La denuncia delle ONG: gli istituti del vecchio Continente finanziano l’industria petrolifera che devasta l’Ecuador e le sue comunità
Diciannove banche europee sono accusate di aver finanziato massicce operazioni petrolifere controverse in Amazzonia. Gli istituti di credito, in particolare, avrebbero dato il loro sostegno all’estrazione del greggio nella regione delle Sacre Sorgenti in Ecuador. Gli addebiti sono contenuti in un rapporto diffuso in queste settimane dalla organizzazioni nordamericane Stand.Earth, presente in Canada e negli Stati Uniti, e la californiana Amazon Watch. Le attività dell’industria del petrolio, sottolineano i ricercatori, sono da tempo nel mirino dei critici per le conseguenze negative in termini di impatto ambientale e umano a danno delle comunità indigene. Nonché per il loro contributo al cambiamento climatico, ovviamente.
Tra le banche ING guida la classifica (e c’è anche Unicredit)
Nel 2019 le banche hanno finanziato 15,3 milioni di barili contro i 4,8 del 2009. Nel decennio in esame ING Belgium, l’istituto più esposto, ha sostenuto attività complessive per 29 milioni di barili per un controvalore di circa 2 miliardi di dollari. Seguono nell’ordine Credit Suisse (26,6 milioni di barili per 1,8 miliardi di dollari), la francese Natixis (26,6 milioni, $1,6 miliardi), la sua connazionale BNP (24,1 milioni, $1,7 miliardi), UBS (14,9 milioni, $853 milioni) e l’olandese Rabobank (10.9 milioni, $679 milioni). Tra i finanziatori minori compaiono anche Société Générale, Abn Amro, Deutsche Bank, Unicredit e Barclays.
Molte di queste operazioni sono partire dalle filiali di Ginevra, la capitale del trading petrolifero. Proprio sulle rive del lago hanno sede i maggiori distributori mondiali di greggio e materie prime. Tra questi Core Petroleum, Taurus, Gunvor, Trafigura e Castor che nel periodo in esame hanno gestito operazioni in Ecuador per 16 miliardi di dollari. Mobilitando quasi 230 milioni di barili.
Il coronavirus non ferma il business
Dal 2009 ad oggi, spiegano i ricercatori, le banche e le altre società finanziarie coinvolte avrebbero finanziato una produzione complessiva pari a 155 milioni di barili. Il petrolio sarebbe stato venduto alle raffinerie USA (soprattutto in California, punto d’arrivo del 40% del petrolio) generando un fatturato complessivo di circa 10 miliardi di dollari. Il costo ambientale è impressionante: 66 milioni di tonnellate di CO2 prodotta, equivalenti alle emissioni annuali di 17 impianti a carbone.
«In Amazzonia l’industria petrolifera ha lasciato un’impronta tossica, ulteriormente aggravata dalle recenti fuoriuscite che hanno contaminato i fiumi e sconvolto la salute e la sicurezza alimentare delle comunità indigene» spiega Moira Birss, Direttore della divisione Clima e delle Finanze di Amazon Watch. «Anche durante la pandemia di COVID-19» aggiunge, «le compagnie petrolifere hanno continuato ad espandere la loro attività mettendo le popolazioni indigene ancora più a rischio. Le banche non possono pretendere di mantenere le loro promesse sul clima e sui diritti umani mentre continuano a finanziare il commercio del petrolio della regione».
L’incidente di aprile
Le parole della Birss chiamano in causa il contestatissimo incidente verificatosi ad aprile quando una frana ha provocato uno squarcio in un oleodotto nei pressi della città di El Coca, nell’Ecuador nord-orientale. Il disastro ha generato una fuga di petrolio che ha contaminato il fiume. Vale a dire la principale fonte di acqua potabile per i 45 mila residenti dell’area, nella Provincia di Orellana. Gli effetti dell’incidente si sono fatti sentire anche nella vicina provincia di Sucumbios. Holger Gallo, presidente della locale comunità indigena dei Panduyaku, ha manifestato tutta la sua preoccupazione.
«La nostra sussistenza dipende dalla caccia e dalla pesca», ha dichiarato alla Reuters. Il governo, in rappresentanza della compagnia statale Petroecuador, e la società privata Heavy Crude Pipeline (OCP), che gestisce l’oleodotto, hanno assicurato di essere pronti a intervenire per risolvere la situazione.
Il caso Chevron
L’incidente di El Coca è solo l’ultimo episodio di una lunga lista di vicende controverse che costellano le attività dell’industria petrolifera locale. Lo sanno bene gli attivisti di Amazon Watch che negli ultimi anni hanno avanzato un durissimo atto di accusa nei confronti della corporation Chevron. Nel 2001 la multinazionale americana ha completato la fusione con la concorrente Texaco, presente in Ecuador dal 1964 al 1990. Quest’ultima è accusata di aver provocato ingenti danni all’ambiente riversando, secondo Amazon Watch, oltre 60 miliardi di litri di acque reflue tossiche e circa 63 milioni di litri di petrolio.
Dieci anni più tardi un tribunale ecuadoregno ha condannato Chevron a un maxi risarcimento da 18 miliardi di dollari, poi ridotti a 9,5 innescando una lunga serie di battaglie legali. Nel 2014 la corte distrettuale di New York ha dato ragione alla corporation giudicando «fraudolenta» la sentenza pronunciata nella nazione latinoamericana. Da allora la Chevron ha ottenuto ha ottenuto una lunga serie di pronunciamenti favorevoli.
Le comunità locali contro le banche
Quella delle Sacre Sorgenti, spiegano gli attivisti di Stand.Earth e Amazon Watch, è una delle aree più ricche del mondo in termini di biodiversità. Abitata da circa mezzo milione di indigeni in rappresentanza di oltre venti gruppi nazionali, si legge ancora in una nota diffusa nei giorni scorsi, la regione sperimenta oggi tutti i rischi tipici associati all’estrazione del petrolio: dalla violazione dei diritti dei residenti alla deforestazione. Un tema sempre d’attualità, quest’ultimo, che continua a suscitare forti proteste (anche in Italia), soprattutto alla luce delle controverse politiche governative nel vicino Brasile. Le comunità locali hanno reagito con forza opponendosi all’espansione delle attività petrolifere. All’inizio di agosto alcune organizzazione hanno portato la questione in tribunale invocando una moratoria alle attività di trasporto del petrolio nella regione. Chiamando in causa proprio le responsabilità delle banche.
«Mi chiedo se i dirigenti delle banche in Europa conoscano il costo reale del loro finanziamento. Mi domando come possano dormire tranquilli sapendo che il loro denaro lascia migliaia di popolazioni e comunità indigene senza acqua, senza cibo e in condizioni di salute devastanti a causa dell’inquinamento dei fiumi Coca e Napo» ha dichiarato il Presidente della Confederazione delle nazionalità indigene dell’Amazzonia ecuadoriana (CONFENIAE), Marlon Vargas.
Quale sostenibilità?
Le richieste degli attivisti sono chiare: stop al finanziamento delle operazioni petrolifere, trasparenza e rispetto dei diritti delle popolazioni locali. I presupposti, in teoria, ci sarebbero. Tutte le banche coinvolte, sottolineano i ricercatori, hanno assunto negli anni impegni formali sulla sostenibilità e sul rispetto dei diritti dei popoli indigeni. Ma le risposte fornite dagli istituti, per il momento, non convincono del tutto.
Rabobank ha fatto sapere di non essere più impegnata nel finanziamento delle operazioni petrolifere nell’area. UBS e ING Belgium «hanno promesso di coinvolgere i loro stakeholder senza però impegnarsi ad aggiornare le loro politiche di sostenibilità». Mentre Credit Suisse, si legge ancora nella nota diffusa dalle organizzazioni, «ha riconosciuto l’importanza dei risultati del rapporto, ma ha declinato la propria responsabilità affermando che le sue politiche (di responsabilità sociale e ambientale, ndr) si applicano solo alle attività di project financing». Solo Natixis ha promesso di aggiornare le proprie linee guida sulla sostenibilità. BNP Paribas e Deutsche Bank non hanno risposto alle sollecitazioni.