapevolezza, per dirla con Gramsci, del «proprio valore storico», perché induce all’astrazione anche dal proprio contesto rendendoli maggiormente proni all’esistente per adattarvisi con zelante conformismo.

Un cerchio che si vuole chiudere con l’esternalizzazione della tempo-spazio scuola

Occorreva indicare sommariamente questi presupposti per inquadrare il piano Colao negli esiti del lavoro svolto dal Comitato degli esperti, esposto da Bianchi il 9 giugno in audizione informale alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati [2].

In estrema sintesi Bianchi ci prospetta una «nuova scuola» ancora più destrutturata e frammentata, che appellandosi agli articoli 2-3, 33-34 della Costituzione, vorrebbe superare le diseguaglianze economiche e sociali con ricette tratte dalla terminologia e dalla pratica dell’impresa alle quali più volte si richiama. Oltre a rilanciare il settore scientifico, si dovrà puntare sulla formazione tecnologica capace di cogliere la «dexterity» e il «judgment» dei nuovi strumenti, formare alle «digital capabilities», «necessarie oggi per gestire le tecnologie digitali, non solo nella scuola ma anche nell’impresa», e che però nella scuola sono funzionali all’adozione delle nuove pedagogie didattiche, alle quali Bianchi accenna, intelligenti pauca, con fugaci suggestioni. E ancora, si dovrà puntare su una formazione più ampia impostata come accade nell’impresa dove «tutta l’enfasi è posta sulle soft skills» e «la vera competenza richiesta è mettere insieme persone diverse facendole operare insieme, giocare insieme, suonare insieme, lavorare insieme. Un’enfasi –è subito evidenziato – che vada al di là della specifica competenza disciplinare», soprattutto nella scuola superiore ancora troppo legata, secondo Bianchi, allo «specialismo della materia». Insomma bisogna ridisegnare una scuola che sia volano dello sviluppo, inteso in senso esclusivamente professionale ed economico, non a caso segue il passaggio sulla professionalizzazione precoce, perché «la formazione professionale non è un accessorio dell’educazione», né il suo «ultimo stadio, ma parte di un sistema educativo che deve essere integrato».

Una scuola che formi quindi alle specifiche competenze per lo sviluppo del paese, che «sono date dalla creatività, dalla capacità di mettere insieme le personeQuella che l’OCSEchiama le Collaborative problem solving skills, le competenze per risolvere i problemi insieme». Questa nuova scuola deve rispondere alla «grandissima ricchezza che è il nostro paese, una ricchezza che però si basa sull’assunzione di dare alle persone e ai territori le loro responsabilità» e deve quindi sfruttare al meglio l’Autonomia attraverso un coinvolgimento del territorio «nella gestione ordinaria della scuola», il che impone un cambiamento ancora più estremo del modello didattico sulla base del «superamento», esplicitamente dichiarato, della definizione amministrativa del concetto di classe. «La classe è una microcomunità in cui potere sviluppare le diverse capacità dei ragazzi», dunque la si può frammentare, spezzare, articolare con una progettualità che posiziona i piccoli gruppi all’interno o all’esterno, secondo una rimodulazione del tempo delle lezioni che saranno gli organi collegiali a decidere (40, 50 minuti?), purché il tempo residuo sia utilizzato sul territorio (museo, sport, musica, attività artistiche, educazione civica, gaming) con il coinvolgimento di tutti gli agenti educativi. Con questa logica, il Comitato ha ritenuto fuorviante concentrarsi sulla quantità metrica degli spazi interni agli edifici scolastici, preferendo delegare a ciascuna scuola la ricerca di spazi esterni in base a quello che offrono i territori. A motivare questa delega non è un’analisi dell’oggettiva carenza dell’edilizia scolastica, alla quale evidentemente non si ha alcuna intenzione di riparare, anche in ragione del fatto che non tutte le scuole ne soffrono, bensì uno sfoggio di retorica ecumenica che va dal bisogno di sviluppare «le competenze del vivere una comunità aperta» – una comunità ancora «troppo conflittuale», ma «che deve tornare a essere coesa», che deve porre al «centro la scuola» come «motore del territorio» -, al bisogno di dedicare più tempo alle «materie che fanno la nuova socialità», come musica o sport, che nella scuola sono confinate a poche ore, e che ora potranno finalmente essere svolte insieme al territorio.

Per capire cosa si sta prospettando con questa destrezza comunicativa, occorre ribadire che non siamo di fronte al reperimento di spazi alternativi da offrire provvisoriamente a strutture edilizie inadeguate all’applicazione delle norme di sicurezza imposte dall’emergenza sanitaria, tali strutture infatti rimarranno tali e quali. L’obiettivo è bensì offrire un ulteriore slancio al combinato “Autonomia-Buona Scuola” per proporre un modello di didattica fondato sul «patto educativo di comunità» nel quale integrare in maniera organica tutte le attività, interne ed esterne. Un’offerta didattica unitaria calibrata su più tempi e due spazi: lo spazio interno, con un tempo ancora più contratto da dedicare alla didattica digitale, e lo spazio esterno, dove si “socializzano” alcune discipline. Insomma, una manovra di governance a costi ridotti per lo Stato, che lungi dal programmare interventi sulle diseguaglianze sociali e nonostante l’art. 3 impropriamente citato, si limita a ri-amministrare il sistema istruzione trasferendo deleghe alle Regioni e chiedendo il supporto del terzo settore, del mondo dell’associazionismo pubblico e privato, per non dire del secondo settore a cui fa ampio riferimento il piano Colao. Se a ciò si aggiunge il contesto oggettivo dove tutto questo si andrà a calare, da una parte già ingorgato di attivismo e movimentismo, dall’altra caratterizzato dai differenziali socio-economici di partenza tra aree periferiche e aree urbane, tra Nord e Sud del paese e tra le stesse utenze scolastiche che caratterizzano i vari indirizzi scolastici, sicuramente aggravate dalla crisi in corso, il riferimento allo spirito di comunità e alla cooperazione suona come plateale e consapevole inganno.

Questa surreale esternalizzazione della scuola, che dissemina la classe nella comunità disgregandola come comunità, la astrae dai propri luoghi costringendola a vagabondare, per non dire a mendicare sul territorio diritti e bisogni che lo Stato non riconosce più come tali, non farà che peggiorare soprattutto la formazione culturale degli studenti socialmente più deboli le cui uniche chance di emancipazione sono rappresentate dalla scuola. Un salto di qualità politico organizzativo e politico cognitivo che mentre sostiene il mercato dell’informatica e dei suoi profitti, va incontro al bisogno di formare o forgiare una precisa forma mentis, un capitale mentale che deve sapersi adattare cognitivamente a situazioni di flessibilità e precarietà, rimodulazione continua delle proprie aspirazioni e della propria soggettività in funzione di un mondo del lavoro che, nella sua brutale ingiustizia, ha ormai assunto queste precise caratteristiche. Non c’è che dire, la crisi economica non sembra indebolire «questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante», che continua a portare avanti la propria lotta di classe in assenza di una forza contro-egemonica capace di ricomporre la desolante frammentazione che caratterizza il mondo del lavoro e della cultura. Quanto ai rapporti di forza presenti a livello governativo e parlamentare in grado di contrastare o contenere questo progetto, la storia degli ultimi vent’anni ci insegna che sulle politiche classiste da infliggere all’istruzione, gli opposti schieramenti sono sempre riusciti a convergere.

Riferimenti bibliografici

R. Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, il Mulino, Bologna 2019

Carosotti, R. Latempa, Fondata sulle competenze. La Repubblica dell’Ocse, dalla Buona Scuola al Jobs Act, 2017, https://www.roars.it/online/fondata-sulle-competenze-la-repubblica-dellocse-dalla-buona-scuola-al-jobs-act/

Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios, Trieste 2017

H. Giroux (2012), Educazione e crisi dei valori pubblici. Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica, tr. it. La Scuola, Firenze 2014

M. Spitzer (2012), Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi, tr. it. Corbaccio, Milano 2013

Note

[1] https://www.corriere.it/economia/aziende/20_giugno_08/strategia-6-punti-il-rilancio-dell-italia-piano-task-force-colao-documento-integrale-225de19e-a9a1-11ea-b9d7-2bd646fda8c5.shtml

[2] https://www.radioradicale.it/scheda/607855/commissione-cultura-scienza-e-istruzione-della-camera-dei-deputati

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La scuola conviviale – Andrea Staid

Una volta che una società ha trasformato i bisogni fondamentali in richieste di beni di consumo prodotti da esperti, la povertà si defini­sce secondo parametri che i tecnocrati possono modificare a proprio piacimento (Ivan Illich)

L’opera di Ivan Illich è una miniera per la comprensione del con­temporaneo. Oggi sono in molti a richiamarsi al pensiero di Illich, ma spesso lo fanno ignorando la sua complessità e il dubbio siste­matico che caratterizzava la sua opera, perché è molto più sempli­ce essere dei seguaci che dei critici attenti del suo pensiero.

Uno dei problemi principali affrontati nelle sue opere è sicura­mente quello della modernità, un problema legato alla sparizione dell’arte di vivere, di cui l’arte di soffrire è parte integrante. Nei suoi studi ha dimostrato che l’istituzionalizzazione dei valori della società contemporanea, burocratica e capitalista ha condotto ine­vitabilmente alla corruzione del corpo, alla polarizzazione sociale e all’impotenza psicologica: tre dimensioni di un processo di de­gradazione globale e di rinnovata miseria.

Un processo di degradazione accelerato dalla trasformazione dei bisogni non materiali in domande di prodotti e dalla defini­zione di salute, istruzione, mobilità personale, benessere ed equi­librio mentale visti soltanto come risultati di servizi. In coerenza con le sue tesi, evitando la tipica separazione di molti intellettua­li tra teoria e pratica, il grande pensatore rifiutò di curare il suo cancro, perché il dolore e la sofferenza erano per lui una parte imprescindibile nell’esperienza dell’uomo. Con la sua malattia vo­leva provare che la civiltà medica moderna ha trasformato il do­lore da cimento personale in disfunzione meccanica. La capacità della cultura di rendere tollerabile il dolore integrandolo in una situazione carica di senso è venuta meno. La sofferenza non è più percepita come componente inevitabile del consapevole confron­to con la realtà, bensì come problema tecnico da eliminare. Per Illich la medicina è diventata una nuova pandemia, che definisce con il termine iatrogenesi, e si palesa in tre aspetti fondamentali: clinico, sociale, culturale. La iatrogenesi clinica è costituita dagli effetti collaterali della terapeutica per cui dolore, malattia e morte diventano il risultato delle cure mediche, non più una tappa del percorso di guarigione. La spersonalizzazione della terapia e l’u­so della tecnologia in campo medico trasformano la mala pratica, purtroppo sempre più frequente, da problema etico a problema tecnico. Per questo affermerà instancabilmente che “la corpora­zione medica è diventata una grande minaccia per la salute” (Ne­mesi medica, 1977).

In Descolarizzare la società (1972-2019), il tema principale è la funzione della scuola, dell’istruzione statale e accademica. Per molti anni Ivan Illich si è interrogato su cosa fosse quella struttu­ra creata intorno all’istruzione che prende il nome di “scuola”. In questo suo celebre lavoro avanzò una critica radicale, ancora attuale sotto molti punti di vista, ai sistemi scolastici e alla società che li produce. Nella sua analisi la scuola, specie quella profes­sionale, ricade infatti nell’ambito delle istituzioni manipolatone e non conviviali, ovvero è una forma di manipolazione del mercato che ha come scopo la formazione di individui adatti e utili alla produzione industriale: “La scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com’è”.

Il problema principale, a suo avviso, è che ormai non è scolarizzata soltanto l’istruzione, ma l’intera realtà sociale. La sco­larizzazione obbligatoria non soltanto ha polarizzato la società, ma ha classificato le nazioni del mondo secondo un sistema interna­zionale di caste.

I singoli paesi vengono cioè valutati come caste, la cui dignità culturale dipende dalla media degli anni di scuola dei loro cittadini, secondo una classificazione strettamente collegata al prodotto nazio­nale lordo prò capite, e c’è di peggio. Il paradosso della scuola è evi­dente: l’aumento della spesa non fa che accrescere la sua potenzialità distruttiva, dentro e fuori dai paesi. Questo paradosso deve diventare una questione d’interesse pubblico {Infra, p. 29).

Nel testo Illich afferma che dare a tutti eguali possibilità d’i­struzione è un obiettivo importante e raggiungibile, ma allo stesso tempo sottolinea che identificare questo obiettivo nella scolariz­zazione obbligatoria è come confondere la salvezza eterna con la Chiesa. Per Illich la scuola è divenuta la religione universale di un proletariato modernizzato che fa vuote promesse di salvezza ai poveri dell’era tecnologica. Lo Stato nazionale ha fatto propria questa religione, arruolando tutti i cittadini in un programma sco­lastico “graduato” che ha portato a una successione di diplomi e ricorda i rituali iniziatici e le ordinazioni sacerdotali dei tempi passati. Lo Stato moderno si è assunto il compito di far rispettare le decisioni dei suoi educatori per mezzo di volonterosi funzionari addetti alla lotta contro l’evasione dall’obbligo scolastico e me­diante i titoli di studio richiesti per ottenere un impiego, un po’ come i re spagnoli facevano rispettare le decisioni dei loro teologi servendosi dei conquistadores e dell’Inquisizione.

Illich ha cercato di ribaltare questa dinamica istituzionale e co­ercitiva anche nella sua quotidianità, lo dimostra la sua vita passata in case collettive in giro per il mondo e la sua voglia di parlare con uomini e donne provenienti da paesi lontani. Ha dato grande importanza nelle sue opere alla ri-significazione della parola “con-vivialità“: con questo termine intendeva esattamente il contrario della produttività industriale.

Dal suo punto di vista, la crisi planetaria affondava le radici nel fallimento dell’impresa moderna, cioè nella sostituzione della macchina all’uomo.

Nel corso di molti anni di studio ha provato a individuare il limite critico all’interno della millenaria triade uomo-strumento-società, limite oltre il quale non è più possibile mantenere un equilibrio globale. L’uomo è diventato schiavo della macchina e la società iperindustriale ha stravolto ogni scala e limite naturale. Passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza e Illich, nella sua vita, ha cercato costantemente di creare convivialità per non arrendersi alla produttività della società indu­striale in cui viveva (La convivialità, 1974).

La convivialità ha i suoi luoghi e certamente l’abitare è uno dei più importanti. Non a caso, questo argomento sarà centrale nella riflessione e nell’attività di Ivan Illich: anche in questo caso teorizzò un grande attacco radicale al sistema corporativo dell’ar­chitettura, perché rivendicava il diritto degli abitanti a gestire e costruire il proprio spazio di vita, sottolineando l’importanza del saper fare umano e delle architetture vernacolari. L’autore appro­fondirà molto un concetto strettamente legato a questa tematica: il concetto di commonsdi diritti comuni, di beni comuni, un tema che affonda le sue radici anche nella storia italiana degli usi civici e delle terre comuni.

Illich ha fondato un pensiero completo e, approfondendo la te­matica sulla scuola e la descolarizzazione della società, si è occupato di tutti gli argomenti centrali della nostra società e quindi anche del sistema del lavoro, della coppia, dei legami tra persone e merci, come automobili, televisione, media e computer, che per l’autore rendono l’uomo dipendente e schiavo di sistemi totalizzanti.

In questo testo che state per leggere, Illich avanza anche del­le proposte concrete, affermando che all’attuale ricerca di nuove strettoie didattiche dovremmo sostituire la ricerca del loro contra­rio istituzionale, ovvero costruire reti educative che possano dare realmente a tutti maggiori possibilità di trasformare ogni momen­to della propria vita in un’occasione di apprendimento, partecipa­zione e cura, non soltanto nelle ore di lezione seduti davanti a un banco e rinchiusi in una scuola. Il problema è che sempre di più, soprattutto oggi, qualunque iniziativa comunitaria, se non è finan­ziata e organizzata dalle autorità competenti, viene letta come una forma di aggressione o sovversione.

Per questo è sempre più urgente “descolarizzare” ovunque non soltanto l’istruzione ma la società tutta.

Le burocrazie degli enti assistenziali, ci ricorda Illich, rivendicano il monopolio professionale, politico e finanziario dell’im­maginazione sociale, fissando i criteri che stabiliscono cosa è valido e fattibile. Questo monopolio è alla base della versione moderna della povertà. Ogni semplice bisogno per il quale si trovi una soluzione istituzionale permette di inventare una nuova classe di poveri e una nuova definizione della povertà. Bisogna sovvertire questo sistema per riconquistare degli spazi di libertà e autorganizzazione.

Illich ha costruito un pensiero radicale che può essere com­preso solo se lo si conosce nella sua interezza e lo si integra alla vicenda umana del pensatore. Ci ha lasciato l’immagine di un in­tellettuale poliedrico e dubbioso, di uomo eretico. Per questo è fondamentale porre attenzione al reale pericolo che questo libero pensatore possa oggi essere riassorbito nell’ambito di un pensiero confessionale cristiano, che venga beatificato da una Chiesa che ha tutto l’interesse a smussarne gli spigoli e ad assorbire il suo pensie­ro all’interno di un anti-modernismo cattolico in questo momento in piena ascesa. Quello che Illich ci offre è una grande eredità umana e teorica, ampliando la nostra cassetta degli attrezzi per la costruzione di un mondo migliore.

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“LA DaD HA SALVATO LA BARACCA”? – Lucio Garofalo

Io sono un maestro di scuola primaria, e non un docente universitario, per cui posso garantire che i danni arrecati dalla didattica a distanza in questo segmento, e direi in tutto il primo ciclo dell’istruzione, sono notevoli. C’è chi, invece, ripete come una sorta di mantra spirituale la tesi propagandista che la DaD avrebbe “salvato la scuola” dall’emergenza pandemica. Io so solo che c’è chi ha lavorato sodo, per non sortire granché dai propri alunni, ed a parità di retribuzione, e chi si è “grattato la schiena”, per dirla senza peli sulla lingua, percependo regolarmente lo stipendio. Direi che è la prassi vigente anche nella realtà quotidiana di chi vive la scuola in presenza, e direi in tutto il mondo del lavoro: “Fantozzi docet”. Ma non è il punto centrale del ragionamento. Non mi interessa il “divide et impera” tra i lavoratori della scuola. Dicevo che c’è chi si dimostra convinto, in buona o in mala fede, che “la DaD ha salvato la scuola”. Io dico che ha mortificato, in misura ulteriore, i valori della cultura, della democrazia e della giustizia. Ma non è nemmeno questo l’elemento cruciale della mia riflessione, che non è inficiata da umori personali, né da preconcetti. Il nodo centrale è di natura didattico-educativa e, quindi, culturale. È quasi un assioma apodittico, tale è la sua evidenza, che la DaD non abbia sortito risultati di rilievo sul versante pedagogico e culturale. Nella migliore delle ipotesi, la DaD ha tamponato il vuoto che si è generato in seguito ad una crisi epidemiologica di portata planetaria. Il ricorso agli strumenti digitali è stato utile forse per ricucire un legame virtuale con alcuni allievi, specie i più piccoli e fragili. In alcune situazioni virtuose, quanto eccezionali, la DaD ha mantenuto le classi in relazione telematica ed ha favorito un dialogo tra i docenti e i loro discenti. Ed è stato un bene. Io stesso ho impiegato varie forme di didattica a distanza, anzitutto per ripristinare un rapporto di dialogo ed empatia con gli alunni. Ma non tutti i bambini e le loro famiglie hanno avuto la possibilità di disporre degli strumenti (tecnici, economici, umani e culturali) per poter seguire in maniera efficace le attività didattiche on-line. Ma non è soltanto la questione dei dispositivi digitali in comodato d’uso gratuito a beneficio delle famiglie più bisognose (specie le più numerose), o di connessione alla Rete web. È anche e soprattutto una distanza di origine socio-economica, che si ripercuote a livello culturale, ed è riconducibile ad un profondo divario di classe, di status socio-materiale, che esiste al di là della didattica in remoto, ed è una contraddizione insita nella realtà iniqua del sistema capitalista vigente, che si riflette nelle dinamiche della scuola in presenza, o a distanza. Chi potrebbe negarlo? In classe, un valido insegnante, magari provvisto di qualità umane, morali ed intellettuali, intrise di cultura, di estro creativo, prestigio carismatico ed autorevolezza, di sensibilità e di empatia, avrebbe le potenzialità per riuscire a colmare o almeno a ridurre il divario sociale e culturale tra gli allievi, mentre la DaD concorre solo ad accrescere le distanze. In termini astratti, un tipo di didattica proposta in modalità on-line potrebbe servire ad infondere un ricco bagaglio di nozioni didascaliche, nella migliore delle ipotesi. Ma con chi è studioso di suo. Non a caso, i corsi di recupero e/o di integrazione degli apprendimenti, che dovranno attivarsi nel prossimo mese di settembre, sono la spia che tradisce i limiti e le carenze innegabili derivanti dall’esperienza, fallimentare, della didattica digitale. Ne sono convinto.

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Quale scuola per quale società? – Rosangela Pesenti

Paura, prudenza, coraggio: abbiamo bisogno di accompagnare la sequenza dei nostri sentimenti fino a ritrovare l’azione che nasce dal cuore, mantenendo il pensiero in sintonia con il ritmo della vita che misteriosamente prescinde dalle nostre decisioni eppure ne è sempre condizionato.
Ci si chiede da dove e come ripartire e la risposta dovrebbe essere ovvia: dalla scuola perché lì sta crescendo il futuro.
Provo a tracciare un disegno.

La riforma mancata
Scuola, nel senso originario greco di Skholé, significa tempo libero e in questa direzione è stato pensato e conquistato, per ora parzialmente, il diritto allo studio, che possiamo interpretare prima di tutto come tempo liberato dal lavoro, e quindi dal lavoro minorile, dalle incombenze domestiche, dagli obblighi della condizione sociale e familiare, dalle limitazioni della condizione personale.
La scuola dovrebbe essere la strada per trasformare la casualità della nascita nell’armonia della vita di cui si diventa titolari alla ricerca di un’esistenza libera e appagante, cammino sempre individuale e imprevedibile che la società può solo facilitare.
Il diritto a un tempo in cui crescere, individualmente e insieme, per trovare la propria strada nel mondo.
Quindi la scuola non avrebbe bisogno di aggettivi, ma in questo momento serve accostare l’aggettivo “democratica” per indicare la direzione, perché la direzione consente di vedere la strada e aprirla camminando quando non c’è.
Il nostro mondo è un paese democratico che si è unito ad altri paesi democratici in un territorio geografico diventato configurazione politica.
La democrazia, come espressione di cittadinanza progressivamente egualitaria per tutta la popolazione abitante, è stata conquistata nella seconda metà del Novecento contro il progetto di una società gerarchica, sessista, classista, schiavista, razzista, che fascismo e nazismo pretendevano di sedimentare in Italia e in Europa, usando armi, violenza e guerra di conquista.
La repubblica democratica definita dalla Costituzione è nata dopo una guerra devastante, esito di vent’anni di regime fascista, a sua volta reso possibile da una forma di Stato tiepidamente liberale, diffidente nei confronti della libera espressione politica di contadini/e e operai/ie, cioè della maggioranza di popolo che pretendeva di rappresentare, ostile alla parità giuridica delle donne, (sempre più della metà di popolazione) che quindi sono state doppiamente sfruttate e ostacolate in tutti i mestieri esercitati, dall’agricoltura alle libere professioni, dalle lavandaie alle maestre.
La Scuola della Repubblica ha ereditato la struttura, i contenuti, l’impronta ideologica e l’impianto sociale definiti dalla legislazione dello Stato monarchico-liberale, ridefinita dalle riforme fasciste, espresse da un parlamento asservito alla dittatura, dopo l’espulsione e persecuzione di tutte le opposizioni e culminata nelle leggi razziste.
Gli aggiustamenti, che hanno percorso i settant’anni della Repubblica, risultato di sguardi lungimiranti, dibattito democratico, impegno generoso e diffuso di una parte significativa del ceto insegnante uscito dal laboratorio politico dell’antifascismo, hanno messo toppe, piccole o grandi, ma non sono riusciti a modificare l’impianto, rimasto sostanzialmente sessista, classista e perfino con aspetti razzisti, nei contenuti e nella struttura, tanto che non si sono stabilizzate le opportunità espresse dalla scolarizzazione di massa e le migliaia di buone pratiche introdotte, soprattutto negli anni ‘60-‘90 da un ceto insegnante competente, con generale convinzione democratica e convinte finalità socialmente egualitarie.

La controriforma strisciante
Sono bastate poche, ma determinanti, riforme strutturali (tra cui la riduzione del personale insegnante,  l’accorpamento delle scuole, la gestione aziendale) e una campagna squalificante, fino al disprezzo, nei confronti degli/delle insegnanti per ridurre la scuola ad appendice del mercato e alla mercé delle famiglie, spesso disorientate e confuse, il primo assunto a regolatore delle vite considerate fin dall’infanzia capitale umano, le seconde incoraggiate a competere attraverso figli e figlie, ridotti a materia riproduttiva della posizione sociale raggiunta o sognata, responsabili dirette di successo o fallimento, con l’esito di un’enorme quota di lavoro invisibile attribuita, con un eufemismo politicamente corretto, ai genitori e alla loro genitorialità, di fatto alle madri.
La genitorialità e la famiglia, continuamente esaltate, sono state in realtà sottoposte a sfruttamento e a un controllo sociale che li ha resi terminali asserviti a supporto di tutte le carenze sociali.
Non stupisce che questo processo concorra a disincentivare il desiderio di mettere al mondo bambini e bambine perché il peso lavorativo per le donne, a fronte di tutte le incertezze, comprese quelle relative alla sicurezza del proprio lavoro, disegna un mondo al quale non si può mettere la toppa di qualche occasionale incentivo o bonus.
La scelta delle giovani donne è un implicito e collettivo giudizio politico sulla nostra società, esercitato anche grazie alla libertà di scelta conquistata dalle generazioni precedenti, di cui la scolarizzazione è stata motore, e segnala la permanenza di quel senso di responsabilità diffusa che ha contraddistinto la lunga storia femminile dentro la specie umana, esercitata in qualsiasi condizione.
Contemporaneamente su una scuola deprivata di personale e investimenti si sono riversate richieste educative impossibili aggiungendo vincoli e mandati in forma di progetti estemporanei (e miserabili salari aggiuntivi) che hanno ulteriormente deprivato il libero dialogo educativo con una costante mortificazione del ruolo insegnante.
Le generazioni cresciute a partire dagli anni ’90 hanno vissuto la ferocia dello slittamento da diritto allo studio a successo formativo camuffato sotto l’imperativo di efficacia ed efficienza, costrette/i dentro misurazioni di livelli, educate/i alla competizione, in corsa per quella selezione che la vita già di per sé impone con la sua onesta ferocia e che una civiltà democratica dovrebbe, appunto, correggere.
I tagli alle risorse scolastiche, in termini di personale prima di tutto e poi generati dall’omissione di interventi,
non hanno migliorato la tenuta economica del paese, anzi, il tesoretto risparmiato è stato completamente dissipato da molte pratiche deficitarie, per usare un eufemismo, sia pubbliche che private, con responsabilità politiche a cui si legano indissolubilmente quelle di tutta l’evasione fiscale e della criminalità organizzata.

Una scuola democratica
In una democrazia la scuola è il luogo centrale della riproduzione sociale, quindi uno spazio-tempo in cui imparare, insieme a tutti i linguaggi elaborati dalla cultura, la cooperazione, la gestione nonviolenta dei conflitti, il dibattito delle idee, l’esercizio dei diritti pari, le relazioni rispettose, l’accudimento e manutenzione dell’ambiente, la responsabilità del proprio agire e la cura delle persone con cui si vive, il rispetto per il lavoro a cominciare da qualsiasi lavoro di servizio.
Il rapporto tra spazio, tempo e persone, in relazione a ciò che una società vuole riprodurre, è il nodo cruciale che definisce la Scuola e ogni singola espressione dell’istituzione stessa che, accompagnando la crescita di bambini e bambine accanto a genitori famiglie territorio, offre un luogo egualitario che prescinde da ogni differenza di condizione, valorizzando l’unicità umana di ognuna e ognuno, la consapevolezza delle storie d’origine, la libertà come dimensione imprescindibile nel presente e nell’immaginare il futuro.
La scuola è prima di tutto relazione: tra collettività adulta e giuridicamente minore, in veloce mutamento tra infanzia e maturità; è un tempo della vita, ormai relativamente breve rispetto alla speranza di vita in Occidente, e una struttura del tempo; è costituita da luoghi, diffusi sul territorio, abitazioni e habitat formativo delle persone in crescita.
Quale società vogliamo è una domanda fondamentale per decidere come deve essere la scuola.

Una riforma che sia istituzione
È giunto il tempo di pensare a istituire la Scuola della Repubblica democratica e se, mentre mi accingo a scriverla, tremo, per la distanza tra la mia piccola vita comune, la limitatezza delle mie competenze e il compito che mi assumo, sento però di avere con me il bagaglio di tutto ciò che ho ascoltato da bambine e bambini, ragazze e ragazzi, colleghe e colleghi, i pensieri che abbiamo intrecciato, lo scambio tra le loro domande, perfino inespresse, e la pertinenza del mio sapere continuamente reinterrogato dalla realtà, le esperienze concrete vissute insieme, i progetti realizzati.
Ho imparato a scuola ad ascoltare e talvolta farmi argine contro l’invadenza di procedure persecutorie, persistenti e continuamente rinnovate anche se contraddette dal meglio del pensiero pedagogico e filosofico, disprezzato in nome di un aziendalismo che ha immaginato di ridurre la scuola a catena di montaggio per la selezione della forza lavoro adeguata e la scrematura di una classe dirigente asservita ai privilegi.
La scuola è centrale nelle pratiche riproduttive collettive della società perché è il luogo in cui si imparano regole procedure valori orientamenti linguaggi che si traducono in dispositivi inconsci del corpo e ne inducono i pensieri, riproducendo non solo i contenuti culturali in continuo mutamento ma le persistenze strutturali di una società, insieme alla percezione e definizione delle risorse che ne sostengono l’esistenza.
Le forme sono determinanti nell’espressione dei contenuti culturali, che sono mutevoli ma sempre risignificati dal contesto che li trasforma nell’agire umano.
Come in tutte le operazioni di riciclo si tratta di pensare un contenitore nuovo in cui riutilizzare, e al quale concorrono, tutte le pratiche che l’hanno già in parte prefigurato e perfino spesso realizzato nelle condizioni date.
Spesso le pratiche più utili alla crescita di una collettività democratica sono state realizzate nelle condizioni più difficili, costituendo un insieme di risorse che hanno sempre e comunque sostenuto il paese occupandosi con creatività della popolazione in crescita.

Abitare la scuola
La prima dimensione che conosciamo nella vita è lo spazio, il primo senso costantemente attivo, e che tale resterà per tutta la vita, è la percezione della pelle, quello che riduttivamente definiamo tatto, attivo anche mentre dormiamo, insieme all’olfatto che vive dentro il respiro, mentre gli altri sensi, vista udito gusto, riposano, e il nostro cervello rielabora la memoria insieme ai bisogni sognando.
Si nasce abitanti, della pancia di mamma, di una culla, delle braccia che ti sorreggono e dei supporti che le sostituiscono di cui fa esperienza varia il corpo. Poi via via abitiamo luoghi più grandi, impariamo a conoscerli e trasformarli, impariamo a inventarli, costruirli, perfino distruggerli, impariamo a nominarli, arredarli, renderli adeguati alla nostra vita reale e a ciò che ne pensiamo, perfino elaborando convinzioni che quella stessa vita, nostra o altrui, deformano e danneggiano.
Abitare è l’esperienza costante della vita umana e il nostro abitare ci rende anche nomadi tra case diverse e luoghi della socialità, lavorativa, di svago, di cittadinanza, che sono altrettanto fondamentali da abitare per la sperimentazione della libertà di esistenza.
Abbiamo imparato che lo spazio intorno a noi non è inerte ma habitat dentro cui muoviamo e interagiamo con la nostra esistenza costruendo la nostra storia.
Tra la coscienza fisica che abbiamo del nostro vivere e quello che definiamo ecosistema in senso lato, c’è la costante intercapedine dei luoghi che qualificano e definiscono il territorio abitato.
La scuola è un modello dell’abitare, istituzione recente e con accesso diffuso a tutta la popolazione da meno di un secolo, quindi interrogarsi sul modello dello spazio scolastico non è solo faccenda per architetti/e e vincoli di bilanci pubblici ma riguarda la forma materiale della riproduzione democratica.
Ad esempio se veniamo intruppati nella serialità dei banchi messi in file precise e rivolti alla cattedra per tutti gli anni dell’apprendimento scolastico impariamo che l’unico modo per esistere individualmente è quello di trovare collocazione nella scala delle valutazioni, in obbedienza alle pratiche correnti, o esprimere un ribellismo magari creativo ma poco incisivo con il rischio perfino di mutarsi in autolesionismo fisico o sociale, impariamo che la nostra esistenza più autentica è costretta a svolgersi sottobanco.
Se le aule colorate dai disegni, i lavori in gruppo, i banchi eliminati nel circle time, sono appannaggio della scuola d’infanzia ed elementare, man mano eliminati negli anni dalla scuola media alla fine delle superiori, la disciplina interiorizzata diventa anche una gerarchia delle discipline e l’indicazione di una gerarchia sociale tra lavori che diventa gerarchia delle intelligenze umane, delle competenze e alla fine riproduce la gerarchia sociale perfino contro il dettato Costituzionale che ha istituito la repubblica fondata sul lavoro, non sulla ricchezza o sul profitto e nemmeno sulla felicità, che può essere nobile auspicio ma resta responsabilità individuale e casualità della vita di cui la Repubblica deve garantire la possibilità comune e condivisa e non certificarne il diritto.

La scuola: una casa non una caserma
Nella scuola come luogo della riproduzione sociale lo spazio va ripensato tenendo conto della prima e fondamentale forma dell’abitare: la casa, dentro la quale la risposta ai bisogni individuali è sempre educativa Nella casa si modella il nostro modo di stare al mondo, stanze e mobili disegnano percorsi, danno forma ad abitudini che vengono rielaborate in convinzioni.
La separatezza delle case, luogo per eccellenza del privato, da tutti i luoghi pubblici, implica forme di convivenza famigliare e sociale spesso rigide, che riproducono perfino gesti e posture di regimi superati dalle leggi ma ancora operanti socialmente.
La scuola può diventare un modello che favorisce l’osmosi vitale tra spazi del privato, luoghi della socialità e luoghi istituzionali, favorendo inedite aperture e felici invenzioni.
Nelle nostre città e paesi ci sono molti edifici che sono stati riconvertiti a scuole e abbiamo già sperimentato che grandi ville e conventi sono più adeguati delle caserme o dei collegi progettati dal e sul modello militare.
La crescita è uno straordinario e stupefacente processo che muta il corpo in modo irreversibile nella sua capacità percettiva degli spazi che quindi devono essere adeguati alle fasi della crescita, che è sempre anche esperienza di connessione col mondo.

Scuola e conoscenza del territorio
La scuola può favorire la conoscenza del territorio attraverso lo scambio ospitale, mescolando le tante esperienze già presenti per il tempo libero e quelle dei periodi di studio, come il quarto anno dei licei in paesi stranieri, o come l’Erasmus universitario, generalizzando le esperienze per tutte e tutti come dimensione formativa con l’organizzazione stabile di momenti di scambio, in forma adeguata all’età e graduale come esperienza fin dal primo ciclo, con il coinvolgimento di tutta la comunità territoriale a partire dai Comuni e quartieri cittadini.
Le persone adulte conoscono il territorio attraverso la migrazione lavorativa o il viaggio per vacanze, la scuola può essere determinante per la conoscenza delle storie territoriali, che può ridurre gli stereotipi identitari e allargare gli orizzonti dentro cui pensare il proprio futuro.
Dalle passeggiate alla scoperta dell’ambiente in cui si vive all’apprendimento dell’uso dei mezzi pubblici in forma via via più autonoma per spostamenti nella provincia e regione, con un costante rapporto con le iniziative culturali, bambine e bambini, ragazze e ragazzi, possono crescere nella consapevolezza che tutti e tutte concorrono alla qualità della vita sociale, da cui derivano le opportunità di quella individuale.

Tempo
Il tempo, dimensione del nostro esistere nel mondo, è imprescindibile dalla spazialità e l’esperienza scolastica ne unisce inscindibilmente gli aspetti nella costruzione della nostra socialità.
Il tempo scolastico è una delle strutture portanti dentro cui siamo cresciute/i, a cui si assoggettano i sistemi famigliari e perfino, soprattutto un tempo, quelli produttivi, perché diventa una forma interiorizzata, una scansione dei giorni e delle stagioni, un ritmo dell’agire umano che, nel tempo della crescita, è anche passaggio da luogo a luogo.
Il tempo dell’esercizio del diritto scolastico deve essere di quindici anni, dai tre ai diciotto, senza interruzioni o ripetizioni, suddiviso in due cicli, dai tre ai dodici e dai dodici ai diciotto anni, con scansioni triennali che celebrano passaggi dell’età e costituiscono l’accesso a differenti apprendimenti.
Il diritto alla scuola deve essere connesso con un diritto educativo per i primi tre anni di vita, con l’organizzazione di nidi, con il diritto allo studio per la specializzazione in funzione lavorativa, per gli anni successivi, e con il diritto alla formazione permanente prevista e aperta a tutta la popolazione di ogni età e condizione.
Nella vita gli anni non si possono perdere né ripetere, come ben sappiamo, quindi lo stesso accade a scuola dove, come nella vita stessa, l’apprendimento resta anche responsabilità individuale, sempre e a qualsiasi età. L’insegnamento scolastico deve sostenere, favorire, sollecitare, consentire, stimolare, indurre, l’apprendimento, nella consapevolezza che ad ogni età si è responsabili della propria crescita.
La scuola dal lunedì al venerdì, dalle 9 del mattino alle 17 del pomeriggio, compreso il pranzo, come luogo in cui apprendere una socialità diversa e non contraria a quella famigliare, in cui scoprire il significato di regole condivise per la comune convenienza e non imposizioni autoritarie.
Rallentare i processi di apprendimento, rivedere i contenuti con il senso del limite e dell’opportunità sono le condizioni perché nella scuola cresca la cittadinanza democratica che necessita di un abbattimento delle procedure burocratiche e della funzione di controllo vincolante attribuito alle procedure.
I ritmi del lavoro scolastico devono consentire processi di verifica costanti, educativi e non assoggettanti o mortificanti, condivise e funzionali a possibilità di recupero e/o approfondimento in relazione alle storie individuali.
I ritmi scolastici devono liberare i genitori e tutte le figure che svolgono funzioni analoghe da vincoli di impegno e controllo mentre la legislazione deve prevedere l’adeguamento degli orari di lavoro di ogni genitore ai ritmi scolastici di figli e figlie.
Lo scambio tra famiglia e scuola non deve avere carattere valutativo ma solo affettivamente civile e celebrativo dei passaggi di età.
Il tempo scolastico è anche un tempo per la conoscenza del territorio, da quello più prossimo progressivamente a quello più lontano, della provincia, della regione, di altre regioni e di altri paesi.
Per la scuola è necessario un pensiero situato nel presente e in movimento verso quel futuro che ha continuamente sotto gli occhi chi svolge un mestiere che riguarda l’insegnamento.
In nessun luogo, come nella scuola, il passaggio del tempo è tangibile, i mutamenti imprevedibili nel succedersi delle generazioni, che presentano gli stessi bisogni nella straordinaria diversificazione individuale e connessione collettiva.

Spazio tempo soggetti
La dimensione delle scuole deve essere adeguata a un limite massimo e minimo di alunne e alunni in modo da consentire una gestione disegnata sul modello domestico e in relazione all’età.
Una divisione tra primo e secondo ciclo non deve significare separazione tra due mondi non comunicanti.
L’intero percorso scolastico va ripensato con scansioni temporali ma non in forme fisicamente segreganti.
Edifici vicini, anche con ambienti comuni, adeguati a gruppi classe con un rapporto di un/una insegnante per 4/10 bambine/i nel primo ciclo e di un/una insegnante per 8/15 allieve/i nel secondo ciclo.
Un modello architettonico più vicino al condominio che alla caserma, più gestibile anche sul piano della manutenzione e dei costi di funzionamento.
Non la scuola-fabbrica, separata dal territorio ma urbanisticamente inclusa.
L’esperienza del gruppo classe, che favorisce la collaborazione stabile, andrà accompagnata con lo scambio tra gruppi in relazione alle esperienze didattiche previste, anche con la costituzione di gruppi più piccoli e/o lavoro in compresenza, o incontri per gruppi costituiti da più classi fino alle assemblee generali, per le attività che lo richiedono.
Nell’arco della settimana vanno organizzate esperienze di mutuo aiuto, insegnamento, gioco, tra piccole/i e grandi e analogamente tra tutte le età per favorire la cancellazione della segregazione tra le diverse età della vita, favorire la responsabilità e la consapevolezza, promuovere l’apprendimento concreto di tutte le discipline umanistiche, che si misura e verifica nella capacità di dialogo maieutico a tutte le età.
Ogni scuola penserà l’organizzazione dell’esperienza del gruppo classe senza la costante segregazione tra le classi, con tempi spazi relazioni variamente condivise tra i diversi soggetti in relazione alle attività di apprendimento sia teorico che pratico.
Gli stessi piani annuali d’insegnamento andranno gestiti in modo da favorire lo scambio educativo tra le diverse classi di età, tra infanzia e adolescenza. Un’organizzazione del tempo scolastico in cui si diventa contemporaneamente allievi/e e insegnanti, coordinate/i e coordinatrici/coordinatori con rotazione dei ruoli in cui sperimentare inclinazioni, talenti, limiti e sempre responsabilità.
Uno spazio adeguato ad accogliere un tempo di gioco libero, compresa l’esperienza del gioco solitario e di gruppo, della noia e della libera invenzione, con una presenza adulta discreta e sempre relativa all’età dei soggetti che imparano la responsabilità di sé e del gruppo, la meraviglia delle scoperte e la frustrazione dei limiti alle risposte conosciute.
I mobili non devono diventare immobili, servono tavoli e sedie, ma anche tappeti cuscini divanetti poltroncine. Gli argomenti e apprendimenti non richiedono tutti la stessa postura e allenare la mente significa anche sperimentare il corpo.
Nella scuola occorre avere possibilità di un proprio spazio intimo senza dover essere segreto o segregato: un proprio armadietto, una sedia comoda, un appoggio per scrivere e un angolo per leggere. Non la serialità ma la creatività, compreso il riciclo di arredamenti e oggetti.
Le intuizioni praticate nella scuola dell’infanzia ed elementare possono trasformarsi a misura di corpi adolescenti e giovani senza perdere la qualità di attenzione e cura per l’ambiente, espressione della bellezza e delle storie di crescita e scoperta del mondo.
Igiene e sicurezza sanitaria non possono essere affidate solo a divieti e paure ma possono diventare abitudini di cura e rispetto che nascono da uno sguardo capace di vedere.
L’educazione ambientale, non si impara solo perché diventa parte integrante di programmi disciplinari, come qualsiasi nuovo modo di guardare il mondo, che sia scientifico, artistico, politico, può definire il modo di abitare la scuola, nell’uso e manutenzione degli spazi esistenti, nell’invenzione/ricerca di nuovi e inediti spazi, nella gestione condivisa degli spazi come bene comune di cui ogni soggetto può essere corresponsabile, nella connessione degli spazi, e quindi di chi li abita nel tempo scolastico, con il territorio in tutte le sue espressioni, sociali, culturali, economiche.
L’ambiente insieme all’uso del tempo e dello spazio sono la base del nostro vivere e quindi vanno sperimentati nella loro sostenibilità, utilità e libera apertura delle possibilità proprio nella scuola, luogo in cui si deve poter crescere con quella sicurezza e protezione di cui oggi si tende a vedere solo la dimensione difensiva, emergenziale e securitaria.
La passeggiata insieme alla scoperta del mondo, momento di studio nello svago e di svago nello studio, momento che consente la distrazione insieme alla concentrazione, il libero pensiero dentro il vincolo materiale della strada a cui fare attenzione, di compagne e compagni da sostenere o seguire, è esperienza fondamentale di sé e apertura alla conoscenza.
Giardinaggio, orto e cucina, nel paese del sole e del buon cibo, non possono essere solo discipline specialistiche e di indirizzo nella scuola superiore, ma il bagaglio culturale sviluppato e trasmesso nella vita quotidiana.
In ogni scuola sono necessari spazi adeguati ad accogliere momenti di studio, agito individualmente o liberamente insieme, secondo talenti inclinazioni desideri scelte personali.
Si tratta di trovare per ogni ciclo scolastico il numero aureo che consente ai soggetti di interagire e lavorare insieme cooperando nelle finalità educative.
Numero che riguarda il rapporto insegnati/allievi ma anche complessivamente il numero di persone che consente l’esperienza della gestione democratica e non verticistica, una dirigenza condivisa e collaborativa.
Allo stesso modo la gestione va ridimensionata, non grandi accorpamenti ma scuole piccole e diffuse sul territorio.
Noi, che pensiamo la scuola oggi, che destiniamo le risorse, non sappiamo nulla di ciò che quei bambini e bambine faranno della vita e per la vita ma abbiamo il dovere di rendere il loro meglio possibile, perché ciò che sapranno fare di meglio ci accompagnerà fino alla fine della nostra vita e sarà memoria di noi anche quando verrà dimenticato il nostro nome.

Condivisione e non segregazione dei percorsi
Un percorso unico fino ai 18 anni con spazi e tempi finalizzati a scelte autonome di approfondimento tra i 15 e 18 anni, senza nessuna segregazione classista o sessista tra scelte individuali e con progressiva sperimentazione del rapporto tra interessi personali e lavoro possibile alla fine del percorso, con percorsi di accesso a specializzazioni universitarie e non.
Una scuola che si fondi sulla convivenza e non sulla segregazione, con assunzione di responsabilità a tutti i livelli.
Condivisione di tutte le attività di manutenzione ordinaria e anche straordinaria, in relazione all’età, come momento di apprendimento guidato dal personale addetto.
Responsabilità condivisa nell’uso degli spazi, degli arredi e di tutto il materiale scolastico.
Ogni scuola dovrà avere una cucina e spazi per il pranzo gestiti con il contributo via via crescente dell’utenza come parte dell’apprendimento di autonomia personale e cura del proprio ambiente di vita, con momenti sempre più autonomi, in relazione all’età, di preparazione del cibo, che potrà essere variato in relazione ad una programmazione settimanale collettivamente gestita, come apprendimento della gestione domestica, che è lavoro indispensabile alla sopravvivenza.
Preparazione e consumo del cibo saranno inseriti dentro la conoscenza della filiera produttiva e delle forme di distribuzione, sperimentata anche direttamente nell’incontro col territorio e non solo veicolata dai testi.
In relazione con il territorio possono essere pensati anche piccoli ristoranti scolastici come luoghi di commensalità condivisa con la tipologia di popolazione che fruisce delle mense, lavoratori/lavoratrici, pensionate/i, amministratrici/amministratori, genitori ecc.

Essere/fare insegnante
Le/gli insegnanti avranno spazio e tempo per sé, oltre che collettivi, stanze personali e/o condivise in cui studiare, sperimentare e accogliere il gruppo con cui lavorare, dovranno quindi essere in numero adeguato perché il lavoro con la presenza di allieve e allievi non superi mai le due/quattro ore giornaliere per complessive 30 ore settimanali reali (con allieve/i e di lavoro personale), senza ulteriori incombenze da svolgere a casa se non per il proprio piacere e l’amore per il proprio lavoro.
Le responsabilità collegiali saranno elettive e a rotazione, con una permanenza di cinque anni al massimo in un ruolo di coordinamento, saranno sempre condivise da un minimo di due persone che lavoreranno in collaborazione con il personale amministrativo e tecnico, le/gli addette/i alla pulizia, manutenzione, servizio.
Nella scuola tutto il personale è insegnante, nel senso che ogni adulta/o ha responsabilità educative nei confronti di bambine e bambini, ragazze e ragazzi, sia dirette, nella comune collaborazione alla pulizia e manutenzione degli ambienti, affidata via via fino ad aspetti di completa autonomia dei soggetti con la sola supervisione del personale adulto, sia indirette, ad esempio nell’illustrazione e insegnamento dei criteri fondanti le procedure amministrative, la loro utilità e trasparenza, anche come funzione di indirizzo a future scelte professionali.
L’economia domestica, un tempo materia d’insegnamento che definiva la segregazione e identità femminili, è oggi fondamentale apprendimento di autonomia personale e capacità di cura del minuscolo ecosistema in cui materialmente viviamo.
Il personale delle pulizie organizza l’apprendimento pratico e i turni di collaborazione, quindi tutti i servizi entrano a far parte del percorso di apprendimento con distribuzione delle responsabilità.
In ogni attività relativa alle necessità quotidiane si sperimenta la collaborazione e la distribuzione dei compiti anche in relazione a inclinazioni e possibilità individuali, valutate insieme.
Non esistono disabilità e non esistono bisogni educativi speciali, solo riconoscimento delle differenze individuali e sostegno al loro sviluppo in tutte le forme e con le competenze conosciute. Il personale con specifiche competenze non svolge solo un lavoro specifico e segregante ma è risorsa per l’apprendimento comune.
L’apprendimento di ogni disciplina sarà inserito in un contesto di cura e sperimentazione della propria autonomia insieme allo sviluppo di manualità fine attraverso attività artistiche anche finalizzate alla vita comune nell’ambiente, dall’uso dell’ago per cucire e del martello per mettere un chiodo fino a tutte le tecnologie in continuo mutamento e sviluppo favorendo l’acquisizione delle competenze da parte del personale e/o l’assunzione di personale.

Corpo che sente, percepisce, pensa, agisce
Il corpo dev’essere protagonista dell’apprendimento nell’uso e manutenzione degli ambienti, nello sviluppo della manualità fine, che si apprende digitando una tastiera come imparando a scrivere con pennino e inchiostro in bella calligrafia, nella possibilità di sperimentare danza, canto, teatro, strumenti musicali, attività sportive, ma anche utilizzo di strumenti di lavoro nelle mille forme dell’artigianato, dell’edilizia, dell’industria, fin dall’infanzia e per tutta la durata della scuola, con possibilità di trovare occasione e supporto per sviluppare ogni talento anche con scambi tra scuole.
In particolare, l’esperienza e la scoperta del corpo non possono essere affidate solo alle attività sportive e lo sport non può coincidere solo con pratiche competitive, esperienze importanti che non possono diventare totalizzanti, quindi danza e teatro devono essere esperienze altrettanto fondamentali, come le molte tecniche manuali, anche tenendo conto della cultura italiana conosciuta ovunque.
Cantare in coro e suonare in un’orchestra, mettere in scena un lavoro teatrale, sono esperienze che non metaforicamente esprimono le aspirazioni della vita democratica nella percezione di sé dentro la collettività e richiedono una serie di lavori invisibili che possono invece diventare visibili nella loro necessità per la buona riuscita di un progetto.
Allo stesso modo la riflessione filosofica e le grandi domande esistenziali, così presenti proprio nell’infanzia e adolescenza, devono essere a disposizione di chi ha talento e inclinazione per ogni tipo di lavoro, da quello di cura e acconciatura dei capelli, per fare un esempio, a  chi metterà mattoni in fila, o getterà asfalto sulla strada, come di chi sceglierà l’approfondimento speculativo che potrà diventare specifico lavoro.
Tutti i saperi, gli alfabeti, le arti, le scienze devono essere a disposizione, in una scuola dove si impara insieme la manutenzione dei sentimenti, il riconoscimento e la gestione di dolore e gioia, rabbia e paura, della vita nella sua dimensione di scoperta e mistero, dialogo e silenzio.
Il tempo dell’apprendimento ha un ritmo individuale che può essere prescritto solo in parte e va scoperto e sperimentato fino alla gestione autonoma, che significa anche capacità di riconoscere i propri limiti e la qualità d’intervento dell’insegnante.
Donne e uomini insegnanti nella scuola devono essere capaci di accompagnare allieve e allievi nell’apprendimento dei contenuti, delle discipline, dei saperi insieme alla scoperta di sé, della trasformazione di corpi, desideri, sentimenti, bisogni, aspettative, tra infanzia e adolescenza e fino alla maturità, capaci di accompagnarli nella scoperta e gestione delle differenze, a partire da quella fondamentale tra femmine e maschi fino a tutte quelle significative per i soggetti nel confronto costante con le narrazioni storiche e sociali delle differenze stesse.
Bambini e bambine, ragazze e ragazzi, devono trovare nella scuola il luogo accogliente e protetto in cui la scoperta di sé può misurarsi liberamente con i modelli sociali e famigliari, le storie di genere e di generazione, sperimentando sempre responsabilità e rispetto per la comune qualità umana dell’alterità.
Siamo sempre altra e altro dentro similitudini, uguaglianze, condivisioni della comune appartenenza umana.

Valore retribuito
La questione del denaro non è solo necessità per la vita ma anche indicazione di valore e riconoscimento sociale perciò è particolarmente complicata da definire, così come i criteri di assunzione e i ritmi di lavoro.
Mi limito a qualche tratteggio.
Le/gli insegnanti saranno assunti in relazione al ciclo scolastico, con le specializzazioni previste, e svolgeranno tre anni di tirocinio, il primo orientativo, per acquisire la conoscenza della scuola, il secondo e il terzo nella sede e nel ciclo scelto, con stabilità nello stesso posto per i tre anni successivi. Dal secondo anno l’assunzione sarà a tempo indeterminato.
La parola stipendio ha, nella storia etimologica, il significato di soldo pesante, ed era in origine la paga militare; nell’uso, ha uno sfondo da colletti bianchi, divisioni sociali tra classe operaia e ceto impiegatizio, bancari asserviti ai segreti immondi come i preti che un tempo, e ancora oggi, raccoglievano decime e prebende.
Militare e divisione sociale non vanno bene con la scuola democratica.
Compenso viene dal latino compensare, eguagliare nel peso e anche qui non ci siamo perché tutti i lavori della riproduzione non sono del tutto misurabili col denaro, che ha un’ascendenza di equivalenza materiale mentre i lavori della riproduzione hanno un valore sociale, che quindi va definito in relazione a ciò che la società considera valore da riprodurre.
I lavori della riproduzione tengono in vita, salvaguardano la vita, non danno profitto.
Nelle società schiaviste e classiste il valore delle persone non è identico, tanto che l’investimento economico per la scuola stessa è fortemente diversificato in ragione dell’appartenenza famigliare della prole. Attualmente continua ad esserlo, in forma implicita, perfino nella scuola dell’obbligo, con le differenze materiali delle scuole stesse.
Se vogliamo che la guerra esca davvero dalla storia, per restare solo nei libri come memoria delle orrende stranezze del passato, dobbiamo sfrattare il militare dalla lingua e dalle metafore.
La parola salario è più bella con il suo riferimento all’antica razione di sale come bene necessario, poetica e indispensabile cristallizzazione nascosta nella storia terrestre o disciolta nel mare di cui oggi abusiamo.
Retribuzione, sembra parola più pulita e adeguata: nel vocabolario Treccani è “il compenso a carattere continuativo corrisposto per la prestazione di lavoro subordinato, la cui misura deve essere, per dettato costituzionale, proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Il significato così descritto va certamente specificato e approfondito: prima di tutto si tratta di lavoratrici e lavoratori, poi il riferimento alla famiglia dev’essere alle famiglie reali e non a quello stereotipo di padre lavoratore con moglie casalinga e figli a carico che ha coperto e rimosso la complessità già al tempo in cui è stato coniato; la proporzionalità in relazione alla quantità di lavoro è complessa ma risolvibile con la traduzione in tempo di lavoro, mentre per la qualità è molto più complicato.
Nell’idea corrente del lavoro l’attività di pulizia è qualitativamente inferiore all’attività notarile, anche se si può vivere senza notai, senza lavoro di pulizia no.
La qualità del lavoro a scuola sarà definita collettivamente secondo il meglio possibile, senza differenze nell’erogazione a favore di bambini e bambine, ragazzi e ragazze, le cui attività e benessere non possono essere affidate alla discrezionalità di qualche salario aggiuntivo.
Nella scuola il tempo di lavoro sarà stabilito in 25 ore settimanali da svolgersi in cinque giorni, che possono comprendere, in determinati periodi e/o per determinate attività, tutti i giorni della settimana con un’organizzazione adeguata a garantire sempre i cinque giorni settimanali lavorativi del personale.
La retribuzione iniziale sarà pari al valore della somma, ai costi correnti del mercato, di una quota per affitto e spese di abitazione, una quota per consumi quotidiani, una quota per spese annuali e/o ordinarie, una quota per spese straordinarie, una quota per ogni figlio a carico o altra persona di famiglia che non ha reddito proprio, una quota per ogni animale domestico a carico.
La retribuzione varierà solo con scatti di anzianità ogni cinque anni, in relazione all’economia generale del paese per quanto riguarda assistenza sanitaria e assistenza domiciliare dopo il pensionamento.
La retribuzione sarà uguale per ogni ciclo scolastico e mansione.
Nel corso del lavoro il personale potrà specializzarsi anche al fine della possibilità di cambiare ruolo e mansione ogni cinque anni. Il cambiamento sarà inizialmente parziale per consentire la riqualificazione e il passaggio di mansioni che dovranno essere sempre adeguate al benessere fisico di tutti i soggetti e alle loro relazioni, dentro una circolarità virtuosa del rapporto tra acquisizione e/o approfondimento di competenze e diverse età della vita.
Ogni dieci anni sarà previsto un anno “sabbatico” da dedicare alla scuola senza la presenza di allieve e allievi, che potrà essere utilizzato anche per apprendimento, ricerca, riqualificazione, libero studio.

Pensare e agire insieme
La collettività adulta organizza le attività definendo autonomamente il tempo necessario nell’arco del proprio tempo di lavoro e fuori dal tempo strettamente scolastico, che va definito anche in relazione alle differenze climatiche e territoriali dalle autorità preposte.
La frequenza scolastica deve essere gratuita per tutte e tutti, indipendentemente da qualsiasi condizione giuridica e sociale di nascita dai tre ai diciotto anni, compresi libri e altre dotazioni tecniche, che saranno assegnate in uso libero, in comodato d’uso o presenti nella scuola per utilizzo e consultazione collettiva.
Le dotazioni personali potranno essere liberamente usate e restituite solo se riutilizzabili. La cura di tutto il materiale sarà responsabilità collettiva come parte del processo educativo.
La qualità della scuola non è costituita da protocolli e procedure ma da linee guida chiare ed elastiche definite nel processo decisionale democratico di ogni scuola, dentro cui tutte e tutti concorrono alla lettura dei bisogni e alla progettazione.
Il modello domestico è un paradigma flessibile capace di rispondere alle esigenze costanti e continuamente mutevoli della sopravvivenza umana.
I termini aziendali e mercantili sono inadeguati nella descrizione di ciò che accade a scuola e in tutti i processi della riproduzione umana che sono continuamente divergenti rispetto alle previsioni.
Bambine e bambini hanno bisogno di uguaglianza di risorse e opportunità, non di ingabbiamento nella serialità.
Nell’apprendimento non c’è profitto ma piacere, e la fatica è sperimentazione delle proprie possibilità e limiti. Le persone investono ma non sono un investimento quindi non c’è rendimento e nemmeno crediti o debiti nel processo di formazione, che non è misurabile con modelli quantitativi ma valorizzabile solo qualitativamente.
La scuola è qualcosa che si fa, giorno dopo giorno, anno dopo anno, con responsabilità e cura, come parole che guidano e orientano.
La scuola è tempo libero dalla costrizione, dalla mortificazione, dall’emarginazione, dalla segregazione, dalla coazione al consumo, dall’aspirazione al successo, dalla competizione, dalla dipendenza, dai sensi di colpa, dai ricatti affettivi.
La scuola è un tempo liberato per il piacere di conoscere, stare insieme, scoprire, imparare, scambiare saperi ed esperienze, per inventare occasioni e incontri, per ascoltare e parlare, per condividere fatiche, emozioni, silenzi, storie, per costruire luoghi solidali e culture di pace, per conoscere, pensare, trasmettere, agire le culture cancellate delle donne a cominciare dalla memoria della tante esistenze individuali dentro le storie collettive e come genere nella specie umana, per scoprire dentro la storia ampia e complessa dell’appartenenza umana la possibilità di relazioni che interroghino le costruzioni identitarie e il potere che ne deriva.
Una scuola di donne e uomini che sanno riconoscere e riconoscersi, sperimentare il limite con il valore dell’accettare e superare, consapevoli del tempo nel suo divenire.
Una scuola democratica non garantisce né prescrive sentimenti o modi di essere, se non la libertà di ricerca accompagnando la scoperta della vita nella sua dolorosa, gioiosa e perfino noiosa complessità.

Un rapido processo di cambiamento
Una società non si cambia dal vertice, se non con progetti autoritari che non sono mai socialmente convenienti per la stragrande maggioranza della popolazione, come la storia ha dimostrato.
La scuola è l’istituzione che orienta il divenire sociale e prefigura ogni cambiamento.
La sostenibilità ambientale della vita umana, la convivenza pacifica, l’equa distribuzione delle risorse, il necessario riconoscimento dei conflitti e la loro gestione in funzione del bene collettivo e condiviso, la necessità di misurarsi con l’eredità di ingiustizie secolari che non possono essere semplicemente rimosse, la liberazione dallo sfruttamento nel lavoro e la liberazione del tempo umano dal lavoro, il riconoscimento di tutto il lavoro non riducibile e la sua ripartizione in tempi e attività non mortificanti dell’esistenza umana sono le grandi questioni del presente che le prossime generazioni dovranno affrontare attraverso il sapere scientifico e gli stili di vita, il sapere specialistico e il tessuto complesso e diversificato delle relazioni umane, i mezzi di comunicazione più innovativi e la consapevolezza delle connessioni vitali sul pianeta, a partire dalla mescolanza tra differenze genetiche nella gestazione e nascita da un grembo di donna.
La possibilità di affrontarli in modi non distruttivi è affidata a quanto avranno imparato nel tempo della loro crescita fino alla maturità e molta parte di quel tempo sarà a scuola.
Tutti i contenuti potranno essere oggetto di studio, compresa l’idea gerarchica e non egualitaria delle persone, ma non tutti i contenuti potranno ispirare le pratiche scolastiche, dalle forme dell’abitare la scuola alle relazioni interpersonali dentro i ruoli svolti. Una società democratica non può essere riprodotta da una scuola che nega la democrazia, l’uguaglianza dei diritti e delle possibilità, la libertà e dignità personale: sarebbe una pericolosa contraddizione.
La scuola come tempo libero fino alla maturità si aprirà a diventare scuola permanente con e dentro ogni territorio, occasione di costante confronto e approfondimento, dimensione del vivere nello scambio culturale che segna e modifica il vivere comune, sarà quindi in costante dialogo con i vari luoghi di cultura insieme a quelli dell’economia nell’ottica della sostenibilità ambientale, della sobrietà nei consumi, della bellezza condivisa.
Non sto scrivendo un astratto libro dei desideri ma un racconto del possibile che raccoglie dalla concretezza dell’esistente e chiede giustizia e giustezza delle scelte sulle quali convenire per comune e condivisa convenienza.
Se la scuola è il luogo delle generazioni possiamo pensarla dentro una crescente capacità generativa e allo stesso modo pensarne la trasformazione pur nell’urgenza del presente, che è storica prima che occasionale.
Da dove cominciare? Per prima cosa da un generale, diffuso e immediato adeguamento dell’organico e degli ambienti insieme al ripristino delle procedure democratiche cancellate dal modello aziendale costruito da continue e parziali deformazioni nell’ultimo ventennio, i cui esiti deleteri sono visibili nella diffusione delle dipendenze di ogni tipo malamente affrontate da interventi riparatori ad opera di un privato sociale non sempre limpido.

Davvero non è possibile?
Va cominciato da subito un processo costituente che si orienti sul dettato costituzionale e consenta la ricognizione di tutte le sperimentazioni e pratiche che hanno sostenuto la scuola in questa direzione.
Questo è solo un disegno tratteggiato, che va riempito di colore e dettagli.
Ri-formare la scuola significa adeguare gli asili nido e l’università con lo stesso modello e le differenze necessarie e lo stesso sarà per il lavoro dei genitori.
Il mondo del lavoro dovrà adattarsi alla scuola sia per quanto riguarda l’attività dei genitori di bambini e bambine, sia in un interscambio virtuoso con tutto il settore della mobilità, delle infrastrutture e le filiere produttive, dall’energia all’abbigliamento, dall’agricoltura alla cultura.
Se possiamo pensarlo significa che può diventare possibile; dobbiamo ricordare che volare è stato a lungo un vago sogno e impresa derisa e che qualcuno, solo pochi anni fa, disse che i computer non avevano futuro.
Per una Scuola democratica esistono già i microchip diffusi sul territorio, se vogliamo usare una metafora tecnologica che può rappresentare, nell’immaginario giovane, quell’energia vitale e creativa che già esiste dentro ogni singola scuola e nel futuro, sconosciuto, che già oggi sta crescendo accanto a noi.
Non si tratta di inventare qualcosa che non esiste ma di favorire processi che già vivono nelle nostre esperienze, intuizioni che pratichiamo, consentire lo sviluppo di ciò che tiene in vita già oggi perfino contro direttive che la mortificano e contrastano.
Affrontare la questione della disuguaglianza partendo dalla scuola significa sostenere concretamente famiglie in cui ci sono genitori con difficoltà, dai/dalle migranti a qualunque condizione in cui ci si trovi a vivere la genitorialità, favorendo processi di integrazione, abbassando il possibile contenzioso nelle separazioni, offrendo una condizione di eguaglianza a chi, per vari motivi, non convive con genitori.
Offrire una scuola di livello qualitativo alto e generalizzato significa abbassare il ricorso a scuole private che generano sempre differenze sociali e raramente promuovono esperienze di vita laica e democratica, significa quindi abbassare il tasso di ansia genitoriale, propria anche dei ceti più benestanti, favorendo un’assunzione di responsabilità depurata da fatiche inutili, investimenti impropri e confusione tra affetto e possesso.
Liberare i genitori dall’attuale prescrizione di accudimento scolastico, quasi sempre richiesto alle madri, e mantenimento agli studi, che dipende sempre dal reddito, può favorire una genitorialità più affettiva che costrittiva anche attraverso confronto e circolazione di esperienze.
Cominciare dalla scuola significa affidare la possibilità di una società egualitaria nei diritti al lavoro delle generazioni future attraverso una transizione morbida e creativa che non cancella i conflitti occultandoli ma ne consente una gestione non distruttiva e una risoluzione attraverso il rinnovamento delle soggettività in gioco.
Mettere la scuola al centro significa riprogettare la salute collettiva sul territorio in costante relazione con la produzione di risorse dentro un sistema produttivo e di servizio orientato alla sostenibilità ambientale e urbanistica, significa attivare tutte le risorse del territorio orientandole alla vita delle generazioni in crescita, che è l’unico modo per pensare davvero al futuro, di cui non sappiamo niente, ma possiamo immaginare.
Così come la mortificazione della scuola è stata determinante per l’aumento del precariato e delle disuguaglianze sociali in poco più di vent’anni, allo stesso modo potrebbe crearsi tra scuola e società lo stesso circolo virtuoso già innescato a suo tempo dalla scuola media unica e la liberalizzazione dell’accesso all’università, processi che hanno favorito una cittadinanza consapevole con progressiva richiesta di diritti e della loro esigibilità insieme a innovazione produttiva in molti settori artigianali/industriali e crescita competente in tutti i settori.

Pensare è un gioco forse inutile ma non distruttivo
Sono consapevole che misurarsi davvero con la riforma della scuola per la Repubblica democratica non può mai essere impresa individuale, anche perché richiede uno studio attento dei dati e una ricognizione delle tante differenze dentro l’enormità dei dati; inoltre vanno considerate tutte le compatibilità legislative insieme a tutta la dimensione contrattuale relativa al personale, che non può essere penalizzato, più di quanto non sia già, in corso d’opera.
Ho scritto rispondendo a una richiesta che ha sollecitato il mio desiderio di misurarmi con qualcosa che andasse oltre la mera critica dell’esistente, sempre decisamente più facile dell’immaginare qualcosa che non c’è.
Ho scritto per evocazione e a una prima lettura può sembrare davvero il mondo dei sogni, eppure questo mondo io l’ho visto realizzato, negli anni, in mille pratiche d’insegnamento capaci di opporsi in forma creativa alle imposizioni distruttive, alla mortificazione delle competenze insegnanti, alla distorsione della realtà a favore dell’apparenza, l’ho visto riprodursi nella contaminazione delle idee, nell’invenzione didattica, in una miriade di pratiche sommerse, nell’intelligenza di mille progetti, spesso quelli non esibiti nelle passerelle delle eccellenze ma realizzati e vivi nelle vite di ragazzi e ragazze, bambini e bambine, pratiche e progetti che hanno generato quel benessere socialmente equo che è la vera ricchezza di un paese e che vediamo diffusa nel nostro.
Mi trovo a scrivere in un momento storico in cui la realtà stessa costringe a ripensare il rapporto tra tutto il personale della scuola, il numero di allievi e allieve, gli ambienti scolastici: servono più aule, più insegnanti, più personale per le pulizie, più strumenti: dai giochi per la scuola d’infanzia ai computer.
I sogni sono sempre rielaborazione della realtà e, qualche volta, prefigurazione.
La salute, e la vita, che abbiamo collettivamente scoperto come priorità, non possono essere tutelate solo con pratiche di controllo e segregazione, ma richiedono altre forme organizzative e un addestramento costante e crescente alla responsabilità individuale e di gruppo.
Mi fermo perché non voglio passare da un bel gioco al delirio, non ho nessun potere e come insegnante sono un’ex le cui competenze sono considerate inutili, perché l’attuale segregazione per età non prevede un’uscita lenta dal lavoro con possibilità di trasmissione tra generazioni di insegnanti.
Ho un bel ricordo degli anni di insegnamento e delle mie classi, ma non mi mancano le generazioni di adolescenti, per le quali ormai ho l’età di una nonna; chiacchierando talvolta con giovani insegnanti mi rendo conto che potrei essere un utile servizio di consulenza e sostegno.
Rileggendo quanto ho scritto i pensieri si allargano perciò mi fermo, consapevole di buchi e lacune e soprattutto senza nessuna risposta in merito alla possibile utilità di questo esercizio di scrittura., ma questo vale per la maggior parte delle parole.
Una delle cose più importanti che ho imparato, e ho cercato di insegnare, è la domanda sulla credibilità.
Per capire il valore di una proposta dobbiamo sempre chiederci se viene avanzata da una persona credibile e la credibilità non è certificata solo dai documenti scolastici ed è molto più di un curriculum perché riguarda l’intera vita.
Sulla vita infatti non si può imbrogliare, per questo la credibilità, l’affidabilità, di una persona, non ha un punteggio, o c’è o non c’è, non può essere dichiarata da sé ma solo verificata da altre e altri e il giudizio è, di fatto, insindacabile.
In un tempo in cui i mezzi di comunicazione ci inducono a creare la nostra immagine, e valutarla con il numero di like, la ricerca della credibilità di una persona è simile al lavoro archeologico: fatica, tecnica e capacità di interpretazione. Serve una vera passione per l’umanità, non generica ma, per quanto mi riguarda, a cominciare dall’appartenenza a un sesso, quello femminile, su cui non smetto di interrogarmi. Ma questa è un’altra storia.

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La scuola italiana cala le braghe davanti a Microsoft – Leo Essen

Stamattina presto tutte le scuole d’Italia hanno ricevuto l’avviso che le loro caselle mail istituzionali sono state migrate a office365.

Si tratta delle caselle che noi cittadini usiamo per comunicare con la scuola dei nostri figli, e che le scuole usano per comunicare tra loro e con il resto del mondo.

Da quel che si può capire sino ad oggi, la migrazione ha riguardato le sole caselle istituzionali, ovvero le caselle dei Dirigenti Scolastici, Dei Direttori amministrativi e le caselle legate al codice meccanografico della scuola.

Il ministero precisa che «I DS e i DSGA e le scuole accedono usando l’user-name completo e il suffisso @istruzione.gov.it (per esempio mario.rossi@istruzione.gov.it.). Per quanto riguarda il personale dell’amministrazione (MI e MIM) l’accesso è garantito dalle credenziali composte da user-name completo e dal suffisso @istruzione.it (per esempio mi12345@istruzione.it).

Il motivo del cambiamento non è ancora chiaro, e non si capisce se esso si inquadri nel più generale impegno del Ministero dell’Istruzione verso la Didattica a Distanza (DaD).

Nel Piano Scuola 2020/2021, nel capitolo che riguarda la Didattica digitale integrata, si dice che «Il Ministero dell’Istruzione ha avviato uno studio approfondito la progettazione (sic!) di una piattaforma finalizzata all’erogazione di contenuti didattici a distanza, sulla quale saranno fornite successivamente le opportune informazioni di dettaglio».

Office365, con i suoi annessi e connessi (Teams, OneDrive, Microsoft SharePoint, Microsoft Bookings, Word, Excel, PowerPoint, etc), è anche – e visti i tempi, soprattutto – una piattaforma di Didattica digitale integrata.

Non c’è nulla da dire contro questa piattaforma. Se noi, in Italia, non siamo capaci di mettere in piedi due server con uno strumento di E-Learning, oppure se ne siamo capaci, ma a costi esorbitanti, allora è giusto che si esternalizzi questo servizio e lo si affidi a Microsoft. Se invece queste competenze in Italia ci sono, se abbiamo i mezzi e le opportunità, è bene che questo servizio ce lo costruiamo da soli. Anche se queste competenze dovessero essere più scadenti di quelle dei concorrenti esteri, ripeto, è bene, anche in questo caso, che il servizio venga realizzato in Italia, con forza lavoro e intelligenza nostrana.

Sarà un’occasione per mettersi alla prova e crescere, per dare lavoro a impiegati e programmatori italiani, eccetera.

Sarà un’opportunità per il nostro Stato di crescere e di far crescere competenze diffuse. La gran parte delle industrie che in Italia si occupano di IT sono legate in qualche modo alla vecchia SIP, l’azienda PUBBLICA dei telefoni.

In più, Office365 non è gratis. In ogni caso, non è gratis. Non c’è niente di gratis sul mercato. Bisogna pagare un prezzo, e anche salato – si parla di 5 euro (minimo) ad account, al mese, che moltiplicati per i milioni di alunni e professori delle scuole fanno un bel malloppo.

Pensiamoci bene prima di fare una scelta del genere.

Infine, c’è una questione più grossa, che riguarda la nostra dimensione giurisdizionale.

Il sistema mail della scuola non è un sistema tra gli altri. È un cosiddetto Big Data. Per iscrivere il figlio a scuola il genitore deve obbligatoriamente registrarsi sul portale del Ministero e ottenere le credenziali («Le iscrizioni on line sono obbligatorie per le scuole statali» – istruzione.it).

Senza queste credenziali non si può iscrivere il figlio a scuola. Ergo, tutti i genitori d’Italia hanno un account del Ministero, e se non hanno un account, debbono munirsi di un account Spid – e qui (con lo Spid) le cose si complicano, invece di semplificarsi (come viene promesso).

Perché a gestire lo Spid sono ancora una pluralità di soggetti privati, dei quali non si conoscono bene le ramificazioni. In particolare, non si conosce la gestione e allocazione delle macchine fisiche, dei computer, dell’hardware.

Dove si trovano le nostre informazioni, dove sono locate?

Dopo anni di ubriacatura sui benefici della de-territorializzazione e del modello rizomatico (alla Deleuze) oggi torna di attualità la domanda sul territorio, sul perimetro giurisdizionale.

Non si tratta di questioni di lana caprina o di filosofia. Se domani, per un motivo qualsiasi, si dovesse interrompere la comunicazione tra l’Italia e questo luogo di conservazione (che non è una nuvole – cloud – non sta nell’iperuranio), come ci si connette con la scuola? come ci si connette con la pubblica amministrazione?

Si tratta di una questione maledettamente vecchia e barbosa, che ha a che fare con il territorio, con le frontiere, con le dorsali di comunicazione. Va bene che siamo in un mondo globalizzato, va bene che ormai per ogni più minuta sciocchezza dipendiamo da questo e quest’altro sub-fornitore, e che anche la Germania se vuole mettere in strada le sue macchine deve aspettare che dall’Italia gli arrivino i bulloni e i cerchioni.

Va tutto bene, non vogliamo tornare indietro, non siamo nostalgici della campagna, di montagne verdi e conigli dal muso nero. Abbiamo il senso del tempo.

Tuttavia, abbiamo sperimentato la frustrazione di non saper fare una cosa stupida come le mascherine. Non bisogna arrivare al punto di mordersi le mani quando, in questo mondo multi-polare, un piccolo staterello satellite della Germania si appropria della nostra commessa di mascherine provenienti dalla Cina.

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Scuola. Il governo si fa beffe dei docenti e aumenta lo sfruttamento di tutto il personale – Usb Scuola

Basta classi pollaio, più insegnanti, più personale. Queste parole vengono continuamente ripetute da esponenti politici di ogni schieramento, ma non trovano mai un’effettiva realizzazione. Gli emendamenti al DL Rilancio sono vaghi, pericolosi, precarizzanti, non trovano alcun fondamento nelle regole contrattuali.

L’emendamento 231.011, a firma del M5S, prevede di abbassare il numero degli alunni per classe solamente se non si può fare altrimenti, nei limiti delle risorse stanziate. Include, in sostanza, l’impossibilità di avere classi meno numerose, misura strutturale essenziale, ancor più in tempi di emergenza sanitaria, in cui il distanziamento sociale viene considerato uno dei fattori principali per cautelare se stessi e il prossimo. Considerando il normale spazio disponibile nelle aule scolastiche, 15 alunni dovrebbe essere il massimo per ogni classe anche senza pandemie in corso.

Ancora più scellerata ci appare la lettera b dell’emendamento:

attivare ulteriori posti di incarichi temporanei di personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) a tempo determinato dalla data di inizio delle lezioni o dalla presa di servizio fino al termine delle lezioni, non disponibili per le assegnazioni e le utilizzazioni di durata temporanea. In caso di sospensione dell’attività in presenza, i relativi contratti di lavoro si intendono risolti per giusta causa, senza diritto ad alcun indennizzo”.

Non possiamo non chiederci quale formula contrattuale governi un simile scempio. Personale della scuola usa e getta, il peggio del peggior precariato, l’incertezza lavorativa portata alle estreme conseguenze. I contratti per il personale a tempo determinato sono regolamentati e con scadenze normate: 31 agosto (posti vacanti), 30 giugno, termine delle attività didattiche (variabili in base al calendario regionale).

A quale statuto contrattuale si fa riferimento in questo emendamento? Da quando le lavoratrici e i lavoratori della scuola sono a cottimo o con contratti di collaborazione, revocabili in qualunque momento secondo la più bieca logica privatistica, negando qualsiasi tutela al personale precario che porta avanti il proprio lavoro da anni, consentendo lo svolgimento regolare delle lezioni nelle scuole italiane?

Un precariato, quello della scuola, costretto a fare i conti anche con un repentino cambiamento delle modalità di conferimento delle supplenze. La trasformazione delle Graduatorie di Istituto in Graduatorie Provinciali per le Supplenze (GPS) sta comportando un grande scompiglio, soprattutto per la modifica alla tabella di valutazione dei titoli e dei servizi, che comporterà la necessità, per chi è già inserito nelle graduatorie, di dichiarare nuovamente e avere rivalutato tutto quanto finora dichiarato e già validato nei passati aggiornamenti.

Considerando che il mese di luglio è già avanzato, che il sistema di Istanze On Line non è ancora idoneo ad affrontare flussi di contatti tanto elevati (e ne è dimostrazione la procedura di iscrizione ai concorsi, alla quale stanno partecipando centinaia di migliaia di insegnanti con continui blocchi del sistema), che il personale degli UST è già sottodimensionato, che non è ancora stato definito tutto il percorso normativo (l’ordinanza e la tabella di valutazione sono ancora oggetto di trattativa, naturalmente solamente con una parte delle organizzazioni sindacali) e che non sappiamo ancora quando inizieranno le iscrizioni e gli aggiornamenti, non possiamo non chiederci quando saranno pubblicate queste graduatorie e se gli insegnanti riusciranno ad essere in classe per l’inizio delle attività didattiche.

Il 14 settembre (data di avvio ufficiale della scuola) le scuole molto probabilmente saranno in sofferenza per l’assenza dei supplenti e per l’incertezza di chi ancora attenderà le assegnazioni provvisorie e le utilizzazioni, che già sappiano potranno slittare fino al 20 settembre, con enormi conseguenze economiche ed organizzative per i “precari di ruolo”.

L’USB Scuola dichiara un forte e netto no allo sfruttamento del precariato, alla privatizzazione dei contratti pubblici, alle clausole risolutive prive di qualunque tutela per le lavoratrici e i lavoratori, ai ritardi e alle dilazioni che provocano gravissime conseguenze su tutto il mondo della scuola!

Alla scuola servono più insegnanti e più personale ATA a tempo indeterminato, edifici più funzionali ed accoglienti, classi meno numerose e risorse reali e ben utilizzate per mettere in pratica quelle proposte che USB Scuola porta avanti da anni e che oggi più che mai si dimostrano essenziali per una scuola Pubblica di qualità, anche e soprattutto in situazioni di emergenza.

Il testo dell’emendamento approvato dalla V Commissione Bilancio della Camera:

Art. 231-bis.

(Misure per la ripresa dell’attività didattica in presenza)

  1. Al fine di consentire l’avvio e lo svolgimento dell’anno scolastico 2020/2021 nel rispetto delle misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, con ordinanza del Ministro dell’istruzione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sono adottate, anche in deroga alle disposizioni vigenti, misure volte ad autorizzare i dirigenti degli uffici scolastici regionali, nei limiti delle risorse di cui al comma 2, a:

   a) derogare, nei soli casi necessari al rispetto delle misure di cui all’alinea ove non sia possibile procedere diversamente, al numero minimo e massimo di alunni per classe previsto, per ciascun ordine e grado di istruzione, dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 81;

   b) attivare ulteriori posti di incarichi temporanei di personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario (ATA) a tempo determinato dalla data di inizio delle lezioni o dalla presa di servizio fino al termine delle lezioni, non disponibili per le assegnazioni e le utilizzazioni di durata temporanea. In caso di sospensione dell’attività in presenza, i relativi contratti di lavoro si intendono risolti per giusta causa, senza diritto ad alcun indennizzo;

   c) prevedere, per l’anno scolastico 2020/2021, la conclusione degli scrutini entro il termine delle lezioni.

  2. All’attuazione delle misure di cui al comma 1 del presente articolo si provvede a valere sulle risorse del fondo di cui all’articolo 235, da ripartire tra gli uffici scolastici regionali con decreto del Ministro dell’istruzione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze. L’adozione delle predette misure è subordinata al predetto riparto e nei limiti dello stesso.

  3. Il Ministero dell’istruzione, entro il 31 maggio 2021, provvede al monitoraggio delle spese di cui al comma 2 per il personale docente e ATA, comunicando le relative risultanze al Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, entro il mese successivo. Le eventuali economie sono versate all’entrata del bilancio dello Stato e sono destinate al miglioramento dei saldi di finanza pubblica.

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Ho sempre avuto nel cuore la scuola – Danilo Tosarelli

Perchè la scuola è cultura, è vita, è futuro.

Ma ogni volta che mi soffermo sui problemi della scuola…

E’ come ricevere un pugno allo stomaco.

Tra i 37 Stati OCSE, siamo all’ultimo posto.

Solo il 7,9% della nostra spesa pubblica viene destinata all’istruzione.

Meglio di noi anche Stati Uniti, Canada, Giappone e Brasile.

Nel 2017 L’Italia ha speso dall’infanzia all’università 66 miliardi di euro.

Nel 2009 ne aveva spesi 72 miliardi di euro.

Questi ultimi dati Eurostat ci dicono quanto sia poco considerata la scuola in Italia.

Invece di investire di più, si investe di meno….

Ecco il pugno allo stomaco.

Nel 2018 i nostri DIPLOMATI tra i 25 e 64 anni sono il 61,7%.

La media europea è il 78,1%.

I LAUREATI italiani sono il 19,3%.

Media europea il 32,3%.

In UE siamo i penultimi per numero di giovani laureati.

E’ il momento di parlare di una vera e propria piaga sociale.

L’ABBANDONO SCOLASTICO dei nostri ragazzi under 25.

Nel 2018 sono il 14,5% degli under 25, coloro che al massimo hanno la terza media.

Ottimisticamente la licenza di media inferiore e senza frequentare corsi o attività formative.

In Europa non siamo ultimi, ma non credo sia rincuorante.

Dopo di noi la Turchia, Islanda, Spagna e Malta.

Ciò che preoccupa è l’inversione di tendenza registrata a partire dal 2017.

Nel 2009 superava di poco il 19%. Dato pessimo.

Poi sempre meglio, con percentuali di abbandono scolastico più ridotte.

Purtroppo nel 2017 si è scesi al 14% e nel 2018 al preoccupante 14,5%.

Doveroso aggiungere che i ragazzi del Sud fanno più fatica di quelli del Nord.

In Sicilia, il tasso di abbandono scolastico è pari al 24%.

In Veneto invece eccelle in Europa con il suo 8%.

La media europea è al 10,6%.

Questi dati fotografano bene, un fenomeno che molti politici vogliono ignorare.

Stiamo assistendo sempre più al blocco del cosiddetto ascensore sociale.

La percentuale più alta di abbandoni, si registra nelle famiglie con redditi bassi.

Una fetta consistente dei nostri giovani sta perdendo la speranza.

La speranza di aspirare a migliori condizioni economiche.

Aumenta l’amara consapevolezza, che chi nasce povero morirà povero.

Senza un consistente investimento da parte dello Stato, questi numeri peggioreranno.

Si approfondiranno le storiche diseguaglianze sociali.

Ne trarranno vantaggio le varie mafie, che nella povertà e nell’ignoranza prosperano.

Voglio aggiungere un particolare che farà drizzare le orecchie anche ai più distratti.

Silvia Granziero ha scritto in data 11/6/19 su the Vision un articolo davvero sconvolgente.

Un’alta quota di abbandoni scolastici incrementerà i cosiddetti neet.

Sono quei ragazzi mediamente tra i 20 e 24 anni, che non fanno nulla.

Non studiano, non si formano, non lavorano.

Costano allo Stato per l’intera loro esistenza, una cifra tra 1 e 2 milioni di euro.

Questo elevato costo sociale è dovuto al fatto che queste persone non pagano tasse.

Hanno necessità di un welfare cui non possono contribuire, perchè risultano senza lavoro.

Inoltre richiedono una notevole spesa sanitaria.

Non vi chiedete il perchè?

Esiste un “Atlante italiano delle disuguaglianze di mortalità per livello di istruzione”.

Viene citato nell’articolo e riporta un dato che mi ha colpito.

“Le persone con un basso livello di istruzione hanno in media più problemi di salute.

A ciò si aggiunge una minor speranza di vita”.

Azzerare l’abbandono precoce porterebbe ad un incremento del PIL compreso tra 1,4 e 6,8%.

Oltre ai freddi numeri, tutto ciò migliorerebbe la qualità della vita di molti italiani.

Inoltre, darebbe un contributo importante alla crescita del Paese.

Dove studiano i nostri giovani?

Stiamo parlando di EDILIZIA SCOLASTICA.

I luoghi dove si trascorrono gli anni più belli della nostra vita.

Gli edifici scolastici in Italia sono poco più di 39mila.

Purtroppo sono vecchi, spesso inadeguati, in gran parte insicuri.

Due terzi di questi hanno almeno 40 anni, ma l’età media è di 52 anni.

Se posso dire, leggendo questi dati, un vero e proprio disastro.

I problemi delle strutture sono sia interni che esterni.

Non voglio soffermarmi sui criteri antisismici, perchè ci sarebbe da piangere.

In molti non sono ancora state abbattute le barriere architettoniche.

Gli spazi per la didattica sono spesso inadeguati ed obsoleti.

Neppure la manutenzione ordinaria e straordinaria viene garantita.

Nel 2018 la Fondazione Agnelli ne ha monitorati più di 9mila.

Per rimettere in sesto le scuole italiane, servirebbero 200 miliardi di euro.

Precisando, che non stiamo parlando di costruire nuove scuole.

Servono 200 miliardi di euro per risistemare il patrimonio scolastico esistente.

Anche perchè  e lo dico con grande tristezza ed amarezza, si prevede…

Da qui al 2030, si dovrebbero perdere più di un milione di studenti.

Voglio concludere questa fotografia sulla scuola parlando dei DOCENTI.

Mi limiterò a riportare dati incontestabili.

Arrivano dal rapporto “Education at glance 2019” curato dall’OCSE.

SCUOLE ELEMENTARI

Il salario iniziale di un nostro maestro è di 30.403 dollari.

Media OCSE 31.276 dollari.

Dopo 15 anni di esperienza

36.604 dollari per un maestro in Italia

42.078 dollari media OCSE.

A fine carriera

Da noi 44.468 dollari

Media OCSE 55.364 dollari.

SCUOLE MEDIE INFERIORI

Salario iniziale per un nostro prof è di 32.725 dollari.

Media OCSE 34.230 dollari

Dopo 15 anni di esperienza

39.840 dollari per un prof in Italia.

47.675 dollari media OCSE.

A fine carriera

Da noi 48.833 dollari

Media OCSE 57.990 dollari.

SCUOLE MEDIE SUPERIORI

Salario iniziale per un nostro prof è di 32.725 dollari.

Media OCSE 35.859 dollari.

Dopo 15 anni di esperienza

40.952 dollari per un prof in Italia

49.804 dollar media OCSE.

A fine carriera

Da noi 51.045 dollari

Media OCSE 60.677 dollari.

Per scelta e brevità non affronterò le tante questioni correlate.

Ma mi appare evidente, come queste differenze di retribuzione siano eccessive.

Recentemente, anche Papa Francesco ha sentito il dovere di prendere posizione.

“I docenti continuano ad essere mal pagati.

Nonostante continuino con coraggio e determinazione nella sfida educativa.

Sono gli artigiani delle generazioni future.”

A voi ogni libero giudizio.

A me il dolore allo stomaco aumenta…

Analfabetismo funzionale? Non lo conosco – Danilo Tosarelli

So, che l’analfabeta è colui che non sa né leggere nè scrivere.

MA CHI E’ L’ANALFABETA FUNZIONALE? (LOW SKILLED).

Simona Mineo, ricercatrice presso INAPP (ex ISFOL), lo spiega bene.

Certamente è un soggetto che sa leggere e scrivere.

E’ colui che è in grado di capire testi semplici, ma non riesce ad elaborarli.

Viene fatto l’esempio di chi non è in grado di capire un libretto di istruzioni.

Chi è incapace di comprendere adeguatamente testi o materiale informativo.

Potrebbero essere giornali, cartine stradali, orari mezzi pubblici, dizionari.

Chi ha scarse competenze nell’utilizzo di mezzi informatici.

Chi ha scarsa conoscenza di fenomeni storici, politici, sociali ed economici.

In questo caso, il low skilled fa largo uso di stereotipi e pregiudizi.

Scarso senso critico, tendenza a credere ciecamente alle informazioni ricevute.

Incapacità nel distinguere le fonti attendibili da quelle inattendibili.

Il low skilled è facile bersaglio di chi sfrutta la sua inconsapevole ignoranza.

Tutto ciò può compromettere la sua libertà di scelta, con evidenti gravi conseguenze.

TUTTO CIO’ STIMOLA IL MIO BISOGNO DI APPROFONDIMENTO.

In Italia, l’analfabetismo è pressochè stato sconfitto. Meno male.

Peccato, che la nostra percentuale di analfabetismo funzionale sia pessima.

E’ la più alta nell’Unione Europea.

Fra i 33 Paesi OCSE anticipiamo solo Cile ed Indonesia.

Secondo dati ISFOL, 1 italiano su 4 è low skilled.

Il 20% nella fascia 16-24 anni.

Il 41% nella fascia over 55.

Ovviamente, tra i soggetti più colpiti le fasce culturali più deboli.

Casalinghe, pensionati e chi fa lavori manuali e routinari.

Le professioni intellettuali, scientifiche e tecniche godono di un vantaggio.

Terranno maggiormente alla larga, il rischio di diventare low skilled.

E’ il costante allenamento mentale il vero antidoto.

Una sana manutenzione e coltivazione del proprio sapere.

Solo così si può contrastare l’analfabetismo funzionale ci cui siamo vittime.

L’UNESCO sostiene, che le capacità legate all’alfabetizzazione non sono eterne.

Senza pratica ed allenamento, diminuiscono di anno in anno.

La pigrizia mentale può trasformare un high skilled in un low skilled.

Dobbiamo assolutamente prestare attenzione a come crescere i nostri giovani.

Una recente indagine OCSE PIAAC ci conferma un dato allarmante.

Il 73% dei nostri low skilled, sono cresciuti in famiglie dove erano presenti meno di 25 libri.

Ancora una volta, il valore del libro quale portatore di cultura.

La disaffezione alla cultura ed alla istruzione, è una criticità grave nel nostro Paese.

Come lo sono l’abbandono scolastico precoce.

Come lo è la carente formazione sul lavoro.

Come lo sono il lavoro nero e precario per le giovani generazioni.

E’ questo purtroppo, il tessuto sociale con cui fare i conti.

Qualcuno direbbe, che è ancora una volta una questione di classe…

Ognuno di noi deve darsi da fare e dare il proprio contributo.

Nessun cambiamento sociale e politico può prescindere dalla consapevolezza.

Ripartiamo dalla necessità di educare e sensibilizzare i nostri figli.

Proviamo a convincerli che ci può essere un futuro migliore.

Ma tutto ciò dipende da loro e da quanto vorranno essere protagonisti.

Contrastiamo con ogni mezzo possibile questo analfabetismo funzionale.

Gli effetti deleteri che produce ho provato a spiegarli.

C’è chi specula su questa inadeguatezza, per guadagnarci soldi o voti.

Più passa il tempo e più si consolida un mondo di imbecilli.

Qualcuno ha ancora bisogno di conferme?

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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