Michele Paris 

L’ordine di chiusura reciproco di due consolati deciso dai governi di Washington e Pechino ha suggellato un’altra settimana caratterizzata dall’inasprirsi dello scontro sino-americano. Oltre alla nuova diatriba, nei giorni scorsi è arrivata anche una durissima presa di posizione dell’amministrazione Trump che, tramite il segretario di Stato Pompeo, ha apertamente minacciato la rottura degli equilibri diplomatici degli ultimi quarant’anni con la Cina, spianando la strada a un possibile confronto di natura militare.

Nella mattinata di lunedì, le autorità cinesi hanno preso possesso del consolato USA nella città sud-occidentale di Chengdu, nella provincia di Sichuan, dopo l’ordine di evacuazione imposto venerdì ai diplomatici americani. L’iniziativa cinese, com’è noto, è la risposta a quella simile decisa martedì scorso dagli Stati Uniti. Per la Casa Bianca, la rappresentanza cinese a Houston, in Texas, era un centro di spionaggio e ne aveva ordinato perciò la chiusura con un preavviso di 72 ore.

Secondo alcune ricostruzioni in gran parte ignorate dai media ufficiali, la ragione immediata della misura estrema presa da Washington sarebbe tuttavia un’altra. Il governo USA aveva cioè rifiutato la richiesta delle autorità cinesi di sottoporre a test di positività al Coronavirus ed eventualmente a quarantena i diplomatici americani destinati a tornare a Wuhan dopo avere lasciato la Cina all’inizio dell’epidemia. I due governi stavano trattando sulle modalità del ritorno, come hanno spiegato alcuni media cinesi, ma la fermezza di Washington nel respingere i test e di Pechino nel ridurre al minimo il rischio di “casi di ritorno” hanno impedito una risoluzione dello stallo e innescato gli ordini di chiusura dei due consolati.

Dopo la chiusura della rappresentanza cinese di Houston, il dipartimento di Giustizia americano aveva anche incriminato quattro militari cinesi operanti in territorio USA e ritenuti agenti di intelligence sotto copertura. Uno di essi si era rifugiato nel consolato cinese di San Francisco, ma è stato in seguito arrestato assieme agli altri tre colleghi. Al di là delle ragioni immediate delle misure adottate da entrambi i governi nei giorni scorsi, la recente escalation indica un rapido scivolamento verso un conflitto sempre più aspro e forse nemmeno riconducibile a scenari esclusivamente da “guerra fredda”.

Il discorso pubblico di giovedì scorso del segretario di Stato Pompeo ha chiarito a sufficienza quali siano le basi della rivalità con Pechino e le intenzioni di Washington. L’ex direttore della CIA aveva annunciato il superamento del paradigma di “cieco coinvolgimento” della Cina, ovvero ha invocato un nuovo approccio alle ambizioni e all’allargamento dell’influenza cinese, basato non più sul dialogo o sul “contenimento”, bensì sulla messa in atto di politiche aggressive e unilaterali, possibilmente in stretta collaborazione con gli alleati americani.

Significativamente, Pompeo ha aperto una nuova fase del confronto con Pechino parlando dalla biblioteca intitolata all’ex presidente Nixon. Quest’ultimo, sotto la regia dell’allora consigliere per la Sicurezza Nazionale, Henry Kissinger, negli anni Settanta del secolo scorso aveva orchestrato la distensione con la Cina, principalmente in funzione anti-sovietica. Con l’intervento di qualche giorno fa, Pompeo ha dato notizia del fallimento di questo approccio, lanciando una battaglia per un “21esimo secolo di libertà” contro la prospettiva di un “secolo cinese” e una “nuova tirannia” di un regime definito “marxista-leninista”.

L’assurdità di quest’ultima affermazione è testimoniata dall’evoluzione stessa della Cina a partire proprio dall’incontro tra Nixon e Mao Zedong del 1972 e dalla ratifica delle piene relazioni diplomatiche tra i due paesi sette anni più tardi. Nei quattro decenni successivi, l’economia cinese si è infatti integrata nei circuiti del capitalismo internazionale, diventando prima un serbatoio di manodopera a basso costo per i paesi sviluppati e oggi una minaccia alla posizione dominante degli Stati Uniti. Ciò che costituisce una minaccia mortale per il capitalismo americano non sono né una Cina comunista, molto difficilmente definibile come tale, né tantomeno i metodi di un regime anti-democratico o “totalitario”, quanto l’emergere di questo paese come potenza globale.

Questa sfida agli interessi strategici USA è tanto più formidabile in quanto, da un lato, è lo specchio del declino del capitalismo americano e, dall’altro, deve essere combattuta da Washington in un panorama che vede la Cina pienamente coinvolta nel sistema economico e commerciale globale, con intrecci dall’importanza enorme anche con gli stessi Stati Uniti.

La vastità della sfida lanciata da Washington è tale da giustificare un altro degli elementi chiave del discorso di Pompeo. Il segretario di Stato USA ha sollecitato i propri alleati a fare una scelta di campo e a mettere da parte le ambiguità. Mentre finora molti paesi, compresi quelli dell’Europa occidentale, hanno cercato di trovare un punto di equilibrio tra i legami strategici e nell’ambito della “sicurezza” con l’alleato americano e quelli economico-commerciali con Pechino, l’irrigidimento delle posizioni degli Stati Uniti nei confronti della Cina renderà sempre più complicato un atteggiamento di questo genere.

Il deteriorarsi dei rapporti tra USA e Cina non è il risultato di presunte attività “maligne” di Pechino, quanto la diretta conseguenza della crisi economica, politica e sociale scatenata dall’epidemia di Coronavirus oltreoceano. La disperazione della classe dirigente americana di fronte all’accelerazione di dinamiche in atto da tempo ha portato a galla e rafforzato tendenze tutt’altro che nuove o limitate al Partito Repubblicano e alla cerchia dei “falchi” che consigliano il presidente Trump.

L’offensiva anti-cinese è infatti un affare interamente bipartisan a Washington ed era stata anzi l’amministrazione Obama a inaugurare quella “svolta” asiatica che ha messo in moto la macchina diplomatica e militare USA per cercare di ridimensionare le ambizioni di Pechino. Il candidato del Partito Democratico alla Casa Bianca, l’ex vicepresidente Joe Biden, in varie occasioni ha inoltre attaccato Trump da destra sulla Cina, lasciando intendere, se possibile, un ulteriore aumento delle pressioni su Pechino in caso di successo nelle elezioni di novembre.

Una cupa analisi dello stato delle relazioni sino-americane pubblicata nel fine settimana dal New York Times ha confermato i sentimenti sostanzialmente univoci dell’establishment degli Stati Uniti nei confronti del “dilemma” cinese. Le fonti citate dall’articolo testimoniano di questa situazione e disegnano un quadro nel quale il governo americano, “dal presidente Trump in giù”, intende fare dello “scontro, dell’intimidazione, dell’aggressione e dell’antagonismo” la cifra dei rapporti con la Cina, “indipendentemente da chi guiderà gli Stati Uniti il prossimo anno”.

Il messaggio recepito a Pechino non può essere più chiaro ed è stato d’altra parte rafforzato da una lunga serie di iniziative al limite dell’isteria prese a Washington negli ultimi mesi. L’elenco include almeno le accuse di avere tenuto inizialmente nascosta la gravità dell’epidemia di Coronavirus, la guerra contro Huawei, la denuncia, con annesse sanzioni, del trattamento della minoranza Uigura musulmana nello Xinjiang, la revoca dello status speciale di Hong Kong dopo il giro di vite contro le proteste, lo stop ai visti di ingresso negli USA per gli studenti legati alle forze armate cinesi e la recente presa di posizione ufficiale che ha dichiarato illegali tutte le rivendicazioni territoriali di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.

Se c’è una conclusione che può essere tratta dagli sviluppi più recenti, culminati nella chiusura dei consolati di Houston e Chengdu, è che ad oggi il rischio di una guerra aperta tra le prime due potenze del pianeta risulta più concreto che mai. A fugare qualsiasi dubbio in questo senso è stato, tra gli altri, il direttore dell’influente testata ufficiale in lingua inglese Global Times, Hu Xijin, il quale nel fine settimana dal suo account del social network cinese Weibo ha invitato il governo del suo paese a dotarsi in fretta di nuove armi nucleari, unico deterrente a suo dire in grado di “tenere l’arroganza americana al di sotto dei livelli di guardia”.

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/8965-usa-cina-un-passo-verso-la-guerra.html

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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