Checchino Antonini

Sei carabinieri arrestati e una caserma messa sotto sequestro. Reati contestati spaccio, estorsione e tortura. I precedenti

Per trovare un precedente alla clamorosa operazione che ha completamente azzerato una caserma dei carabinieri a Piacenza bisogna tornare indietro di tre anni e scendere 140 km a sud, ad Aulla in Lunigiana quando venne fuori un’inchiesta su 37 carabinieri indagati per 189 capi di imputazione. Ora è in corso un processo a 27 militari. O il caso della panda nera, a Bergamo, con le condanne del 2012 condannati dei militari della stazione di Calcio e degli agenti della polizia locale di Cortenuova, per decine di raid punitivi contro migranti, compiuti dalla banda di carabinieri e vigili tra novembre 2005 e giugno 2007. E, ancora prima, l’inchiesta che vide protagonista niente meno che il capo in testa dei Ros, il generale Ganzer, persecutore di militanti no global a ridosso del G8 e poi condannato in primo grado il 12 luglio del 2010 con 13 carabinieri a 14 anni “per aver costituito un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso e ad altri reati, al fine di fare una carriera rapida”. Le condanne si riferiscono a singoli episodi commessi nel corso di alcune importanti operazioni antidroga compiute «sotto copertura» dal Ros tra il 1991 e il 1997. In secondo grado, nel 2013 la prima sezione della Corte di Appello di Milano ha confermato la condanna al generale, ormai in pensione, riducendo però la pena a 4 anni e 11 mesi di reclusione. La riduzione della pena è dovuta alla concessione delle attenuanti generiche e alla cancellazione delle aggravanti. Nel gennaio 2016 la terza sezione penale della Cassazione ha ritenuto che i fatti ascritti all’imputato fossero di lieve entità, con la conseguente applicazione dell’art. 73, comma V, del DPR 309/1990 in luogo del comma I; in ragione della minore escursione edittale, la Corte ha dichiarato non doversi procedere per essere il reato estinto per prescrizione.

Operazione Odysséus_spiegata dalla Guardia di Finanza

A Piacenza, invece, su sette militari che compongono la caserma sequestrata, sei sono stati arrestati. Si tratta della Stazione Carabinieri Levante di Piacenza, antica istituzione che ha competenza su parte del centro storico cittadino. Nell’edificio che avrebbe dovuto essere un baluardo della legalità, secondo la Procura della Repubblica, sarebbe invece accaduto di tutto: spaccio di droga, arresti falsificati, perquisizioni illecite solo per citarne alcune. E poi tanta violenza, brutale e gratuita, fino alle torture, sui pusher che non volevano collaborare. E per collaborare non si intende dare una mano alla giustizia, ma diventare parte di una rete clandestina di spaccio di droga che vedeva come attori principali, secondo le accuse, quei carabinieri. «Non c’è stato nulla in quella caserma di lecito» ha detto, senza mezze misure, il capo della Procura piacentina, Grazia Pradella, l’ex pm milanese giunta da due settimane alla guida dei magistratura inquirente della città. «Tutti gli illeciti più gravi sono stati commessi in piena epoca Covid e del lockdown, con disprezzo delle più elementari regole di cautela imposte dai decreti del Presidente del Consiglio. Mentre la città di Piacenza contava i tanti morti del coronavirus, questi carabinieri approvvigionavano di droga gli spacciatori rimasti senza stupefacente a casa delle norme anti covid. Siamo di fronte a reati impressionanti se si pensa che sono stati commessi da militari dell’Arma dei carabinieri. Si tratta di aspetti molto gravi e incomprensibili agli stessi inquirenti che hanno indagato. Una serie tale di atteggiamenti criminali che ci ha convinto a procedere anche al sequestro della caserma dei carabinieri per futuri accertamenti». L’indagine è stata relativamente breve: solo sei mesi fitti però di intercettazioni telefoniche, ambientali e pedinamenti ad ogni ora del giorno e della notte. «Un lavoro immenso, eseguito con grande professionalità» tengono a sottolineare Antonio Colonna e Matteo Centini, i due pm che hanno coordinato il lavoro degli investigatori della Guardia di Finanza e della Polizia Locale, giunto a conclusione con l’esecuzione delle misure cautelari: cinque carabinieri sono ora in carcere, un sesto, il maresciallo comandante di quella caserma, è agli arresti domiciliari. Tra i destinatari delle misure meno restrittive, anche un ufficiale, il maggiore che comanda la Compagnia dei carabinieri di Piacenza. Per lui il gip Luca Milani, che ha firmato un’ordinanza da più di trecento pagine, ha disposto l’obbligo di dimora ma anche la sospensione dal servizio. La lista dei capi di imputazione, a vario titolo, è lunga e pesante: traffico e spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione, estorsione, arresto illegale, tortura, lesioni personali, sequestro di persona, peculato, abuso d’ufficio e falsità ideologica. Un’immagine in cui si vede un uomo afrodiscendente, ammanettato a terra in mezzo al suo sangue, diffusa in conferenza stampa insieme a un breve clip audio dove si sentono le grida di una persona picchiata e, secondo i pm, anche torturata con l’acqua, sono solo un piccolo tassello per rendere l’idea dei metodi che sarebbero stati all’ordine del giorno in quelle quattro inespugnabili mura dello Stato, permettendo ai carabinieri di sentirsi inattaccabili e onnipotenti. Il comando generale dell’Arma dei carabinieri ha assicurato sostegno all’attività della Magistratura. Tutto ciò all’indomani del diciannovesimo anniversario dell’omicidio Giuliani, per alcuni una sorta di abuso perfetto: un delitto efferato e filmato da varie angolazioni – un ragazzo freddato mentre raccoglie un estintore dopo aver visto puntata contro di sé a mo’ di killer durante ore di cariche illegittime – un processo e un’inchiesta parlamentare negati e la memoria storica sottoposta a continui tentativi di manipolazione mentre infuria, intanto, un balletto di banalità pronunciate da politici bipartizan e membri del governo sul caso Piacenza, con retoriche a base di mele marce senza la minima intenzione di riflettere sugli ingredienti reali di vicende di malapolizia come questa: la subcultura fascistoide e razzista di ampi settori di forze dell’ordine, la retorica sicuritaria, il proibizionismo, il senso di impunità rivendicato da comandi e sindacati di chi opera in divisa e che ha bloccato, dopo aver sabotato il timido tentativo di democratizzazione delle forze dell’ordine, il varo di una legge efficace contro la tortura.  

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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