di Carla Panico
Sono passati due mesi dall’omicidio di George Floyd e dalla successiva ondata di proteste contro il razzismo che ha scosso il mondo. Ma Black lives still matter, soprattutto in Italia, paese poco abituato a fare i conti con il proprio razzismo strutturale – sempre presente – e con il proprio passato coloniale. Della continuità di questi sistemi di oppressione nella specificità della Storia d’Italia – ma anche della continuità delle lotte di chi a tali sistemi si oppone e delle prospettive di emancipazione, riparazione e nuove narrazioni – abbiamo parlato con la scrittrice Igiaba Scego
Come hai vissuto, da persona attiva da molti anni nel movimento antirazzista, questo periodo di esplosione del dibattito sul razzismo in Italia, a seguito dell’omicidio di George Floyd?
Innanzi tutto, ho bisogno di dire una cosa su cui spesso c’è un grande equivoco: io non sono un’attivista, sono una scrittrice: il mio è un attivismo culturale, che metto nei libri. Poi, ogni tanto, come tanti cittadini e cittadine nel mondo, mi sono presa l’onere di scendere in piazza sul tema dei diritti, soprattutto quelli della migrazione: le manifestazioni contro la Bossi-Fini e, soprattutto, per la legge sulla cittadinanza. Ma gli attivisti sono altre persone, che fanno un lavoro giorno per giorno sulle piazze, sulle piattaforme. Penso che tutti i cittadini siano un po’ attivisti e io, a maggior ragione, lo sono perché rifletto sulla Storia che ha portato alla costruzione del razzismo sistemico in Italia: è un attivismo diverso, non solo quello della piazza, ma anche quello del pensiero.
In questo periodo, tutti parlano di “esplosione dell’antirazzismo italiano”; io penso che l’antirazzismo italiano abbia avuto una vita gloriosa già molti anni fa – penso agli anni ’90, a persone come Pape Diaw: c’è una storia dell’antirazzismo, ma soprattutto c’è una lunga storia di attivisti afrodiscendenti, soltanto che l’Italia se ne dimentica molto spesso. Oggi, vedo più che altro una continuità, cioè che quelle lotte, che sono state fatte nel passato, adesso vedono interfacciarsi una nuova generazione, insieme alla vecchia. Ho visto tante fasi delle lotte antirazziste: la fase dei migranti che hanno preso per mano la loro vita e sono andati avanti insieme; la fase dei figli dei migranti, quella iniziale, dal 2005 in poi, in cui si sono formate e susseguite varie associazioni; e poi vedo questa fase di adesso, che è un po’ mista, ancora non completamente organizzata. Ci sono delle cose molto interessanti, che spero si sviluppino, ma ciò che mi colpisce è vedere che le tematiche antirazziste sono diventate mainstream finalmente anche in Italia, anche se in misura minore rispetto agli Usa; negli Stati Uniti c’è una lunga riflessione, che è iniziata dal periodo della lotta per i diritti civili. Penso sempre alla figura di John Lewis, che è morto pochi giorni fa e che ha fatto quasi da ponte da quel periodo glorioso a quello che oggi è Black Lives Matter. Io vedo sempre le storie in continuità: le storie non sono mai spezzate, perché ci sono persone che si succedono al loro interno. Quindi l’antirazzismo italiano oggi ha più visibilità nei media, ma, ecco, c’era anche prima!
Hai citato la legge sulla cittadinanza, che spesso è considerata un esempio vergognoso del modo in cui la politica italiana – anche a sinistra – si occupa di questioni razziali. Quali sono, secondo te, i problemi del modo in cui nella sinistra italiana ancora si parla di antirazzismo?
Partiamo dalla riforma sulla cittadinanza: un tradimento della politica italiana, tutta. Ho accompagnato personalmente “Italiani senza cittadinanza” in quei banchi del Senato, mi sono seduta ed ho ascoltato: a un certo punto, Calderoli ha detto «Noi, come Lega, stiamo facendo gli emendamenti; ma voi, tutto il resto dell’arco parlamentare, ci state permettendo questo boicottaggio». Sono rimasta agghiacciata, perché aveva ragione! La Lega ha fatto ostruzionismo, ma gli altri? Li hanno lasciati fare, non hanno mai messo il cuore dentro questa battaglia. Ed è stato terribile, perché ogni volta sembrava di essere arrivati lì vicino e poi tutto è crollato miseramente: è una battaglia che va avanti dai primi anni 2000. Siamo veramente in ritardo sul piano legale, quando, invece, la popolazione italiana è d’accordissimo; se chiedi a qualcuno per strada se un ragazzo o una ragazza nati qui sono italiani o no, tutti rispondono di sì. Il problema è la politica, che ha paura di questa legge: non soltanto la paura ipotetica di perdere voti, ma quella reale di cambiare il corpo elettorale e non avere più il controllo sui collegi. Una visione arretrata dell’Italia.
Continuo a vedere molti pericoli nel modo in cui è impostato il dibattito odierno: è come se schierasse due squadre, una di ipotetici bianchi e una di ipotetici neri. Io non mi ritrovo in questa divisione, perché l’Italia ha una immigrazione piuttosto complessa.
Qui ci sono persone migranti e conseguentemente i loro figli nati in Italia, i cui genitori vengono da almeno 190 Paesi differenti: persone di origine sudamericana o dell’est Europa; persone nere, ma di tante parti dell’Africa, da Capo Verde alla Nigeria, al Senegal, alla Somalia, all’Eritrea, all’Egitto, a tutto il Nord Africa: ci sono grandi differenze; noi amalgamiamo tutto in questo “nero”, in questo “bianco” e non guardiamo alle prerogative di ogni gruppo: questa legge sulla cittadinanza, ad esempio, non riguarda mica solo noi neri o noi afrodiscendenti, riguarda anche il figlio dell’albanese, del rumeno o del peruviano; la figlia del brasiliano o della brasiliana.
Dico una cosa controcorrente: stiamo facendo una cosa pericolosa portando in Italia un dibattito statunitense che, giustamente, si basa sulla situazione locale; quindi è incentrato sugli afroamericani che sono, prima di tutto, legati alla storia della schiavitù, lunga 400 anni di oppressione, per la quale loro hanno creato una lotta, un linguaggio, qualcosa di molto importante a cui tutti noi, che abbiamo la pelle nera nel mondo, abbiamo guardato. Però io, personalmente, mi sono resa conto che sono una cosa diversa da un’afroamericana: i termini della battaglia politica in Europa e in Italia non possono essere uguali. Se dietro il razzismo negli Usa c’è la schiavitù – e quindi 400 anni di oppressione – dietro di noi c’è, in diversa misura, il colonialismo: sicuramente il colonialismo italiano, che ha forgiato tutta una serie di stereotipi e di paletti legislativi che ci portiamo ancora dietro. Una cosa molto importante – che dovrebbe essere fatta non da me, ma dai giuristi – è proprio quella di decolonizzare – o defascistizzare – le leggi italiane, perché in questo ambito ci portiamo dietro scorie risalenti al fascismo, quindi al colonialismo fascista e a quello precedente, ottocentesco. Ad esempio, la Bossi-Fini: una legge che non vede la persona che migra in quanto persona, ma in quanto suddito coloniale. Il colonialismo forgia e noi abbiamo ancora dietro questa eredità che non abbiamo decolonizzato o destrutturato; e poi abbiamo dietro anche tutti gli altri colonialismi: perché ogni persona che migra ha una storia; chi arriva dalla Nigeria o dal Burkina Faso, o dal Messico, ha vissuto colonialismi diversi – quello francese o inglese eccetera – e quindi porta anche quell’imperialismo europeo dentro la propria storia quotidiana. Portare il dibattito Usa senza adattarlo a tutto questo può essere una cosa molto pericolosa.
A questo proposito, come pensi che possa entrare in Italia la discussione sul cosiddetto “privilegio bianco”?
A proposito di questa questione, c’è qualcosa da pensare: i privilegi in Italia ci sono: privilegi bianchi, ma soprattutto privilegi di classe e di casta. La cosa che si nota subito in Italia è che abbiamo un ascensore sociale bloccato, per tutti e tutte; le famiglie che erano ricche nel Rinascimento sono ancora le più ricche del Paese. Abbiamo un potere che si basa su una casta – non proprio nobiliare, più mercantile – ma comunque di quelle famiglie che hanno dettato legge da sempre, in qualsiasi regime, in qualsiasi politica del territorio o – quando l’Italia è diventata unita – della Nazione. C’è difficoltà a superare certe barriere che sono state messe davanti a tutti gli italiani e le italiane: un figlio di operaio può, sì, studiare, ma rimarrà precario.
Poi c’è anche un privilegio che negli USA definirebbero di race, il privilegio bianco. Ma il problema è anche: cosa significa bianco, soprattutto in Italia? Gli italiani non sono bianchi. Essere bianco è una costruzione sociale, significa appartenere a un club esclusivo dove hai tutta una serie di privilegi; per tanto tempo in questo club gli italiani non sono entrati, non sono stati lasciati entrare. Penso agli emigranti italiani, che negli Stati Uniti o in Argentina avevano un trattamento pessimo: dai linciaggi all’essere chiamati white niggers, all’essere denigrati sui giornali, tacciati di essere criminali, svogliati.
La stessa Italia è stata denigrata: ho scritto un libro sul Grand Tour, durante il quale i viaggiatori venivano in Italia, amavano il Colosseo, il museo degli Uffizi, Firenze, Venezia, ma non sopportavano gli italiani: erano sporchi, le loro donne erano prostitute. Quindi, quale bianchezza? Gli italiani sono entrati nel “club esclusivo” da pochissimo tempo, e nemmeno definitivamente, perché ogni tanto lo stereotipo torna a galla: basti pensare all’inizio del Covid, quando molti giornali internazionali, tra cui il NYT, hanno scritto «Chissà se gli italiani potranno migliorare la propria igiene». Questi italiani sono sporchi, brutti e cattivi!
Il problema centrale è questo: l’italiano medio sa di non avere questa bianchezza, di non corrispondere a questo ideale europeo che ha in testa; sente che la penisola è attaccata malamente all’Europa, quindi ha paura di tornare ad essere la vittima del razzismo sistemico; di essere, di nuovo, il white nigger di qualcuno. Allora fa di tutto per dimostrarsi bianco: per non essere oggetto di razzismo, si finisce per diventare il peggiore dei razzisti. L’Italia non ha capito qual è il suo valore: essere meticcia, creola, mediterranea; questa diversità non è arrivata oggi con l’immigrazione, ma ce la portiamo dietro da secoli, nel DNA e nel patrimonio culturale. L’Italia è un ponte tra Africa e Europa. Quando questo Paese capirà di non essere attaccato per un pelo all’Europa, quando passerà la paura di cascare giù e quando capirà di essere un ponte, allora sì che potremo parlare di un meticciato “nostro” che si incontra con un meticciato “autoctono”. Io ho sempre pensato che essere somala significasse essere mista, mescolata, perché in Somalia ci sono state tante conquiste e tanti attraversamenti; ma lo stesso vale per l’Italia: in quanto afroitaliana, sento di essere creola all’ennesima potenza. È molto problematico in questo contesto riportare pari pari il dibattito statunitense, considerando questa come una lotta tra bianchi e neri, quando verrebbe da chiedere: «Ma quali cavolo di bianchi?». E, soprattutto: che significa “i neri”? Noi abbiamo il background migratorio dei nostri genitori, per il quale essere somalo non è la stessa cosa che essere del Burkina Faso. Per questo per me il dibattito che si sta portando in Italia, molto afroamericano, con noi non c’entra proprio niente.
Impossibile evitare, oggi, il dibattito sulle statue. Ma, invece che dell’opportunità o meno di toglierle, vorrei chiederti di parlare del processo per cui le statue vengono messe, ovvero, della costruzione di una geografia urbana coloniale nel nostro Paese.
Innanzi tutto, il dibattito sulle statue in Italia si è in realtà ridotto a parlare di una statua, per giorni e in maniera ossessiva: quella che si trova in un parco a Milano, dedicata a Indro Montanelli. Non parlo dell’azione di NUDM del 2019 – una presa di parola attraverso la vernice rosa lavabile che è stata un gesto decoloniale importante e che a me è piaciuta molto; invece, il dibattito di quest’anno, avvenuto nelle pagine dei giornali mainstream è stato completamente inutile, perché non ha parlato del colonialismo; abbiamo solo visto gli allievi di Montanelli difendere il maestro, in una difesa patriarcale che parlava di altri anni – quelli del berlusconismo e dell’antiberlusconismo – e non del colonialismo. Anche parlare in maniera ossessiva della figura di Montanelli – «aveva una sposa bambina» o «no, se l’è inventata» – non coglie il punto: lui l’ha detto e, una volta che una cosa ti esce dalla bocca e tu la rivendichi, può essere vera o meno, ma rimane la rivendicazione di una violenza. Non sappiamo niente della storia di Montanelli e non importa se ha avuto rapporti con persone della sua età o del suo sesso, se questa bambina sia o no esistita. Il fatto che sia andato varie volte in tv a vantarsi di questo, è il punto della questione, il male di per sé.
Questa è una premessa che mostra la gravità del non-dibattito sulle statue.
A differenza che negli Usa, in Italia non abbiamo avuto un dibattito: questo è successo perché gli afroamericani sanno benissimo quando quelle statue sono state messe lì. Sono state erette a inizio ‘900 e, alcune, durante le lotte per i diritti civili: sono state messe lì per sfregio. Sono state messe lì per dire agli afroamericani «guardate, siete subalterni»; sono state messe lì per romanticizzare la schiavitù; sono state messe lì per glorificare degli assassini. Loro sanno benissimo che quelle statue non si portano addosso solo “il confederato” che vediamo, ma molto di più: uno sfregio a chi oggi combatte per i diritti. Quindi il discorso sulla rimozione di queste statue – che, tra parentesi, esteticamente sono orrende – è molto forte.
In Italia non è la stessa storia: prima di tutto perché l’architettura razionalista è stata forse l’ultima ad avere una visione – per quanto negativa – e quindi ha saputo anche creare palazzi indubbiamente belli, che sicuramente non si possono andare a distruggere con la ruspa: però dobbiamo essere consapevoli della funzione che hanno avuto queste tracce – in parte ottocentesche, ma soprattutto tracce fasciste. Non servivano a convincere gli africani a essere buoni sudditi, ma la loro funzione era legata alla propaganda qui, in patria. Il fascismo ha costruito determinate cose perché voleva, di fatto, manipolare gli italiani, metterli su quello che Mussolini chiamava «il piano dell’Impero». Gli italiani e le italiane sono stati colonizzati dalla propaganda coloniale e queste tracce urbanistiche mostrano questa forma di colonizzazione interna ai cervelli degli italiani: l’obiettivo era trasformarli tutti in perfetti colonizzatori e, in parte, ci sono riusciti.
Il momento della proclamazione dell’Impero, il 9 maggio 1936, quando Mussolini è andato a Piazza Venezia a fare il famoso discorso sui “colli fatali di Roma”, è stato il punto di massimo consenso del fascismo. Quelle tracce tossiche sono arrivate fino a noi perché nessuno le ha mai discusse, né disinnescate. Quello che dovremmo fare, secondo me, è pensare ad una monumentistica riparatrice; anche semplicemente di murales nelle nostre città, che ci parlino della storia del colonialismo: sono molto efficaci – come gli affreschi nelle cattedrali medievali – parlano alle persone, raccontano delle storie; sarebbe un modo semplice e anche molto economico per raccontare la storia alla gente, nella sua essenza reale – che non è la visione del colonizzatore, ma magari anche la visione del colonizzato – ma soprattutto, la ricerca di pace e giustizia per i crimini di guerra compiuti in Africa Orientale e in Libia. Servirebbe anche un luogo fisico, come a Roma sta per nascere: il museo italo-africano “Ilaria Alpi”. Le curatrici sono due donne molto molto in gamba: chi fa la curatela nei musei deve avere delle doti filosofiche, pratiche e anche diplomatiche, perché devi interfacciarti con ministeri, direttori, con varie persone che vanno convinte della necessità della propria azione decoloniale. Ho anche letto una critica a questo progetto, che ho trovato ingiusta; perché quello che vogliono fare le curatrici è costruire una comunità intorno al museo, una rete di persone afroitaliane, ma con nodi anche in Africa, cioè coi paesi che sono stati travolti dal colonialismo. L’ultima cosa, è fare in modo che questa storia entri nei programmi e nei curricula scolastici; non essere solo una paginetta sul libro di testo: si deve studiare bene a scuola, i nostri ragazzi devono conoscere questa storia.
Che cosa significa per te, da donna afrodiscendente, sentirsi italiani? Come definiresti “l’italianità”?
Oltre che afroitaliana, io sono somala; quindi probabilmente la mia risposta è diversa da quella di chi viene da altri paesi dell’Africa, perché la Somalia è stata colonizzata dagli italiani, abbiamo una storia in comune: i miei genitori parlavano italiano prima di venire qui, i loro documenti erano scritti in italiano, la scuola era italiana; mio padre, che oggi non c’è più, come tutti i “piccoli colonizzati” ha fatto il balilla; era nato nel ’24, quindi il colonialismo se l’è preso proprio in pieno. In più, ti darò una risposta diversa sull’italianità, anche perché ho una prospettiva da studiosa.
Questa, secondo me, è una domanda difficile per tutti gli italiani e le italiane, non solo per me che sono afrodiscendente e figlia di persone che hanno subito il colonialismo. Perché l’Italia è un mistero: è un paese effettivamente fatto di tante diversità, è le sue città; non so se c’è un vero spirito nazionale, anche perché è un Paese giovane, nato nel 1861, con tante differenze e tante diversità incollate un po’ male; ha dovuto imparare a essere una Nazione e purtroppo lo ha fatto, spesso, nel modo peggiore: nella retorica, nel negare che l’unificazione sia avvenuta colonizzando il Sud, con una spaccatura che c’è ancora. Per me l’italianità è, per tutti, qualcosa da scoprire. Da bambina, quando mi chiedevano «di dove sei?», era complicato rispondere «Somalia» o «Italia», anche perché li vivevo come concetti astratti – perché lo stato-nazione è un concetto astratto, basti pensare che esiste solo dal 1600. Non so davvero se dei confini ti possano identificare; io, ogni volta, rispondevo: «Sono romana». È la vera identità che sento, è la città in cui sono nata, in cui sono cresciuta, in cui vivo ancora; sono tanti anni insieme, come un lunghissimo matrimonio. In questo sono simile a tantissimi italiani, che si sentono milanesi o napoletani, beneventani o catanesi. Una volta, a Palermo, ho fatto una chiacchierata con un taxista che mi ha detto: «Io mi sento spagnolo». Ma come, in Italia? «No, io sto in Sicilia: qui ci sono stati per più anni gli spagnoli, poi sono arrivati gli italiani. Quindi, tra i due, io mi sento spagnolo e anche un po’ arabo». Insomma, è complicato essere italiani, uno davvero si sente italiano solo davanti alla nazionale di calcio: te lo posso assicurare, uno dei momenti, per me, di identità vera è stato il campionato di calcio del 1982, lì davvero ci siamo sentiti «un’unica speme», come dice l’Inno di Mameli (ride). Però, fuori dal calcio devi costruire qualcos’altro, allora io ancora non lo so com’è, essere italiani. Invece sull’identità romana non ho dubbi: Roma e la sua storia millenaria sono qualcosa che mi appartiene. Forse non ho risposto, ma questa è la mia risposta.
Hai citato la spaccatura Nord/Sud. Come pensi che si debba pensare la questione meridionale in relazione alla storia coloniale italiana e al tema del razzismo?
Secondo me la questione meridionale è una questione coloniale. Se noi non capiamo cosa è stato fatto al Meridione d’Italia, non capiamo cos’è il razzismo sistemico in Italia. È quello il punto: ogni Paese, purtroppo, ha le sue nuances di razzismo con una sua genesi; è chiaro che in Italia c’è un razzismo afrofobico, però se non capiamo la questione meridionale e il razzismo antimeridionale non capiamo l’Italia, non capiamo determinate cose di questo paese. Basti pensare a Napoli o Palermo, luoghi che dopo l’Unità d’Italia non sono mai più stati descritti come città importanti, nonostante Napoli fosse una capitale europea e, secondo me, lo sia ancora: molti dicono che ci sono solo due capitali in Europa, Parigi e Napoli, e io credo che sia vero.
Una città con una storia gloriosa è stata ridotta alla descrizione di una città fatta da delinquenti o, peggio, da parassiti: a me fa veramente senso la narrazione che si è insediata in Italia sul Meridione. Quindi è veramente importante capire che la questione meridionale è una questione coloniale, anche se poi chiaramente va affrontata anche in vari altri modi.
Che prospettive vedi per “decolonizzare” il femminismo bianco a partire dall’esperienza delle donne nere, in Italia e nel mondo?
Il femminismo storico deve lavorare sulle divisioni: che sia un movimento ancora molto bianco non è cosa solo italiana, è cosa mondiale. Non è solo molto bianco, ma spesso anche molto borghese, di classe elevata: non c’è soltanto un privilegio dato dal fatto di essere le “cosiddette bianche”, ma anche dal fatto di avere un benessere materiale. C’è tanto da lavorare sul concetto di classe nel femminismo, italiano e non. Però, ecco, io vedo ultimamente una cosa che mi preoccupa molto: una sorta di moda nel femminismo di cercare delle donne nere da “introdurre” nel movimento, però senza dar loro ascolto davvero, solo perché il nero è “cool” in questo momento: come diceva la canzone, «L’Afrique c’est chic». E quindi delle voci nere, nel femminismo come in altri ambiti, vengono cooptate o elevate ad icone, però poi non vengono veramente ascoltate; non si può avere un femminismo completamente bianco che poi si pulisce la coscienza chiamando due o tre donne nere; non funziona così, anche perché – soprattutto in Italia – non è solo una “questione nera”: non si vede la complessità dell’Italia stessa di cui abbiamo parlato prima; anche il femminismo deve essere trasversale, pluriculturale, transculturale; anche qui, non si tratta di “bianche” e “nere”: abbiamo donne musulmane, donne induiste, donne che vengono dal Sud America, figlie di donne che vengono dal Sud America, donne nate qui di tantissime origini differenti, e non è soltanto una questione di colore. Stiamo tendendo a ridurre tutto, sia nei movimenti di sinistra che nel femminismo. Improvvisamente si è “scoperto il nero”, e quindi – apriti cielo! – si fanno parlare solo gli afrodiscendenti, senza tutti gli altri e senza le differenze dentro l’afrodiscendenza. Quindi il movimento femminista, come tutti i nostri ambienti di movimenti vari, si deve aprire ad una soggettività plurale, altrimenti continuiamo a seguire le mode: oggi le afrodiscententi, dopodomani i cinodiscententi, dopodomani ancora le persone che vengono dalla Groenlandia, così non va. Serve un pluralismo reale che io ancora non vedo: molte donne sono ancora escluse; penso a quanto, ancora, siano escluse le donne musulmane. Io sono musulmana e il mondo musulmano è di una varietà assoluta, siamo musulmani tutti diversi.
Quale pensi possa essere il ruolo della letteratura come spazio di emersione di nuove voci e narrative che normalmente non trovano spazio nella narrazione ufficiale della Nazione?
Mi fa piacere che tu abbia finalmente citato questo aspetto, perché molto spesso a noi scrittori e scrittrici neri vengono fatte solo domande politiche, mentre io difendo questa mia identità di artista: per spiegare determinate cose uso il linguaggio dell’arte, che è un linguaggio politico, ma nel senso che è la mia via alla politica, ed è una cosa a cui tengo.
La letteratura per me è uno strumento di vita, mi ha aiutato a sopravvivere, a capire il mondo, a capire me stessa. È uno strumento sicuramente politico, ma anche di conoscenza dell’altro: alla fine noi pensiamo che il mondo sia diviso in blocchi unici, bianco e nero; il “nero”, per esempio, nel mondo ma soprattutto in Italia è un concetto molto complicato: quale nero? Chi sono i neri? C’è una grande differenza tra chi è nato qui e chi è nato in Africa e poi l’Africa è un continente fatto di 54 paesi. Allora, la letteratura mi aiuta a non dare niente per scontato. Spesso si usa la formula “dare voce a chi non ha voce”: per me è qualcosa di più, è capire tutte le voci che ci sono, capire quanto siamo complessi. La letteratura non è l’io che, dall’alto, decide di dare voce – un’immagine orribile – ma è lo strumento di conoscenza del nostro mondo, di quello che ci sta intorno; in un saggio è molto più difficile raccontare la complessità di un personaggio, il suo oscillare da una posizione all’altra. Ti faccio un esempio: nel mio ultimo libro, La linea del colore (Bompiani 2020) c’è una personaggia, Betsabea Mckenzie: una donna bianca americana che è la tipica white savior; vuole salvare i neri, essere l’abolizionista, quella buona, vuole che il mondo e la società le riconoscano questa sua bontà intrinseca. Ma non è una donna buona: è una che, attraverso il suo denaro, usa l’altro per brillare; aiuta l’altro non perché si interessa veramente all’altro, ma perché le interessa brillare in società tramite questa sua magnanimità. Quindi è un personaggio che all’inizio sembra molto negativo. Poi, indagando, si scopre che è una vedova, che ha dovuto fare un matrimonio che non le piaceva, che la vedovanza l’ha liberata di tutta una serie di impegni, di delusioni e di umiliazioni e che con la vedovanza riesce a diventare una donna indipendente. Però ha un peso: quello di non essere una buona madre, per cui comincia a bere e ad attraversare tutta una serie di cose. Io non ho voluto farne una personaggia cattiva, solo la salvatrice bianca che sfrutta. Volevo dare una complessità a una donna che ha tante sofferenze ma che fa anche tante cazzate tutto insieme.
La letteratura mi aiuta a questo: a non giudicare le persone, a non puntare il dito, ma a capire come mai succedono certe cose, come mai una persona fa quello che fa. È uno strumento quasi terapeutico, perché ho capito me stessa scrivendo, ma ho capito anche gli altri.
Immagine di copertina di Ilaria Turini