Diciannove anni fa questi erano i giorni del G8 di Genova, dei Social Forum, delle Tute bianche, dei movimenti no-global e di slogan semplici e potenti allo stesso tempo: “Un altro mondo è possibile“. In quella possibilità stava tutta la ripresa di una immensa massa di coscienza critica che legava le lotte più differenti per nascita, crescita e continuazione in una società in cui non esisteva ancora l’Euro, ma in cui le pressioni concorrenziali tra i vari poli capitalistici si facevano,come si fanno ancora oggi, prepotentemente sentire.
Si correva verso Genova con la speranza di radunare lì una protesta multietnica, caleidoscopica, piena di colori cangianti in ogni instante, ad ogni incontro. Bastava voltare le spalle ad una via e imboccarne un’altra per incrociare i brasiliani sostenitori di Lula, i compagni greci tanto di Synaspismos quanto del più rigidamente ortodosso e stalinista KKE.
La “zona rossa” era delimitata dalla alta recinzione dal colore marrone scuro: fitte grate con dei jersey di cemento alla base, a protezione della riunione dei grandi otto della Terra: le destre al governo in Italia, un motivo in più per associare alla protesta anche un antifascismo non di maniera, ma declinato nelle tante libertà che si esprimevano nella voglia di globalizzare l’umano e lasciare fuori dal concepibile ogni presunto “valore” del sistema capitalistico.
Denaro, ricchezza, successo ed anche tanti concetti che oggi sono divenuti ricorrenti nella ricerca di un semplice posto di lavoro e che sono la rappresentazione fenomenica della tragedia del liberismo esasperato, tradotto nei peggiori stadi della precarizzazione e della parcellizzazione, dello sfruttamento becero e arbitrario, fuori da qualunque regola del diritto, al di là di qualsiasi interpretazione anche soltanto “liberale” della lotta fra le classi.
I contadini francesi e gli zapatisti messicani, comunisti e anarchici, scout e squatter, credenti e atei, agnostici e cosmoteisti, giovani e anziani, bambini, donne. C’è il mondo davvero a Genova nel luglio del 2001.
Per questo i grandi governi a protezione del capitale, lì riuniti per concordare le strategie di dominio planetario, hanno una certa paura: temono che la coscienza s’allarghi, che la criticità si diffonda sempre più, perché la sfida c’è e lì, appena davanti alle grate della zona rossa, in piena “zona gialla“, quella dove ancora si può camminare ma dove devi stare attento, perché più il tempo passa, più si avvicinano i giorni dei cortei autorizzati e più si avvicina il meccanismo ampiamente premeditato della repressione tramite due armi: la provocazione con infiltrati e con i famosi “Black block” da un alto e, dall’altro, l’intervento proprio armato tra lacrimogeni, manganelli, idranti, cariche, sassi che volano e sembrano per un attimo proiettili, estintori che provano a fermare colpi di pistola puntate sui ragazzi a piazza Alimonda, ma purtroppo non ci riescono…
Quel grande movimento anticapitalista oggi è possibile analizzarlo partendo, ovviamente, dalla contestualizzazione, da quel che era quasi venti anni fa il mondo, ma accorgendosi pure che, in fondo, non molto poi è cambiato sul fronte del capitale e nemmeno sulla sua protesi sovrastrutturale che si esprime nello stato di polizia.
Semmai è cambiato molto sull’altro fronte anche in virtù dell’evolversi della crisi planetaria sui fronti internazionali, nel contesto delle guerre, in merito alle migrazioni imponenti (ma molto lontane dall’essere quell’”invasione” paventata perniciosamente dai sovranisti), in riferimento agli scambi commerciali, sul terreno ambientalista, sui diritti civili.
La classe imprenditoriale e finanziaria riesce ad adattarsi abbastanza facilmente ai cambiamenti che essa stessa – in larga parte, del resto – determina. Meno facilmente questo avviene nel campo avverso, quello dei precari, dei disoccupati, dei lavoratori salariati che, pure, sono più di due miliardi e mezzo in questo nuovo millennio dove è sempre il movimento della macchina a gestire la volontà della forza-lavoro umana e mai il contrario.
Anzi, la macchina è uscita dalla fabbrica, è diventata “smart“, si è adattata perfettamente al volere del capitale che ha cercato nuove forme di condizionamento delle singolarità di ciascuno di noi, spezzettandoci in tanti piccolissimi egoismi e separandoci, mettendoci apertamente gli uni contro gli altri tramite l’esaltazione del nostro ego, della voglia di protagonismo che alberga un pochino in ciascuno. La vera rivoluzione (anti)culturale moderna è la penetrazione dei “social-network” nel tempo quotidiano di ognuna ed ognuno di noi.
Senza accorgercene troppo, scambiando il tutto per un moderno gioco di società, abbiamo contribuito a rendere oggettive e a massificare le specifiche condizioni di partenza, proprio le originarie intenzioni di chi ha letto nella diffusione dei “social” l’esatto opposto: non un modo per creare una nuova globalizzazione delle differenze e una valorizzazione dello “stare insieme” come avvenne a Genova nel 2001, ma la nemmeno tanto lenta, inesorabile e implacabile separazione dei corpi dalle menti e di entrambe da una condivisione degli spazi reali di vita, trasferendoci per ore davanti ai computer, ai tablet e ai telefonini paradossalmente per “rimanere sempre connessi“.
Un altro concetto-slogan principe delle giornate del World Social Forum a Genova, “Pensa globale, agisci locale“, cantato a pieni polmoni sulle note dei “Modena City Ramblers“, si è frantumato come un cristallo precipitato a terra da un terremoto sviluppista, intriso di voglia di nuovo consumismo, di alterazione delle coscienze da contenitori di individualità e di socialità al tempo stesso in vuoti pneumatici, così sgonfi e consumati dall’usura dell’egoismo da non poter sostenere più il peso anche del più leggero carrozzone della sinistra comunista residuale di questo disgraziato Paese.
Quel “pensiero globale“, invocato da David Barash con un legame indissolubile alla traduzione locale dell’idea, della più grande elaborazione ideologica della medesima e della riformulazione di un criticismo senza se e senza me nei confronti dello sfruttamento capitalistico, era il diretto antagonista del “pensiero unico” del mercato.
Per un attimo lo ha insidiato e i poteri economici dominanti si sono sentiti minacciati da un rigurgito veramente globale che in ogni continente trovava la sua traduzione concreta tanto nei movimenti spontanei che contrastavano le grandi opere, i tentativi di modificazione degli equilibri tra esseri viventi umani e natura (quindi anche con gli altri esseri viventi), quanto nella rielaborazione teorica di una alternativa di società che appariva ben visibile.
Questo perché era abbastanza facile dimostrarla nel concreto, in piccoli gesti quotidiani che potevano liberare il mondo dal “Truman Show” del sistema delle merci, dall’essere che è solo apparire, dalla grande bolla dell’inganno planetario.
La repressione poliziesca, l’intervento armato di tutto punto, la punizione sanguinolenta che ha rotto teste, ossa di ogni tipo, proferito insulti nelle caserme, sclerotizzando anche la volontà più forte e determinata a resistere all’ordine, all’imposizione, alla minaccia e alla violenza, ha agito sistematicamente, per giorni e giorni. Ha ucciso, ha sequestrato centinaia di persone, per lo più giovani: ha provato a fiaccarli prima in quello spirito di voglia di cambiamento, tentando di incurvare insieme alle schiene spezzate anche le coscienze, le più lucide convinzioni di essere dalla parte giusta.
Il tentativo è andato male, perché la rabbia, pure atomizzata e ridotta per qualche tempo al silenzio, ha lavorato alla ricostruzione dei fatti e ha mostrato nei libri bianchi e in tanti documentari e studi il piano studiato accuratamente per fermare il movimento no-global, per evitare che la pandemia anticapitalista divenisse quel virus che attaccasse un sistema che non avrebbe trovato un vaccino adeguato a vincere le ragioni dei miliardi di moderni proletari schiavizzati da poche centinaia di speculatori a guida delle maggiori concentrazioni di profitti del pianeta.
Il tentativo, dunque, andò male, ma andò anche nel verso voluto dalla repressione e disperse quel movimento, lo ricacciò indietro, gli tolse la globalità di pensiero e gli lasciò l’azione solo locale. Il che significava separare la nuova Internazionale anticapitalista dalle singole realtà nazionali, persino continentali.
Il risultato, a quasi venti anni di distanza, è sotto i nostri occhi: repressione poliziesca e seduzione internettiana mediante finte socializzazioni con scambi di rapporti inesistenti sul piano personale, protagonismo all’ennesima potenza per ogni nostra opinione, ci hanno resi tutti individualisti, tutti lontani gli uni dagli altri facendoci credere di essere invece sempre più vicini. Connessi sempre, ora per ora, minuto per minuto.
Ci hanno liberamente costretto ad utilizzare nuove forme di comunicazione che non rendono giustizia alle parole, ai suoni delle medesime, che creano fraintendimenti involontari e che creano una decontestualizzazione, un anacronismo per tutte quelle associazioni che invece sono nate e vivono per unire fisicamente coloro che hanno un obiettivo comune. Quando un partito vive solo tramite WhatsApp o tramite Skype, non è più un partito. Se le scelte degli stessi candidati al Parlamento vengono fatte prima sulle piattaforme internettiane e poi si trasferiscono sulle schede, se si tenta di sorpassare la forma del “congresso“, si va automaticamente oltre un tassello di socialità che si aggiunge a tanti altri tasselli già impilati a formare il muro tra la partecipazione diretta a forme di delega indiretta nel governo della cosa pubblica.
Non è possibile replicare le giornate di Genova, né ricercare la modalità che rimetta in piedi lo schema a rete dei Forum sociali. Ma è possibile ripensarsi partendo da queste critiche, dal “vedere“, dall’accorgersi delle tante manipolazioni cui siamo sottoposti, avendo sempre ben presente che la contraddizione capitalistica non è risolvibile. E’ questa la migliore opportunità che abbiamo sempre a disposizione per andare oltre.
MARCO SFERINI
22 luglio 2020
foto: Radio Onda d’Urto