di Marshall Auerback
Imprese hanno cercato costantemente di negare ai loro lavoratori provvidenze tradizionali mediante scappatoie legale che i tribunali stanno rapidamente chiudendo.
Marshall Auerback è un analista di mercato e giornalista.
Questo articolo è stato prodotto da Economy for All, un progetto dell’Independent Media Institute.
Il termine alla moda dell’industria tecnologica “gig” [lavoretto] ha distratto la società da importanti domande riguardo alla gig economy che sono sorprendentemente tradizionali: se un’impresa abbia dipendenti o appaltatori e come possa evitare imposte sui salari e responsabilità legali. Innumerevoli modelli aziendali sono stati costruiti nella Silicon Valley sotto la maschera dei gig, Uber e Lyft due dei casi più noti, il che è ironico considerando che nonostante tutte le loro pretese di alta tecnologia al centro sono entrambe servizi di taxi e di consegna di cibo. Ma con governi statali come la California che subiscono perdite di entrate sempre maggiori e un numero stimato di 57 milioni di lavoratori gig negli Stati Uniti che segnalano una mancanza di protezioni da parte dei datori di lavoro e di salari equi, la questione è passata ai tribunali.
Uber e Lyft si trovano oggi al centro di dispute legali pluriennali su tale questione. Le contestazioni legali, tuttavia, si stanno ora estendendo oltre queste due società.
Negli ultimi quarant’anni l’ascesa del neoliberismo ha consentito a imprenditori di far pendere pesantemente le nostre economie capitaliste a favore del capitale e via dal lavoro, attraverso lo svuotamento di sindacati, lo smontaggio dello stato sociale e la privatizzazione di servizi pubblici. L’uso crescente della classificazione di ‘appaltatore indipendente’ rappresenta il tentativo più recente di sfruttare e amplificare questo squilibrio di potere. Lo sfruttamento di questa scappatoia sul lavoro è sintomatico dell’ascesa di quello che la scrittrice Albena Azmanova ha chiamato “capitalismo della precarietà” nel suo nuovo libro Capitalism on Edge, una condizione che il professor James Galbraith ha descritto come “una minoranza “accomodata in un insieme in diminuzione di percorsi sicuri di carriera o in una ricchezza sufficiente a non doversi preoccupare [dell’insicurezza economica] e una maggioranza che vive in un’ansia persistente per i costi della sanità, della casa, dell’istruzione, per la qualità dei servizi pubblici e per altri attributi in precedenza ordinari della vita della classe media”. Ciò che rende particolarmente irritante questa tendenza è che i principali motori economici di questa transizione alla servitù si spacciano come imprese illuminate, socialmente “risvegliate”, che si tratti di Uber, Lyft, DoorDash o Amazon, ma in realtà sposano tutte pratiche di occupazione più evocative dei baroni della rapina del diciannovesimo secolo.
Mentre le protezioni che disciplinano la tradizionale relazione imprenditore-dipendente sono state sempre più sovvertite, i lavoratori hanno reagito rivolgendosi ai tribunali perché correggano questa scappatoia che ha consentito che le loro condizioni d’impiego diventassero una forma di servitù a contratto. E i tribunali stanno in larga misura decidendo a loro favore. Un giudice di una corte superiore della California ha recentemente negato un decreto ingiuntivo sia a Uber sia a Lyft, il che significa che saranno costrette a rispettare sentenze precedenti e uno statuto dello stato della California che imponevano loro di riclassificare i loro lavoratori come dipendenti (anche se la scadenza originale del 20 agosto è stata ora prorogata fino a ottobre affinché possa essere valutato l’appello delle società dalla Corte d’Appello della California). La sentenza originale della California conferma una sentenza simile formulata da un giudice federale di New York in luglio.
Queste sono anche coerenti con un numero crescente di sentenze in altri paesi, quali il Regno Unito, dove Uber si sta ora appellando contro una sentenza di una corte inferiore che i suoi autisti debbano essere classificati come dipendenti “con diritto alle protezioni dell’occupazione quali un salario minimo e ferie pagate” e il Canada, dove la Corte Suprema del paese ha recentemente stabilito che gli autisti di Uber avevano titolo ad avviare una causa per provvidenze tradizionali e pagamento delle ferie.
Colpisce ugualmente parte dell’aspro linguaggio impiegato in questi procedimenti contro le pratiche. Nei giudizi i tribunali hanno evidenziato esplicitamente il grande squilibrio nel cosiddetto rapporto di “appaltatore” tra le imprese e la loro rispettiva manodopera, che invalida qualsia idea che gli “appaltatori” siano genuinamente indipendenti. Nella causa canadese, Uber Technologies Inc. contro Heller, la Corte Suprema ha citato specificamente la disuguaglianza di potere contrattuale tra il querelante e Uber, segnalando che l’autista David Heller era in realtà impotente a negoziare qualsiasi condizione del suo rapporto con la società (il che invalidava in larga misura l’idea che fosse un appaltatore indipendente come affermava Uber). Analogamente nella causa presso la Corte d’Appello britannica Uber BV contro Aslam i giudici hanno indicato che gli “autisti [di Uber] non si offrono al mondo in generale; piuttosto sono reclutati da Uber per lavorare come parti integrali della sua organizzazione”. In altri termini, Uber esercita un controllo totale su di loro come dipendenti ma tenta si sottrarsi ai suoi obblighi designando gli autisti come appaltatori indipendenti. Conseguentemente la Corte d’Appello britannica ha definito la descrizione del rapporto di lavoro da parte della Uber come “un falso”.
Il successo di queste cause legali ha incoraggiato ulteriori vertenze: DoorDash, “leader del mercato statunitense nella consegna di pasti”, sta ora affrontando un’ingiunzione preliminare del procuratore distrettuale di San Francisco per “costringere la società a riclassificare i suoi lavoratori come dipendenti”, scrive il Financial Times.
Esibendo un disprezzo in stile Leona Helmsley per le sentenze Uber e Lyft stanno entrambe minacciando di sospendere il loro servizio se dovranno riclassificare i loro autisti come dipendenti. Questa ovviamente è una minaccia quanto più inconsistente si possa immaginare: come oserebbero molte delle società quotate pubblicamente dell’indice Fortune 500 dire ai loro azionisti che programmano di tagliarsi fuori dalle entrate come parte della loro strategia aziendale, specialmente se l’obiettivo di lungo termine è usare i loro “appaltatori” per creare una base di consumo, mentre lavorano per perfezionare la tecnologia robotica che alla fine consenta alla società di sostituirli con automobili autoguidate (una strategia che è difficile attuare se le società minacciano di chiudere le loro attività ogni volta che incontrano una legge che non piace loro)? Quello è l’unico percorso plausibile alla redditività nel più lungo termine, supponendo, ovviamente, che le auto senza autista sviluppino appieno la capacità di riconoscere un pedone, in modo da non ucciderlo.
In realtà entrambe società hanno un’emorragia di liquidità anche mentre operano nell’ambito delle scappatoie legali esistenti. Contemporaneamente la loro strategia provvisoria consiste nel rendere quanto più a lungo possibile legale il loro sfruttamento: oltre alle minacce di chiusura stanno impiegando somme considerevoli perché la norma della California sia rovesciata mediante un ricorso alle urne, Proposition 22. Lo stato della California stima di perdere 7 miliardi di dollari l’anno per imposte eluse sui salari della gig economy.
Ma il fatto è che i modelli aziendali delle società erano insostenibili da ogni punto di vista ancor prima che le loro pratiche occupazionali abusive fossero contestate nei tribunali. Fin dall’inizio entrambe sono sopravvissute in virtù di una continua elevata bolla di IPO che le ha infuse di liquidità per tamponare il rosso. E’ una forma di “finanza Ponzi”, una condizione che l’economista Hyman Minsky ha definito come “ flussi di liquidità dalle attività… [insufficienti] per onorare i loro rimborsi del … [capitale] o degli interessi a causa di debiti in arretrato dai flussi di liquidità dalle attività”.
Come ha osservato l’autore di una lettera al Financial Times le bolle di IPO che sostengono questi schemi Ponzi sono basate su “un presupposto cinico che… [a queste società] sarà consentito di espandere… la loro mandria di cyber servi”. In assenza di tale presupposto, la realtà è fosca. Come ha evidenziato l’analista Hubert Horan: “Uber ha ora perso 23,2 miliardi di dollari negli ultimi quattro anni e mezzo”. Horan segnala anche che la società ha costi operativi superiori a quelli delle società di taxi che sta cercando di sostituire. In altri termini senza modelli di sfruttamento illegale, la percentuale di perdite finanziarie supererebbe di gran lunga la capacità di raccogliere liquidità dal credulo mondo della finanza e degli investimenti.
Tentativi di aggirare le protezioni legali del lavoro esistenti contribuiscono semplicemente a una forma di dumping sociale, anche se l’amministratore delegato di Uber, Dara Khosrowshahi, ha deprecato l’assenza di flessibilità dell’attuale legge sul lavoro che negherebbe ai lavoratori la libertà di scegliere il modo di lavorare e quando farlo. Khosrowshahi ha affermato questo in un recente editoriale del New York Times e ha proseguito che la contrapposizione tra paga e provvidenze è una “falsa scelta”.
L’amministratore delegato di Uber ha ragione, ma non nel modo che sostiene. In un rapporto genuinamente indipendente di appalto il quid pro quo è una remunerazione più elevata come compensazione dell’assenza del versamento di provvidenze. Ma le società della gig economy generalmente non operano in questo modo: Uber e Lyft pagano salari minimi che in molti casi costringono i dipendenti a lavorare 70-80 ore la settimana per guadagnarsi da vivere. Ciò incide considerevolmente sulla presunta flessibilità di orario dell’appaltatore e rende anche virtualmente impossibile permettersi decenti provvidenze, come un’adeguata assicurazione sanitaria, per non parlare di permessi pagati per malattia o ferie. Nelle parole di un rapporto recente del National Labor Relations Board’s Office of the General Counsel (NLRB GC) [Ufficio del consulente legale del consiglio nazionale delle relazioni di lavoro] “gli autisti di Uber – che guadagnano circa 9-10 dollari l’ora – non possono accrescere le entrate perché non possono controllare i prezzi o espandere la loro clientela; l’unica cosa che possono fare è guidare per più ore”.
Il rapporto del NLRB ha anche segnalato che ogni “incremento” delle entrate degli autisti “è minimo e si blocca dopo circa due anni”. Anche se sono chiamati “contraenti indipendenti” la loro indipendenza è illusoria perché i cosiddetti “imprenditori” in realtà “non hanno nemmeno un controllo elementare su come effettuano le corse… [e] sono ‘controllati’ da sistemi semiautomatici e algoritmici che tracciano le loro percentuali di accettazione, la durata dei viaggi, la velocità, le valutazioni di clienti e altri fattori e gli autisti possono essere ‘disattivati’ in base a questi fattori”. Questo non è un rapporto di lavoro paritario tra un imprenditore e un contraente indipendente; è più una forma di servitù a contratto.
In altri termini la chiarificazione legale dei tribunali si accorda con la realtà sottostante.
Questo rafforza la causa di un solido sistema di assistenza sociale, in particolare qualcosa di simile al [sistema di assistenza sanitaria] Medicare for All. Un sistema unico finanziato pubblicamente non solo allevierebbe una grande fonte di insicurezza economica per i lavoratori, ma assicurerebbe anche che gli imprenditori non debbano subire il costo di offrire assistenza sanitaria ai loro dipendenti come condizione per fare affari negli Stati Uniti (un fattore che li svantaggia rispetto a concorrenti globali).
A parte tale considerazione, il COVID-19 ha creato una situazione in cui molti dei benefici esaltati della gig economy, quali lavorare da casa o scegliere i propri orari di lavoro, sono gradualmente importati in una molteplicità di occupazioni, senza sovvertire le protezioni e le provvidenze offerte dalle pratiche di lavoro tradizionali. Certo, molti di questi lavori alla fine torneranno in contesti d’ufficio, ma un rapporto recente dell’Istituto Stanford per la Ricerca sulla Politica Economica sostiene in modo persuasivo che lavorare da casa e altre caratteristiche simili della gig economy probabilmente saranno estese ad altre attività che non dipendono da un modello medievale di lavoro per sostenere la redditività.
Per fortuna i nostri tribunali stanno finalmente cominciando a tracciare un confine per limitare tali pratiche vergognose. I prossimi passi devono andare oltre gli sforzi di stati individuali. Il governo federale dovrebbe creare un quadro generale per spazzar via queste evasioni una volta per tutte e per ricostruire i diritti e le protezioni che solevano caratterizzare la nostra economia in tempi più civili.
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Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2020 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.