Draghi pontifica al meeting di Rimini, ma la ricetta è fare debito a carico delle nuove generazioni, che però dichiara di voler tutelare.
L’Italia ha un nuovo Papa. E non un Papa divisivo, come quello di stanza in Vaticano, ma un Papa ecumenico: sia le destre moderate, con qualche distinguo di facciata, che – più convintamente – le sedicenti sinistre, plaudono al discorso di Mario Draghi al Meeting di Comunione e Liberazione (Cl), che qualcuno ha letto come un’autocandidatura al soglio del Quirinale.
Già la scelta del luogo per proferire il suo messaggio urbi et orbi è una strizzata d’occhio ai settori più conservatori del cattolicesimo. Lo è anche l’esordio con cui si dichiara “partecipe della vostra [di Cl!] testimonianza di impegno etico”, glissando sull’impegno etico di Formigoni e della Compagnia delle Opere. Ma, potrebbe obiettare qualcuno, si tratta di una formalità e di un gesto di buona educazione nei confronti di chi lo ha ospitato e gli ha offerto quel pulpito. Quindi soprassediamo e veniamo alla “ciccia”, che comunque è sempre ben velata da frasi di apparente buon senso idonee a renderla più facilmente digeribile sia alla destra che alla “sinistra” (sempre sedicente, per essere precisi), come si conviene a un buon Pontefice.
Due sono le parti più rilevanti del suo discorso, una analitica e una propositiva.
Cominciamo dalla prima che attiene essenzialmente alla valutazione della crisi e della capacità di risposta delle istituzioni europee.
Il coronavirus, per sua stessa ammissione, si è abbattuto su un’Italia già in recessione, e tuttavia egli si ostina a denunciarlo come la causa di questa crisi. Potrebbe il mentore del capitale finanziario ammettere che il problema è il capitalismo? No. Quindi passiamogli anche questa.
La crisi “genera incertezza”, da lui considerata, parrebbe, come il problema maggiore. E difatti in tutti i passaggi la mette al primo posto. Ma sappiamo che l’incertezza è ineliminabile in un’economia non consapevolmente governata e rimessa alla spontaneità del mercato, come del resto ineliminabile è la crisi. Tuttavia non possiamo attenderci da Draghi che spezzi una lancia a favore del socialismo e quindi, bonariamente, perdoniamolo di nuovo.
Fra chi ritiene che dopo la crisi tutto tornerà come prima e chi invece sostiene che tutto cambierà egli si pone ecumenicamente nel mezzo: dei cambiamenti saranno inevitabili, “ma non dobbiamo rinnegare i nostri principi”, principi che conosciamo fin troppo bene. E la politica non deve aggiungere incertezza a quella prodotta spontaneamente. A questo proposito cita la “preghiera per la serenità” del teologo anticomunista Karl Paul Reinhold Niebuhr: “Signore, dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, e la saggezza di capire la differenza”. Quindi i rapporti fra le classi, mai menzionati nel discorso, non sono in discussione e sembra di capire che i cambiamenti dovranno limitarsi, oltre che ad alcuni indirizzi di politica economica, a innovazioni tecnologiche e organizzative in alcuni settori. Mi viene di fare gli scongiuri pensando ai lavoratori che dovranno subire passivamente questi cambiamenti, perché nel discorso di Draghi del protagonismo dei lavoratori non c’è traccia.
Naturalmente un buon Papa pensa anche agli ultimi e quindi l’ex governatore approva la messa in atto diffusa di “sussidi” in quanto sono “una prima forma di vicinanza della società a coloro che sono più colpiti, specialmente a coloro che hanno tante volte provato a reagire”. Per la verità qui non ci intravedo solo gli ultimi, ma anche tanta piccola e media borghesia.
Ma la parte più interessante riguarda l’Europa, perché è a questo proposito che emerge il capolavoro dialettico di Draghi che mette in sordina la sua consapevolezza che siamo nel pantano. Non essendo uno sprovveduto si rende pienamente conto dell’inadeguatezza delle istituzioni e delle politiche europee e qua e là, con molto savoir faire, ne coglie alcuni punti dolenti.
Mentre “gli stessi paesi che li avevano disegnati” o che “ne avevano maggiormente beneficiato” mettevano in discussione “la giurisdizione internazionale del WTO, e con essa l’impianto del multilateralismo [leggi globalizzazione]”, l’Europa era immobile. Naturalmente aveva le scusanti: “il proprio ordinamento di protezione sociale aveva attenuato alcune delle conseguenze più severe e più ingiuste della globalizzazione”.
E così è per le regole europee, cioè per “il patto di stabilità, la disciplina del mercato unico, della concorrenza e degli aiuti di stato”, che solo successivamente “sono state sospese o attenuate, a seguito dell’emergenza causata dall’esplosione della pandemia”. Eppure “l’inadeguatezza di alcuni di questi assetti era divenuta da tempo evidente” e solo per il settore finanziario (garbato autoincensamento?) fu cambiato qualcosa.
Ma tutto teleologicamente (o teologicamente?) si lega, secondo una “evoluzione” necessariamente concatenata: dal mercato unico scaturì “logicamente” l’euro; dall’euro la “disciplina dei bilanci nazionali e l’unione bancaria” quali “conseguenze necessarie”. Seguirà altrettanto prevedibilmente “la creazione di un bilancio europeo” a correzione di un “difetto che ancora permane”.
C’è anche una nemmeno troppo implicita condanna del tira e molla sul Mes e sul Recovery Fund, cambiamenti dovuti a circostanze eccezionali. “La solidarietà”, che avrebbe dovuto essere “spontanea, è stata il frutto di negoziati”. Ma si tratta pur sempre di solidarietà, secondo il Sommo Pontefice, non della presa d’atto che era necessario un compromesso per non fare implodere l’Unione europea. La quale è comunque un bene assoluto fin da quando fu concepita dai padri fondatori, De Gasperi in primis (e ti pareva!). Infatti non ci sono alternative a “l’adesione all’Europa con le sue regole di responsabilità, ma anche di interdipendenza comune e di solidarietà” (dove l’avrà vista?).
Pur essendo il modo di pensare di Draghi distante anni luce dal nostro, bisogna dargli atto che, nel mezzo a tanti fanatici seguaci del “libero mercato”, egli ha dimostrato di essere fra i più illuminati e consapevoli. Tuttavia, forse in funzione di un suo futuro ruolo di Padre della Patria, non trae da questa sua analisi conclusioni adeguate, non porta fino in fondo il bilancio della svolta liberista, bilancio che avrebbe potuto condurre a determinazioni sul piano teorico e pratico ben più incisive.
Veniamo ora, infatti, alla parte propositiva. “È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e quando lo saranno certamente non lo saranno nella loro forma attuale. La ricerca di un senso di direzione richiede una riflessione e che questa riflessione inizi subito”. Si tratta di rimettere in discussione le politiche liberiste? Quando mai? Il loro fallimento (termine ovviamente da lui non usato) consiglia solo maggior pragmatismo e maggiore discrezionalità, mantenendo però chiarezza “sugli obiettivi che ci poniamo”, cioè non proponendo cambiamenti radicali.
C’è un elogio delle politiche seguite a seguito della pandemia, “corrette, al di là delle singole agende nazionali”. Così è stata opportuna la “sospensione di molte delle regole che avevano disciplinato le nostre economie fino all’inizio della pandemia per far spazio a un pragmatismo che meglio rispondesse alle mutate condizioni”. Ottime le “misure straordinarie a sostegno dell’occupazione e del reddito” la “sospensione o differimento” del pagamento delle imposte, l’immissione di liquidità nel settore bancario “affinché continuasse a fornire il credito a imprese e famiglie”, la crescita del debito pubblico “a livelli mai visti prima in tempo di pace”.
Sì il debito. Draghi ci torna ancora e ci dice che “sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi”. La spesa sociale quindi continua a essere cattiva cosa. C’è solo da salvaguardare l’economia, cioè, fuori di metafora, il capitale. E infatti, se a questo sarà finalizzato, il debito sarà considerato dai mercati “debito buono” e con ciò sostenibile. “La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato debito cattivo”. Quello che conta per la sostenibilità non è solo il tasso di interesse ma anche “la percezione della qualità del debito contratto”. Scordiamoci quindi di adeguare pensioni, organici dei servizi pubblici, servizi sociali.
Questa crisi, ci spiega, oltre a distruggere capitale fisico, sta distruggendo capitale umano. “I sussidi finiranno e se non si è fatto niente resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro [degli attuali giovani] libertà di scelta e il loro reddito futuri” E quindi bisogna provvedere a salvaguardare il più possibile questo capitale umano. Come? Con investimenti, soprattutto nel campo della formazione e, con molta, molta meno enfasi, della sanità. Che tipo di investimenti? Pubblici? Privati? Non lo dice. Che caratteristiche dovranno avere questi servizi? Il trend verso la privatizzazione dovrà proseguire o essere invertito? Mistero. Che tipo di formazione serve? Quella sulla linea delle ultime riforme, cioè per produrre una manodopera ubbidiente e incapace di leggere criticamente la realtà e con questo anche incapace di adattarsi ai cambiamenti nella società e nel lavoro, o invece per fornire una solida cultura di base? Figuriamoci se viene esplicitato. Però la “sinistra” si contenta di queste generiche enunciazioni.
Ma l’applauso a scena aperta è a una grossolana sparata: “privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. Le altre forme, lo sfruttamento del lavoro, gli infortuni spesso mortali, la perdita di ogni certezza e tutela dei lavoratori, la precarietà, le pensioni da miseria, le guerre che facciamo a popoli che non ci hanno offeso e che vivono in estrema povertà, non vengono nemmeno rammentate. La questione che più rileva è l’ingiustizia versi i giovani, siano essi figli di lavoratori o di banchieri. Il Nostro però è favorevole a regalare loro un bel debito che “dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani”.
Secondo il rapporto Global Wealth 2020 in Italia esistono 400 mila milionari. Coloro la cui ricchezza supera i 100 milioni sono 1.700. Fatti due conti, con una imposta del 2 o 3 per cento esclusivamente su questi patrimoni si realizzerebbero 150 miliardi di euro. Non ci sarebbe bisogno di indebitarci con il Mes e con il Recovery Fund. Ma si farebbe una gran danno ai giovani figli dei capitalisti e questa sarebbe “una delle più gravi” ingiustizie.
23/08/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/5/55/Mario_Draghi_-_World_Economic_Forum_Annual_Meeting_2012.jpg/800px-Mario_Draghi_-_World_Economic_Forum_Annual_Meeting_2012.jpg