Jed è innamorato di Mary, che però sposa il suo amico ed ex-commilitone Johnny. Nonostante la nascita di una bambina, il matrimonio presto entra in crisi, per colpa dell’egoismo del marito, che non vuole condividere con la moglie alcune decisioni che pesano sulla vita di tutta la famiglia. Dopo il divorzio, Mary si fidanza con Jed, ma quando stanno per sposarsi l’uomo capisce che la donna lo ha fatto solo per ripicca e che lei e Johnny si amano ancora. Quindi si tira indietro e, grazie ai suoi buoni consigli, Johnny capisce i suoi errori e tutto finisce bene.
La trama non è niente di speciale – devono averlo pensato anche i dirigenti della Paramount – ma d’altra parte Irving Berlin è bravissimo a scrivere a canzoni, non soggetti cinematografici. Però un film così può funzionare, perché Irving vuole farne un musical: Jed è un ballerino, Mary una cantante e Johnny il proprietario di un night-club, e così le occasioni per i numeri musicali si trovano facilmente. Basta infarcire la trama con le canzoni dello sterminato repertorio di Berlin, farne cantare qualcuna a Bing Crosby, metterci un’attrice dalle belle gambe e il gioco è fatto.
La Paramount decide che il regista sarà Mark Sandrich, uno specialista del genere, che ha diretto i migliori film di Fred Astaire e Ginger Rogers negli anni Trenta e ha già lavorato con Crosby in Holiday Inn, un successo del 1942, per cui Irving Berlin ha scritto sia le canzoni – tra cui la celeberrima White Christmas – che il soggetto: è la storia di due amici che si innamorano della stessa donna. Come ho detto, la fantasia di Irving per le trame è piuttosto scarsa. Ma Sandrich muore d’infarto nel marzo del ’45 e lo studio chiama a sostituirlo Stuart Heisler, un altro bravo artigiano di Hollywood.
A Stuart non piace la protagonista scelta da Sandrich, la quasi esordiente Joan Caufield. Certo è bella, recita abbastanza bene, ne ha dato prova a Broadway, ma non sa cantare né ballare. Però Joan è sotto contratto con la Paramount, è una delle giovani attrici su cui stanno puntando e poi in quei mesi è anche fidanzata con Crosby. Per i numeri musicali viene chiamata un’altra attrice dello studio, Olga San Juan, nata a New York da genitori portoricani, una bellezza esotica e molto vivace.
Rimane da assegnare il ruolo di Jed, il ballerino. La scelta cade su Paul Draper. Paul è il rampollo di una ricca e aristocratica famiglia di New York, ma è anche la “pecora nera” della famiglia, scappa di casa, poi, una volta ritornato, abbandona gli studi di ingegneria, perché la sua passione è la danza. Ha un talento naturale. Ha preso solo sei lezioni di tip tap, eppure comincia a esibirsi nei teatri di Londra proprio con questo ballo. Ha uno stile personale che lo caratterizza, diverso da quelli allora in voga, sia quello dei neri che quello di Astaire, perché Paul combina in maniera originale il tip tap alla danza classica. Diventa famoso grazie a Sonata for Tap Dancer, dove si esibisce senza accompagnamento musicale. Draper è bravissimo a ballare, è bello e potrebbe far innamorare le spettatrici, ma non è proprio capace di recitare e così viene scartato. Naturalmente la sua carriera continuerà, ballerà nei più grandi teatri degli Stati Uniti e dell’Europa, sarà anche un buon coreografo e un ottimo insegnante di danza, anche se alla fine degli anni Quaranta viene accusato di essere un membro del Partito comunista e per questo sarà costretto a lasciare il suo paese, per un esilio in Svizzera.
Ma torniamo a Blue Skies, come si intitola il film che, senza uno dei tre protagonisti, nei primi mesi del ’46 è ancora in alto mare. Bing Crosby chiede alla Paramount che venga scritturato Fred Astaire, che non è sotto contratto con nessuno degli studios: è uno dei pochissimi a Hollywood che se lo può permettere. In questo modo si ricostituirebbe la coppia di Holiday Inn, con Bing che canta e Fred che danza.
Fred Astaire alla fine del 1945 ha deciso di ritirarsi. È sulla scena da quarant’anni, e la musica, la “sua” musica, sta cambiando, perché il mondo sta cambiando. Dopo gli incredibili successi con Ginger Rogers degli anni della RKO, non è più riuscito a fare grandi film capaci di dargli quella stessa popolarità. Ne ha interpretati due con Rita Hayworth, ma non è nata una nuova coppia come i produttori speravano, e anche con una bravissima ballerina come Eleanor Powell non è scattata quella chimica che ha fatto di Ginger e Fred la coppia d’oro degli anni Trenta. A neppure cinquant’anni Fred si sente vecchio, un monumento della storia del cinema, di cui il cinema si vuole sbarazzare. E poi Hollywood gli propone sempre secondi ruoli, non più quelli da protagonista. Meglio finirla lì e avviare una serie di scuole di ballo, un progetto a cui tiene molto. Accetta comunque di partecipare a Blue Skies, anche se alla fine la bella sceglie Crosby, anche se come rimpiazzo di un altro ballerino, perché quello sarà presentato come l’ultimo film di Fred Astaire. E per quel film vuole preparare un grande addio. Tornerà a cantare Puttin’ on the Ritz e inventerà un nuovo numero di ballo, che il suo pubblico dovrà ricordare. Probabilmente non avete visto Blue Skies – e francamente il film non è nulla di eccezionale – ma certamente avete visto quei pochi minuti dell’esibizione di Fred Astaire, perché nell’immaginario collettivo quell’assolo in smoking e cappello a cilindro in cui danza come solo lui sa fare, con il suo bastone da passeggio che diventa la bacchetta magica di questo Prospero che balla, sarà per sempre il nostro ricordo più bello di Fred Astaire.
Facciamo un passo indietro, perché Irving Berlin ha scritto questa canzone nella seconda metà dei “ruggenti” anni Venti. È il periodo in cui compone a getto continuo per gli spettacoli di Ziegfeld, per le riviste e il vaudeville. Ha già scritto Alexander’s Ragtime Band e alcuni altri successi commerciali, ma non è ancora uno dei grandi autori, con i fratelli Gershwin e Cole Porter, del Great American Songbook. Puttin’ on the Ritz viene registrata come canzone inedita il 24 agosto 1927. Il brano piace molto a Harry Richman, uno dei più acclamati artisti di quegli anni: suona il piano – e in questa veste ha spesso accompagnato Mae West – canta, fa il comico. Oltre ad apparire regolarmente negli spettacoli di Ziegfeld, possiede un grande e famoso night-club con duecentoquaranta posti a sedere, vicino alla Carnegie Hall.
Nel 1930 Richman arriva a Hollywood e la United Artists lo fa debuttare da protagonista in un film diretto da Edward Sloman intitolato proprio Puttin’ on the Ritz. È uno dei musical che Hollywood riesce a produrre prima dell’introduzione del Codice Hays e quindi gode di una libertà creativa che l’industria cinematografica statunitense non conoscerà nei decenni successivi. Dal momento che di quel film abbiamo solo una versione censurata negli anni Quaranta, tagliata di ben venti minuti, non possiamo vedere la scena in cui il brano del titolo viene eseguito da Richman e da un coro in cui ci sono insieme bianchi e neri, una cosa che non sarebbe stata in seguito tollerata. E infatti la canzone parla di quegli abitanti di Harlem che, pur essendo poveri, sfilano con i loro abiti sgargianti e alla moda – proprio come se dovessero andare al Ritz – lungo Lenox Avenue, ancora oggi la strada principale di quel quartiere, anche se è stata ribattezzata Malcolm X Boulevard. Lenox Avenue è la strada del jazz, dei grandi club e dei piccoli locali dove pulsa la vita notturna dei neri di New York, la strada della cosiddetta Harlem Renaissance, dell’orgoglio di quei musicisti che, nonostante il razzismo e le politiche di segregazione, stanno creando la nuova musica americana, anzi l’unica musica autenticamente americana. Madonna nel 1994 gira proprio lì il video di Secret, anche per collegarsi a tutta questa storia.
Il film non va molto bene e la carriera di Richman prosegue in maniera stentata perché non sa recitare davanti alla macchina da presa e perché ha davvero un brutto carattere. E in breve la sua stella sarà destinata a tramontare: morirà a Hollywood in miseria, dopo aver sperperato le ricchezze dei suoi anni ruggenti. Compresi i diritti per Puttin’ on the Ritz, che diventa subito un grande successo.
E infatti tutte le etichette discografiche ne hanno una loro versione. La fanno cantare anche a Clark Gable nel film Idiot’s Delight: non è un gran ballerino, ma è abbastanza sfacciato per reggere il brano. Nel maggio del 1930 la Columbia fa incidere la canzone a Fred Astaire. Sono gli anni in cui quel giovane stempiato e dalle orecchie leggermente a sventola è ancora soltanto una stella di Broadway, insieme a sua sorella Adele. I produttori di Hollywood dicono che non sono adatti al cinema, che non basta saper sbattere i piedi a tempo.
Quando Fred decide che quello sarà il suo addio, gli sembra naturale scegliere una canzone che è stata così importante per la sua carriera. Berlin deve fare qualche piccolo aggiustamento al testo, perché a questo punto quel riferimento a Lenox Avenue appare incongruo. Sono bianchi quelli che adesso si pavoneggiano, andando su e giù per Park Avenue, pensando di essere eleganti come Gary Cooper e ricchi come Rockefeller.
Nel ’46 Fred ci mette cinque settimane a preparare quell’assolo come vuole lui. È un perfezionista, prepara lui stesso le sue coreografie, ma da molti anni si occupa anche di come dovrà essere inquadrato, di fatto cura tutta la regia cinematografica dei suoi numeri di ballo, perché sa come renderli perfetti. E Puttin’ on the Ritz è perfetto. Si alza il sipario e Fred è lì, elegantissimo, canta e balla e il bastone lo segue con incredibili piroette, poi scosta una tenda sul fondo della stanza in cui ha eseguito l’assolo e prima compaiono due specchi e poi altri nove Fred Astaire, un trucco ottenuto filmando due versioni separate del numero, ripetendole quattro volte e intrecciandole.
Non sarà davvero il suo addio alle scene. Hollywood capisce di avere ancora bisogno di lui. E Fred Astaire sa che può ancora farci sognare, perché la “sua” musica, per quanto il mondo possa cambiare, è immortale. Nel 1948 Gene Kelly si infortuna e Fred lo sostituisce in Easter Parade con Judy Garland e l’anno successivo ritrova Ginger Rogers per il loro ultimo film insieme, The Barkleys of Broadway. Fred è tornato ed è sempre il più grande. Nel ’53, diretto da Vincente Minelli gira quello che per me è uno dei suoi film migliori, The Bandwagon, in Italia Spettacolo di varietà. E Fred racconta la sua storia: un ballerino che pensa che la sua carriera sia finita – in un’asta di cimeli il suo glorioso cappello a cilindro viene venduto a una cifra ridicola – tenta di fare uno spettacolo diverso dal suo genere, una sorta di rivisitazione del Faust, ma poi, quando riprende in mano lo show, fa in maniera perfetta quello che ha sempre fatto. Convincendo anche la sua compagna sul palcoscenico, la ballerina classica interpretata da una incredibilmente sensuale Cyd Charisse, a seguirlo in quel progetto, ovviamente innamorandosi di lui. Ed è un incredibile successo. È proprio così: quando Fred Astaire fa Fred Astaire non c’è nessuno che possa eguagliarlo.
E Puttin’ on the Ritz? Continua a essere un successo, che tutti, proprio tutti, hanno voluto cantare. Non me ne vorrà Fred, se accanto alla sua memorabile versione, ne metto solo un’altra, apparsa in un film del 1974. Quando il dottor Frederick von Frankenstein riesce a convincere la Creatura a esibirsi di fronte a una platea di scienziati e alle loro signore, indossano lo smoking, il cappello a cilindro, prendono un bastone da passeggio e… il resto è storia.
se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…