In seguito alle elezioni presidenziali del 9 agosto, e in seguito alla “rielezione” di Aleksander Lukashenko, in Bielorussia è in atto una sollevazione popolare. La reazione brutale da parte degli apparati repressivi ha provocato terrore per le strade così come una ferma opposizione da parte della popolazione
Gli scontri di piazza che hanno avuto luogo per le prime tre notti successive alle elezioni – durante le quali migliaia di manifestanti ma anche semplici passanti sono stati arrestati, picchiati e torturati – sono stati poi seguiti da gesti di solidarietà di massa da parte della società civile senza precedenti, scioperi nelle aziende principali, cortei di personale medico e di altri lavoratori, dimissioni di ufficiali governativi. La posta in palio non è solo il futuro di una piccola nazione est-europea, ma il destino dell’intero blocco post-sovietico, in cui le popolazioni confinante e i loro governi stanno osservando attentamente ciò che avviene per trarne lezioni in vista del futuro.
Aleksander Lukashenko è stato al potere come presidente della Bielorussia dal 1994. Nel corso degli ultimi 26 anni, ogni elezioni presidenziali ha avuto luogo seguendo una sorta di “schema familiare”: falsificazione dei risultati ufficiali, seguita innanzitutto da una chiamata dei leader dell’opposizione alle proteste di piazza nel centro della capitale Minsk e, infine, da una repressione brutale delle proteste da parte della polizia lungo che si protraeva usualmente per diversi giorni; come si trattasse di un “rituale consumato”, le proteste si sarebbero poi affievolite e spente, per rimanere dormienti per anni, sino alla successiva tornata elettorale. Stavolta, però, le cose sono diverse.
L’attuale sollevazione popolare non ha né un unico leader né un’unica strategia. Il che costituisce una condizione quasi paradossale, se si pensa che per la prima volta dal 1994 una candidata dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaya, è riuscita a guadagnarsi un’ampia fetta di consenso. Ciononostante, la conta ufficiale dei voti ha rispecchiato l’andamento degli anni precedenti, con Lukashenko che ha ottenuto un risultato fra l’80 e il 90%. Ma, se nel caso delle elezioni degli anni passati Lukashenko poteva effettivamente contare su del sostegno reale nonostante i risultati fossero probabilmente truccati, oggi non sembra invece essere questo il caso, come viene evidenziato dalle mobilitazioni popolari e dagli exit-poll non ufficiali.
Tikhanovskaya, che non è una politica di professione, ha portato avanti un programma costituito da una sola richiesta: libere e giuste elezioni. La sua stessa candidatura rappresenta il risultato di numerose contingenze. I tre principali candidati d’opposizione, tutti uomini, sono stati o incarcerati oppure hanno lasciato il paese prima delle elezioni; la loro candidatura è stata peraltro rifiutata dal comitato elettorale.
Al contrario, due delle loro mogli, Veranika Tsepkalo e Thikanovskaya, così come Maria Kolesnikova, la direttrice della campagna elettorale di colui che rappresenta probabilmente il candidato non registrato maggiormente popolare (Viktar Babaryka), si sono mese alla testa della campagna dell’opposizione. Le tre donne sono riuscite a dar vita a una campagna innovativa e coinvolgente, radunando le folle più grandi dagli inizi degli anni ’90, non solo nelle città principali ma anche nei centri minori.
La candidatura di Tikhanovskaya è stata accettata dalle autorità attraverso un gesto puramente formale, volto a dare una parvenza di carattere democratico alle elezioni, dal momento che non sembrava una candidata “seria” o una minaccia effettiva per il potere di Lukashenko. Contro ogni aspettativa, e nonostante al momento le elezioni vadano considerate illegittime, Tikhanovskaya potrebbe essere verosimilmente vista come il secondo presidente della Bielorussia eletto democraticamente, e il primo presidente donna.
In seguito alla giornata di votazioni, né la candidate né i rappresentanti della sua campagna hanno fatto un appello per chiedere di protestare o scioperare. Al contrario, Tikhanovskaya è stata trasportata in Lituania, dove è rimasta perlopiù silente mentre crescevano forza e intensità delle proteste. Dopo otto giorni di resistenza, ha espresso la volontà di assumere un ruolo di guida nell’eventuale trasferimento di potere e nell’organizzazione di nuove elezioni.
Al di là che la sovranità nazionale del paese – che si trova sotto costante minaccia della Russia – rimanga una questione urgente e aperta, la leadership dell’opposizione che si era creata negli scorsi anni come lascito delle proteste nazionaliste dell’ultima fase degli anni ’80 e dei primi momenti dei ’90, leadership che ha egemonizzato la resistenza nel paese, non ha alcun peso nel momento attuale. Come conseguenza, quelle parti di popolazione che fino a questo momento erano “apolitiche” ma avverse al nazionalismo si sono unite alle proteste.
Inoltre, La mancanza di guide e capi delle proteste attuali non si è rivelata tanto un impedimento alla resistenza, quanto la sua condizione di possibilità: la decentralizzazione delle proteste su più fronti e il fatto che la sollevazione venga portata avanti attraverso diverse ed eterogenee forme di rivendicazione ci dice che la cosiddetta “società civile” – un termine ampiamente utilizzato in Bielorussia per indicare reti non ufficiali di organizzazioni autogestite e iniziative di mutuo aiuto dal basso – costituisca un fattore decisivo del conflitto in atto. Il tipo di politiche che si concretizzeranno nel paese dipenderà da questo attore emergente.
L’incompetenza del governo in carica e la sfiducia popolare nelle autorità vanno di pari passo con la crescita della solidarietà fra la popolazione. È noto come Lukashenko abbia minimizzato il pericolo della Covid-19 e si sia servito di statistiche fabbricate ad arte per sostenere questa tesi.
La risposta alla pandemia in Bielorussia è stata guidata da una mobilitazione di massa di diverse comunità e la società civile si è auto-organizzata per fornire dispositivi di protezione individuale e strumentazione al personale medico sotto pressione. In questi giorni, peraltro, medici e infermieri sono impegnati giorno e notte negli ospedali, dove si riversano persone ferite durante le proteste di piazza o che hanno magari subito le torture della polizia.
Le nuove forme di organizzazione della società civile si sono manifestate anche durante la campagna elettorale: per esempio, l’iniziativa “Persone Oneste” ha preparato un numero significativo di osservatori indipendenti. Benché siano stati estromessi dalle sedi di voto, sono riusciti a fornire importanti prove dei brogli. Ma la cosa più importante è che questa e altre reti autogestite di cittadini sono rimaste attive e hanno collaborato anche per ulteriori azioni politiche. La forza di organizzazione della società civile, sprovvista di una guida centralizzata, si renderà necessaria non solo quando i lavoratori in sciopero perderanno il lavoro o quando le famiglie degli arrestati avranno bisogno di assistenza, ma anche in un qualsiasi processo per un trasferimento pacifico del potere. Come durante l’emergenza pandemica, la solidarietà della società civile e la sua efficacia sarà decisiva per l’eventuale successo della sollevazione in corso.
La strategia di decentralizzazione della resistenza si è concretizzata anche in una decentralizzazione più propriamente geografica delle proteste. A Minsk, dove il centro cittadino era praticamente sigillato dalle “Omon” – le unità speciali di polizia anti-sommossa – le persone si sono concentrate nei luoghi più popolari del proprio quartiere.
Inoltre, dal momento che il governo ha interrotto l’accesso a internet in tutta la nazione per quasi tre giorni consecutivi in seguito alle elezioni, ogni azione di massa coordinata era davvero difficile da ottenere. Ciononostante, praticamente ogni centro medio-grande ha visto raduni popolari, a cui si sono uniti molti dei centri più piccoli e dei villaggi. Come risposta a questa strategia innovativa, Omon ha allora dato il via a un’ondata di terrore e repressione senza precedenti.
In tutto il paese la polizia anti-sommossa si è messa ad accerchiare e fermare le persone anche a livello individuale, colpendo spesso dei semplici passanti, per picchiarli pubblicamente e per poi trasportarli in prigione, da dove arrivano notizie di torture e condizione inumane.
Le tre notti successive alle elezioni hanno visto grandi scontri di piazza a Minsk: non solo nel centro della città, ma in diversi quartieri che molto spesso si trovavano ai limiti esterni della capitale. Per la prima volta, richiamando alla mente tattiche viste a Minneapolis, New York e Parigi, la polizia ha utilizzato granate stordenti, proiettili di gomma e lacrimogeni, mentre le autorità incolpavano anarchici, “istigatori” e agenti stranieri. Con la differenza però che gli Omon erano preaparati non solo a scatenare una vera e propria guerra, ma anche a commettere veri e propri crimini di guerra, dal momento che sono stati addestrati a mettere in atto su larga scala torture e abusi per rompere il morale della popolazione.
La strategia dei manifestanti: fiaccare la polizia continuando a scappare alla sua violenza per poi radunarsi nuovamente nel momento in cui le condizioni tornavano sicure; la strategia dell’apparato repressivo: instillare quanta più paura e quanto più terrore possibile. Mentre la polizia aveva dunque ben presente come attaccare il “centro” della rivolta e le sue linee più deboli, i manifestanti, inizialmente per caso e poi con sempre maggiore consapevolezza strategica, hanno moltiplicato i punti di resistenza e pressione.
A tutto ciò, sono seguite varie altre forme di resistenza. Le persone che erano spaventate o non avevano volontà di unirsi alle manifestazioni di strada hanno gridato dalle finestre della propria abitazione, accendendo le proprie luci a intermittenza e sparando a tutto volume canzoni di protesta; per tutta risposta, la polizia ha sparato contro e finestre degli abitanti. Le città si sono riempite del suono costante dei clacson delle macchine, come gesto per esprimere protesta e solidarietà; ecco che la polizia ha allora tentato di danneggiare le automobili da cui proveniva il suono dei clacson. Più di 7000 persone sono state arrestate. Si contano ufficialmente due decessi. Dagli ospedali arrivano continui resoconti di feriti. Le prigioni si sono riempite fino al sovraffollamento; le persone liberate per il sovraffollamento hanno denunciato torture.
Il risultato? Un’ulteriore ondata di indignazione popolare e azioni di solidarietà. Per tutto il paese, le donne hanno formato catene umane per richiedere la scarcerazione dei propri cari ed elezioni giuste.
In una manifestazione di solidarietà senza precedenti, le persone hanno aperto le proprie case per dar riparo ai manifestanti in fuga dalla polizia; durante le notti di scontro per la città, le persone hanno lasciato nei propri palazzi attrezzatura medica per i feriti che si sarebbero nascosti lì; Il personale sanitario ha messo in atto dei cortei simbolici per esprimere contrarietà ai feriti che continuavano ad arrivare presso le strutture ospedaliere e allo scarso rispetto mostrato dalle autorità nei loro confronti. Alcuni conduttori televisivi si sono dimessi. È stato realizzato un memoriale improvvisato per il manifestante morto.
Il 13 agosto ha probabilmente rappresentato un punto di svolta. I lavoratori di numerose fabbriche sono entrati in sciopero e hanno iniziato a marciare in vari cortei. Operai di fabbriche automobilistiche, stabilimenti chimici, raffinerie, scavatori, impiegati nella costruzione e manutenzione delle strade fra gli altri si sono uniti agli scioperi.
Nei giorni successivi, hanno fatto seguito decine fra le maggiori fabbriche di tutta la Bielorussia, mentre gli operai erano in testa alle marce popolari delle proprie città. I piccoli centri di Zhodzina e Salihorst, guidati dai lavoratori in sciopero, hanno visto l’emergere di forme di democrazia diretta: gli ufficiali cittadini venivano portati in giudizio sulla pubblica piazza affinché venissero resi responsabili e, contestando i risultati delle votazioni ufficiali, lavoratori e cittadini hanno nuovamente votate per le strade della città.
Venerdì 14 agosto, gli operai in sciopero della “Minsk Tractor Works” hanno guidato un corteo verso il centro della capitale, riunendo un’enorme folla di sostenitori sotto la richiesta di elezioni giuste e di immediata scarcerazione dei prigionieri. La polizia si è ritirata da strade e piazze in tutto il paese.
Sabato 15 agosto si è assistito a una storica mobilitazione di massa, culminata in una manifestazione pacifica di centinaia di migliaia di persone a Minsk: di gran lunga la protesta più partecipata nella storia della Bielorussia. Lunedì 17 agosto la maggior parte delle principali fabbriche del paese si sono unite allo sciopero generale. Sotto una pressione di questo tipo, le autorità hanno iniziato a liberare alcuni prigionieri politici, nonostante centinaia si trovino ancora in carcere e decine sono dispersi. Sotto la spinta dell’indignazione popolare la polizia si è ritirata e, almeno temporaneamente, si è vista costretta a sospendere la tattica del terrore repressivo. È evidente a tutti che la fine della brutalità poliziesca rappresenti il risultato di una molteplicità di azioni di resistenza popolare, più che la conseguenza di ordini imposti “dall’alto”. Il paese sta assistendo a una trasformazione di massi dei propri cittadini da individui privati a soggetti politici.
All’unità delle azioni di resistenza, tuttavia, non corrisponde una unità di visione politica. Infatti, al di là della richiesta di rimozione delle autorità al potere e della immediata fine del terrore poliziesco, nessun programma politico egemonico si sta facendo strada fra i manifestanti. Questa mancanza di una visione politica unitaria rappresenta al tempo stesso un’immensa opportunità e il più grande pericolo per il futuro del paese e dello spazio post-sovietico.
Potrebbe, per esempio, spianare la strada per le ingerenze esterne (che vengano dall’Unione Europea o dalla Russia), alle quali è necessario resistere a ogni costo. I tecnocrati, che sono interessati alle fabbriche dei lavoratori solo nella misura in cui queste sono capaci di scioperare in vista di un cambio di regime, stanno aspettando al varco per riempire questa assenza di unità di visione politica. Tuttavia, proprio perché le forme di democrazia rappresentativa attive in Bielorussia fino a oggi sono stati smantellate e gettate in discredito, nuove forme di organizzazione e di politica stanno emergendo dalle proteste.
L’attuale sollevazione in Bielorussia dev’essere nettamente differenziata dalle altre “rivoluzioni colorate” nel blocco est-europeo e in particolare dal recente “Maidan” ucraino che ha portato all’intervento russo e alla guerra civile. Diversamente dalle cosiddette “rivoluzioni colorate”, i lavoratori in sciopero hanno dato prova di essere l’elemento centrale della resistenza in Bielorussia.
Questi lavoratori, che storicamente hanno rappresentato uno dei maggiori bacini di consenso per Lukashenko, sono contrari alle iniziative paventate dai candidati d’opposizione più popolari e dai tecnocrati pro-Europa, quali la riforma delle pensioni e la privatizzazione delle fabbriche. L’emergere di questi lavoratori come principale forza politica è dovuto al fatto che la Bielorussia è stata sottoposta a un grado molto minore di riforme neoliberali e di privatizzazione nel periodo post-sovietico rispetto alle nazioni confinanti. Mentre, generalmente, le politiche di sinistra sono state gettate in discredito dall’autorappresentazione del regime di Lukashenko come un regime di “orientamento socialista” – un regime che, ciononostante, è stato ben capace di mettere in campo misure neoliberali – gli interessi dei lavoratori in sciopero occupano il centro della scena per quanto riguarda il futuro del paese.
Se il vuoto di potere creato dalle dimissioni di Lukashenko verrà riempito da forze politiche di sinistra o da persone leali a Lukashenko che riusciranno a mantenere la propria autorità o se gli interessi dei lavoratori troveranno espressione attraverso le nuove forme di mobilitazione spontanea, come i comitati locali emergenti che guidano gli scioperi, è tutto da vedere. Tuttavia, è certo che chiunque dovesse conquistare il potere in Bielorussia non avrà carta bianca per politiche di neoliberalismo selvaggio nel campo della società e dell’economia. Questo è un punto fondamentale per provare a stabilire un precedente nel blocco est-europeo verso una strada alternativi di sviluppo sociale democratico, che si discosti dalle ben note e impopolari “terapie dello shock”.
Il futuro della sollevazione in Bielorussia, con tutte le sue ramificazioni nella sfera post-sovietica, sarà dunque deciso nei prossimi giorni, mesi e anni. Ciò che oggi è indubbio è che il corpo sociale e politico del paese si sta trasformando una volta per tutte. Che Lukashenko riesca a mantenere il potere a costo di utilizzare una violenza senza precedenti o meno rimane una domanda aperta.
Dovesse riuscirci, tuttavia, sarebbe appoggiato solo dall’apparato repressivo senza avere alcuna egemonia ideologica – il che significa, avere potere senza avere autorità. E “potere senza autorità” significa che la sovranità del paese è stata ormai trasferita dal Palazzo Presidenziale. Senza che al momento ci sia un leader che possa appropriarsi di questo vuoto di autorità, la sovranità si distribuisce nelle piazze pubbliche, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle piccole città e nei villaggi.