di Nicolò Arpinati

La morte di Maria Paola Gaglione ha mostrato che c’è un pezzo di paese che ha ancora un grosso problema ad accettare la libertà di scelta dell’orientamento sessuale e di genere. Tra parole e azioni violente corre un filo rosso, neanche troppo sottile

A Caivano, un comune della città metropolitana di Napoli, il trentenne Michele Antonio Gaglione ha causato la morte della sorella Maria Paola Gaglione in seguito a un incidente stradale: il giovane stava inseguendo e speronando lo scooter su cui la sorella viaggiava con il compagno Ciro Migliore, quando la diciottenne è caduta. «Volevo darle una lezione, non ucciderla. Era stata infettata» avrebbe detto Michele ai carabinieri che lo stavano arrestando. Maria Paola, donna cis, frequentava da tre anni Ciro, uomo trans, ed era andata via di casa per vivere insieme al suo compagno.

Nelle ore successive altri elementi hanno contribuito a definire il quadro di intolleranza diffusa in cui il delitto è maturato. La madre di Ciro, dal suo profilo Facebook, ha accusato la mentalità retrograda dell’intera famiglia Gaglione, citando anche precedenti episodi di minacce. Mentre il parroco di Caivano ha cercato improbabili giustificazioni, pur condannando il gesto: «Il papà e la mamma di Paola hanno ammesso di avere avuto difficoltà ad accettare la scelta della figlia di stare con Ciro; ed erano preoccupati, perché, appena maggiorenne, Paola era andata via di casa con Ciro, senza avere un tetto stabile sotto cui abitare, senza che nessuno dei due avesse un lavoro che permettesse loro di vivere onestamente, e perché Paola, andandosene, aveva abbandonato la possibilità di continuare a studiare per diventare estetista. Preoccupazioni, queste, comuni alla maggior parte dei genitori italiani».

Come ha sottolineato la presidente di ArciGay Napoli, Daniela Lourdes Falanga: «Parliamo di due dinamiche che confluiscono. Qui c’è una donna che in qualche modo deve essere vinta dal volere degli altri e assoggettata al patriarcato; e c’è poi questa cultura per cui si debba negare la propria identità di genere a un ragazzo, la transfobia». Anche Cristina Leo, prima amministratrice transgender della capitale, assessora alle Politiche sociali e abitative e alle Pari opportunità del VII municipio di Roma, usa parole altrettanto dure e dirette: «La causa di questo femminicidio ha una chiara matrice transfobica. La transfobia non solo viene costantemente vomitata addosso alle persone trans, sia da vive che da morte, ma anche sulle persone che ci amano. Sappiamo bene che le nostre compagne e i nostri compagni sono spesso derisi e offesi, sia fuori che dentro la comunità LGBTI+. Quante volte abbiamo fatto finta di non sentire le battute transfobiche rivolte alle nostre compagne e ai nostri compagni». E conclude la sua denuncia con un accorato appello: «Chiedo a tutte le associazioni trans e a tutti i gruppi e le realtà locali che intendono commemorare il Transgender Day of Remembrance, di dedicare la giornata a Maria Paola, che non si è fatta intimorire dalle minacce della sua famiglia, e che ha deciso di vivere il suo amore per Ciro alla luce del sole, contro i pregiudizi di tutte e tutti. Il coraggio e l’amore di questa ragazza non devono essere dimenticati».

Poche ore dopo il femminicidio, il caso è uscito dalla cronaca locale per approdare nei media nazionali. Ed è qui che la storia è stata strumentalizzata nel peggiore dei modi. È il caso di Giorgia Meloni: «Tanta la violenza che si cela dietro questa inaccettabile morte: da quella contro gli omosessuali a quella sulle donne», ha scritto su Facebook la leader di Fratelli d’Italia, la prima oppositrice del disegno di legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia proposto dal deputato Alessandro Zan del Partito Democratico.

La legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia, dopo oltre vent’anni di dibattiti e la strenua opposizione della Conferenza Episcopale Italiana, è approdata alla Camera a luglio, per essere di nuovo rimandata a fine settembre. Eppure appare oggi più che mai necessaria l’approvazione delle minime, ma fondamentali, modifiche previste dalla proposta di Zan. Il breve testo amplia la cosiddetta legge Mancino, estendendo alle manifestazioni d’odio fondate sull’identità di genere e sull’orientamento sessuale i reati già previsti nel codice penale. Nel testo sono dunque inserite «disposizioni in materia di contrasto della violenza e della discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere».

E proprio intorno all’ ‘identità di genere’ sono scoppiate aspre polemiche questa estate. A luglio, l’associazione Se Non Ora Quando – sigla nata all’epoca dei bunga bunga berlusconiani e già famosa per le sue dichiarazioni contro l’utero in affitto – ha scritto una lettera aperta sostenendo che la terminologia ‘identità di genere’ sia una minaccia per l’esistenza del sesso biologico. Queste posizioni trans escludenti (Terf – Trans-Exclusionary Radical Feminism) sono sostenute strenuamente anche da Arcilesbica, la storica associazione di donne lesbiche nata nella seconda metà degli anni ’90.

Manifestazione di Non una di meno a Verona, marzo 2019 – foto di Daniele Napolitano

Perfino in occasione di un femminicidio mosso dalla transfobia Arcilesbica ha ribadito le sue posizioni escludenti e profondamente insensibili, dichiarando sui propri social network che «Ciro era Cira perciò non poteva resistere alle botte di Antonio, maschio di sesso maschile, senza scrupoli. Cira non può essere descritta come uomo solo perché si faceva chiamare Ciro. Le ferite del suo corpo di donna la raccontano chiaramente. […] Ciro perché? Cira immersa in un contesto socio culturale dove che, se non sei una donna allora sei un uomo, Cira, ha pensato che bastasse cambiare nome per resistere al disumano odio rivolto a ciò che restava della sua femminilità».

Una dichiarazione che ha indignato la comunità Lgbtqia+ italiana. Al riguardo Cristina Leo commenta a dinamopress che: «Arcilesbica vuole insegnare alle persone trans cosa sono e come si devono definire. Non solo praticano misgendering, ossia l’attribuzione di un genere sbagliato alle persone trans, ma vogliono anche spiegare loro qualcosa di cui in realtà le persone trans sono più esperte». E conclude: «Le posizioni di Arcilesbica Nazionale, da tempo, sono molto più vicine a quelle di un certo autoritarismo di destra, che non a quelle dell’associazionismo Lgbtqia+».

Ma molto misgendering è stato fatto anche da buona parte del giornalismo mainstream italiano, non sempre corso ai ripari dopo le numerose critiche ricevute. Come ha evidenziato l’attivista ed editrice Antonia Caruso ai microfoni di Radio Città Fujiko: «ancora una volta è stata misgenderata una persona trans, dicendo che la relazione che Ciro aveva con Maria Paola era una relazione gay, partendo dal presupposto che lui fosse una donna. La stampa è talmente incapace di dire le cose bene che non ha nemmeno detto una relazione lesbica. Addirittura ho letto che si trattava di una “relazione lgbt”, che di fatto non vuol dire niente (…). Non tenendo mai in conto che Ciro era un uomo trans».

Sono ancora le parole della napoletana Daniela Lourdes Falanga a spiegarci l’ingiustizia del misgendering: «Ciro in questa violenza inaudita subisce pure la condanna dell’ignoranza degli pseudo giornalisti e l’omertà di stampa. Lui non viene descritto come Ciro, ma come la compagna della ragazza morta. Se vogliamo capire cosa vuol significare che bisogna avere una legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia, questo è uno dei casi più espliciti».

Le parole sbagliate usate per descrivere Ciro negano la sua autodeterminazione e libera scelta. Purtroppo sgorgano dallo stesso sistema di oppressione eteropatriarcale che ha portato Michele a speronare il motorino della coppia, uccidendo la sorella.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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