Mario Draghi, nel suo recente e molto discusso intervento al Meeting di Rimini (che abbiamo già trattato qui), ha ribaltato una delle architravi della narrazione euro-austeritaria dell’ultima decennio (avallata dallo stesso Draghi), quella dell’imperativo assoluto della riduzione del debito pubblico, costi quel che costi in termini economici e sociali (per maggiori informazioni citofonare alla Grecia), sostenendo che l’attuale fase storica «sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo». Insomma, contrordine compagni: il debito pubblico non è più il male assoluto, ma anzi l’aumento degli stock di debito è una necessità impellente per evitare «una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, [che] sarebbe ancora più dannosa per l’economia», come ha dichiarato qualche mese addietro in un’altra occasione.

Allo stesso tempo, però, Draghi si è affrettato a specificare che bisogna distinguere tra “debito buono” e “debito cattivo”, laddove il primo è quello “produttivo”, quello cioè, se decodifichiamo il gergo draghiano, che piace ai mercati finanziari, ovverosia che genera ritorni economici al capitale privato nel breve periodo, mentre il secondo è quello cosiddetto “improduttivo”, ovverosia quello che, nella migliore delle ipotesi, pur generando rendimenti sociali di lungo periodo potenzialmente molto benefici per la società nel complesso – laddove venisse utilizzato, poniamo, per aumentare le assunzioni e le retribuzioni di medici e insegnanti –, non offre rendimenti economici nel breve termine. Insomma, non siamo di fronte a nessuna conversione sulla via di Damasco, come hanno sostenuto alcuni; più banalmente, cambiano gattopardescamente le parole (“debito” al posto di “austerità”) affinché non cambi nulla: la visione del mondo e della società che sottende le parole di Draghi, e gli interessi che quest’ultimo rappresenta, sono gli stessi di sempre.

Ma il punto che ci preme sottolineare in questa sede è un altro. Fa specie che proprio Mario Draghi si permetta di moraleggiare di debito buono e debito cattivo, considerando che proprio Draghi, negli anni Novanta, quando era direttore generale del Tesoro italiano (carica che ha ricoperto dal 1991 al 2001, per poi andare alla Goldman Sachs), ha sovrinteso all’emissione, da parte dello Stato italiano, di una montagna di titoli di debito tra i più “tossici” e speculativi al mondo, di cui ancora oggi paghiamo – letteralmente – le conseguenze. Stiamo parlando, ovviamente, dei famigerati derivati di Stato.

Di cosa si tratta? I derivati sono degli strumenti finanziari che derivano il loro valore dall’andamento del valore di un’attività sottostante, che può avere natura finanziaria (come ad esempio i titoli azionari, i tassi di interesse e di cambio, gli indici ecc.) o reale (come ad esempio il caffè, il cacao, l’oro, il petrolio ecc.). Ora, se è vero che in alcuni casi i derivati possono servire a ridurre legittimamente i rischi di portafoglio, permettendo per esempio a un investitore di negoziare con un venditore il prezzo di un bene che intende acquistare in una data futura e dunque di tutelarsi rispetto a un aumento del costo del bene in questione, è altresì vero che la maggior parte dei contratti derivati ha una natura puramente speculativa, consiste cioè nell’assunzione di un rischio con l’obiettivo di conseguire un profitto.

Una scommessa, insomma, non diversa da quelle praticate quotidianamente nell’ambiente del gioco d’azzardo. Con la differenza, però, che i derivati finanziari muovono cifre incomparabilmente più grandi (si stima che il valore nozionale dei derivati in circolazione a livello mondiale sia pari a più di trenta volte il PIL mondiale) e, quando le cose vanno male, possono avere ripercussioni molto pesanti anche sull’economia reale; non a caso i derivati hanno giocato un ruolo fondamentale nella crisi finanziaria del 2007-9, tanto che molti al tempo proposero (invano) di metterli fuorilegge una volta per tutte.

Veniamo ora ai contratti derivati sottoscritti dallo Stato italiano ai tempi di Draghi. Siamo alla metà degli anni Novanta e in quel periodo le élite del nostro paese – Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, Romano Prodi e ovviamente lo stesso Draghi, solo per citarne alcuni – avevano un unico obiettivo: aggiustare (letteralmente) i conti pubblici per ottemperare ai criteri di Maastricht e permettere così all’Italia di aderire all’euro. Ed è qui che entrano in gioco i derivati. La maggior parte dei derivati sottoscritti in quegli anni, per un valore di circa 160 miliardi, consisteva in cosiddetti interest rate swap: in sostanza lo Stato riceve da una banca d’affari un flusso di cassa a tasso variabile sufficiente a ripagare un certo numero di titoli in scadenza e in cambio si impegna a pagare alla stessa banca un tasso fisso a lunga scadenza.

Questo ha permesso all’Italia di ridurre artificialmente il proprio deficit di qualche decimale, con il placet della Commissione europea e di Eurostat, l’agenzia statistica europea, le cui regole, successivamente modificate in parte, permettevano al tempo di contabilizzare come un’entrata quello che di fatto è un debito. Nonché, ovviamente, una scommessa: in sostanza, se i tassi fossero cresciuti – come effettivamente è stato fino ai primi anni Duemila – lo Stato italiano ci avrebbe guadagnato; se invece fossero scesi, ci avrebbero perso, a tutto vantaggio delle banche d’affari. Se, dunque, in una prima fase, l’Italia ha effettivamente realizzato dei guadagni sui derivati creditizi, a partire dal 2005, con la riduzione dei tassi, i derivati hanno cominciato a generare perdite sempre più ingenti per lo Stato: qualche anno fa (non ho trovato stime più recenti) è stato lo stesso governo, dopo aver apposto per anni una sorta di informale segreto di Stato sulle perdite relative ai derivati, ad ammettere, in seguito a un’interrogazione parlamentare, che il valore di mercato dei derivati in questione era negativo per circa 35 miliardi di euro (e positivo per un valore equivalente per le banche). Una danno monumentale per l’erario, soprattutto in tempo di austerità (ma non per tutti, evidentemente).

Ma la vicenda non finisce qui. Oltre agli strumenti derivati più tradizionali sopracitati, tra la metà degli anni Novanta e la metà degli anni Duemila l’Italia ha anche sottoscritto operazioni più speculative, note come swaption, inserite nell’operatività del Tesoro proprio quando direttore generale era Mario Draghi. Una swaption consiste nella vendita da parte dello Stato, in cambio di un premio, di un’opzione che attribuisce alla banca acquirente la facoltà di decidere se sottoscrivere o meno, in una data futura, un interest rate swap a un tasso fisso prestabilito. Va da sé che si tratta di un’operazione ancora più rischiosa – o, appunto, speculativa – di un normale swap, poiché comporta il rischio per la parte venditrice, in questo caso lo Stato, di ritrovarsi a firmare un contratto swap che presenta condizioni sfavorevoli già al momento della stipula. Questo è esattamente quello che è successo nel 2005, quando la banca d’affari statunitense Morgan Stanley ha deciso di attivare una swaption sottoscritta l’anno precedente, in virtù della quale lo Stato aveva incassato un premio di 47 milioni di euro. Peccato che, secondo la Corte dei Conti, lo swap in questione aveva già in partenza un valore di mercato negativo di 600 milioni di euro; sarebbe a dire che da lì al 2035 quello swap sarebbe costato al Tesoro 600 milioni di interessi netti.

Ma non finisce neanche qui. Un accordo quadro siglato nel 1994 dal Tesoro sempre con la Morgan Stanley, che doveva regolare tutti i successivi derivati sottoscritti con la banca, includeva una clausola secondo la quale la banca americana avrebbe potuto esigere unilateralmente (a differenza dei contratti con le altre banche, che prevedevano clausole bilaterali) l’immediata chiusura di tutti i derivati, nel momento in cui il valore della propria esposizione nei confronti dello Stato avesse superato una certa soglia, variabile a seconda del rating dello Stato italiano. Nonostante quella soglia sia stata superata nel 2003, però, la Morgan Stanley ha continuato a firmare o a rinegoziare diversi contratti con il Tesoro, vedasi la swaption del 2004, aumentando in misura sostanziale l’esposizione negativa del Tesoro, senza che la banca attivasse la clausola per estinguere i derivati e farsi pagare dal governo italiano il valore di mercato degli stessi, a quel punto già negativo, così come prevedeva l’accordo del 1994. «Non avevamo conoscenza di tale clausola», avrebbero dichiarato in seguito i dirigenti del Tesoro.

La Morgan Stanley ha scelto di esercitare quella clausola solo nel 2011, all’indomani dell’attacco finanziario all’Italia che spianò la strada al governo “tecnico” di Mario Monti – attacco finanziario ordito, curiosamente, sempre dallo stesso Draghi, che «decise di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della BCE» per far schizzare in alto lo spread e costringere Berlusconi alle dimissioni, come ammesso persino da Mario Monti qualche tempo fa. È a quel punto che la banca d’affari – adducendo come causale il declassamento del rating italiano, pochi mesi prima, da parte dell’agenzia di rating statunitense S&P, tra i cui azionisti figura la stessa Morgan Stanley – decide di chiudere unilateralmente in maniera anticipata tutti i suoi contratti in essere con lo Stato, incassando sull’unghia dal governo Monti, che nel frattempo annunciava misure lacrime e sangue per i cittadini italiani, la colossale cifra di 2,5 miliardi di euro (di cui un miliardo relativo solo all’accordo del 2004, per il quale lo Stato aveva incassato, lo ricordiamo, ben 47 milioni di euro: lasciamo al lettore il calcolo del bilancio finale). Piccola curiosità: fino a qualche anno prima il figlio di Monti, Giovanni, aveva lavorato proprio alla Morgan Stanley.

Una vicenda talmente clamorosa da spingere la procura della Corte dei Conti, nel 2013, a citare in giudizio la Morgan Stanley per danno erariale. Secondo l’accusa, la banca si sarebbe resa responsabile del 70 per cento di un danno complessivo da 3,9 miliardi, commettendo, con la sua decisione di chiudere tutti i suoi contratti, nel 2011, «palesi violazioni dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale». Questo perché la banca ricopriva un ruolo particolare, quello di “specialista”: si tratta delle banche che assistono il governo nelle aste dei titoli di Stato e che in quel ruolo devono contribuire alla gestione del debito pubblico anche attraverso un’attività di consulenza e ricerca.

Ancora più sorprendente, però, era la richiesta di risarcimento della Corte del restante 30 per cento dei danni, pari a più di un miliardo di euro, a carico dei dirigenti del Tesoro che per anni non si accorsero della succitata clausola: Maria Cannata, al Tesoro dal 1992 e dal 2000 a capo della direzione del debito pubblico, carica che ha ricoperto fino al 2017; il suo predecessore Vincenzo La Via, nominato alla direzione generale del Tesoro nel 2012 (fino al 2018); e gli ex direttori generali del Tesoro Domenico Siniscalco (2001-2004), poi passato, indovinate un po’, alla stessa Morgan Stanley, e Vittorio Grilli (2005-2011), diventato poi viceministro e successivamente ministro dell’Economia del governo Monti tra il 2011 e il 2013 (cioè nel periodo in cui fu liquidata la somma alla Morgan Stanley), per poi passare infine alla JPMorgan, altra banca d’affari statunitense. L’accusa era che alcuni contratti di derivati evidenziavano chiari «profili speculativi» che non li rendevano idonei alla finalità di ristrutturazione del debito, ossia l’unica finalità ammessa dalla normativa vigente. Né sarebbero state attivate adeguate garanzie. Curiosamente Mario Draghi non figurava tra gli imputati, nonostante ci fosse lui a capo della direzione generale del Tesoro quando fu siglato l’accordo quadro con la Morgan Stanley e quando le swaption furono inserite nell’operatività del Tesoro.

Quel processo si è intrecciato, seppur indirettamente, a un’altra indagine condotta dalla procura di Trani nei confronti delle agenzie di rating S&P e Fitch, accusate di aver deliberatamente generato il panico sui mercati con i loro declassamenti del 2011, alimentando così la speculazione ai danni del nostro paese, nonché di aver offerto il casus belli alla Morgan Stanley – azionista, lo ricordiamo, della stessa S&P – per recedere dal suo contratto con il Tesoro e chiedere la liquidazione dell’attivo in suo favore per circa 2,5 miliardi. Ciò su cui volevano far luce i magistrati era perché il Ministero dell’Economia avesse liquidato la somma «senza battere ciglio» e non avesse ritenuto di chiedere un parere giuridico sulla possibilità di difendersi da quella clausola o quantomeno di prendere tempo in attesa di capire la legittimità e trasparenza di quei declassamenti, considerando i legami azionari tra S&P e Morgan Stanley ma soprattutto il fatto che al tempo il procedimento penale della procura di Trani nei confronto delle agenzie di rating era già in corso. Nessuno dei diretti interessati – né Cannata, né Monti, né altri – si è però sentito in dovere di aiutare a fare luce sulla vicenda, schermandosi dietro alla ragion di Stato, di tutte le cose: mettersi di traverso o anche sospendere il versamento per chiarire la situazione «sarebbe stato reputazionalmente deleterio», dichiarò Cannata, che aggiunse di non essere a conoscenza della partecipazione di Morgan Stanley nella S&P.

Purtroppo entrambi i processi si sono conclusi con un nulla di fatto: nel 2017 i giudici di Trani hanno assolto S&P e Fitch, mentre nel 2019 la Corte dei Conti ha deliberato l’impossibilità di procedere contro gli ex vertici del Tesoro per «difetto di giurisdizione», riconoscendo cioè che i giudici non possono sindacare le scelte discrezionali dei funzionari se queste sono prese nel rispetto della legge. Eppure sono ancora tanti, troppi i punti oscuri in questa assurda vicenda, che riassume molti dei mali dei nostri tempi: la finanziarizzazione del debito pubblico, che da (fondamentale) strumento di politica economica è diventato, soprattutto in virtù della rinuncia dell’Italia alla sua sovranità monetaria, un veicolo per trasferire risorse dal basso verso l’alto e in particolare verso la grande finanza internazionale; il fenomeno delle “porti girevoli” tra politica e finanza (praticamente tutti i protagonisti della vicenda sono poi andati a lavorare per qualche grande banca d’affari o venivano da lì, come nel caso di Monti); l’infimo livello delle nostre classi dirigenti, che ormai da tempo rispondono a logiche che nulla hanno a che vedere con l’interesse nazionale; la spregiudicatezza delle oligarchie internazionali e dei loro lacchè locali, che non si fanno scrupolo di commettere i loro saccheggi alla luce del sole; i limiti del diritto, data la capacità del capitale oligarchico di piegare la legge ai propri interessi.

E al centro di questa trama c’è una persona in particolare, che non a caso ha fatto la carriera più stellare di tutti: l’ex presidente della BCE Mario Draghi. Che oggi, forte probabilmente del consenso pressoché unanime di cui gode nel nostro paese maledettamente smemorato, si permette persino di dare lezioni in materia di debito buono e cattivo. Chissà in quale categoria Draghi collocherebbe i derivati e i contratti capestro siglati dall’Italia all’epoca della sua permanenza al Tesoro, che sono costati al paese – e che continueranno a costarci negli anni a venire – decine e decine di miliardi.

Per concludere, un piccolo quiz. Dove lavorava secondo voi il figlio di Draghi, Giacomo, all’epoca dei fatti relativi alla famigerata swaption con la Morgan Stanley, cioè tra il 2004 e il 2011? Ma che domande: alla Morgan Stanley, ovviamente!

Di: Thomas Fazi

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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