Mario Lombardo
Dal mese di marzo, quando furono confermati i primi casi di COVID-19 in Cisgiordania, ad agosto, le autorità israeliane hanno demolito o confiscato poco meno di 400 edifici appartenenti ai palestinesi. A partire dall’inizio dell’anno, i palestinesi rimasti senza un tetto sono stati circa 700, metà dei quali bambini, e 205 nel solo mese di agosto. Questi numeri, secondo l’ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari dell’ONU (OCHA), sono i più alti dal 2017.
La demolizione di abitazioni in un territorio occupato è considerata una “punizione collettiva” inflitta a un determinato popolo e, secondo il diritto internazionale, è perciò senza ambiguità un crimine di guerra. La giustificazione che offre l’ufficio militare israeliano incaricato della gestione degli affari civili nei territori occupati è che gli edifici palestinesi distrutti sono privi dei permessi di costruzione. Quello che accade è cioè che i palestinesi che costruiscono sulla propria terra si vedono demolire le loro strutture da coloro che questa stessa terra la occupano illegalmente.
Anche considerando legittima la presenza e l’autorità di Israele, i palestinesi sono fortemente discriminati nella distribuzione dei permessi di costruzione in Cisgiordania. Secondo una ricerca del quotidiano israeliano Haaretz, tra il 2016 e il 2018 Israele ha approvato appena il 21% delle richieste palestinesi di costruire nell’Area C della Cisgiordania, quella totalmente sottoposta al controllo di Tel Aviv. I dati più recenti indicano poi un calo di quasi la metà del numero dei permessi di costruzione rilasciati ai palestinesi tra il primo e il secondo trimestre del 2020. Anche nei rari casi in cui i permessi vengono concessi, ai palestinesi è richiesto di corrispondere somme ingenti. Per questo motivo, spesso i palestinesi costruiscono senza “autorizzazione”, trovandosi così a rischio di vedersi demolire le loro abitazioni in qualsiasi momento.
Talvolta sono gli stessi palestinesi a decidere di distruggere gli edifici che hanno costruito, per evitare di pagare le sanzioni che accompagnano le demolizioni eseguite dalle autorità israeliane. Secondo un rapporto pubblicato questa settimana dal centro di ricerca palestinese SHAMS, nei primi sei mesi del 2020 si sono verificati 35 casi di questo genere in Cisgiordania.
Un paio di settimane fa, il responsabile per i territori palestinesi delle Nazioni Unite, Jamie McGoldrick, aveva presentato pubblicamente i dati sulle demolizioni nel corso del 2020. In quell’occasione, era stata ribadita la totale illegalità del comportamento israeliano e, sempre nel silenzio della grandissima maggioranza dei governi, soprattutto occidentali, veniva ricordato come “la pandemia abbia fatto aumentare i bisogni e la vulnerabilità del popolo palestinese, già intrappolato nell’eccezionalità di un’occupazione prolungata”.
L’ufficio dell’ONU ha spiegato anche che il Coronavirus ha aggravato pesantemente la situazione economica nei territori occupati e che, però, gli aiuti internazionali sono scesi al livello più basso dell’ultimo decennio. Ciononostante, secondo il già citato studio di SHAMS, tra le strutture distrutte da Israele in Cisgiordania nei mesi scorsi ci sono addirittura alcuni edifici adibiti alla lotta contro il Coronavirus. Se le abitazioni rappresentano quasi la metà del totale delle demolizioni, a finire sotto i colpi dei bulldozer israeliani ci sono regolarmente anche scuole, pozzi, impianti per l’energia solare e strutture destinate alle attività agricole.
Il sito web Electronic Intifada ha scritto che la campagna di demolizioni condotta da Israele interessa in gran parte l’Area C della Cisgiordania. Il resto dei casi riguarda invece quasi interamente Gerusalemme Est, mentre in misura molto minore le Aree A e B, formalmente sotto il controllo dell’Autorità Palestinese. L’interesse israeliano per l’Area C dipende dal fatto che lo stato ebraico punta a cambiarne gli equilibri demografici, forzando quindi le demolizioni per espellere da questa parte dei territori occupati il maggior numero possibile di palestinesi, in modo da assicurare una maggioranza ebraica.
Nel concreto, quello che sta facendo Israele, con la copertura degli Stati Uniti e degli altri paesi alleati, è dunque una vera e propria pulizia etnica. Anche dal punto di vista retorico e della propaganda politica, personalità di spicco della classe dirigente israeliana nascondono a malapena questo obiettivo, perseguito in totale e sprezzante violazione del diritto internazionale. Ribaltando i ruoli tra oppresso e oppressore, l’ex ministro della Giustizia Ayelet Shaked ha chiesto ad esempio un’azione governativa più efficace “per impedire l’invasione dell’Area C” da parte palestinese. Quello che intendeva sollecitare era in realtà l’occupazione completa da parte dei coloni israeliani di questo territorio palestinese.
Un altro aspetto significativo della campagna di demolizioni, che contribuisce a far capire il motivo per cui Israele può continuare ad agire nella piena illegalità, lo ha descritto sempre il sito Electronic Intifada. Nella sua furia demolitrice, il governo israeliano distrugge cioè frequentemente anche strutture costruite nei territori palestinesi grazie agli aiuti dei donatori internazionali.
Opere e progetti finanziati dall’Europa sono tra quelli più colpiti. Nel 2019, Israele ha demolito o confiscato strutture nate con i fondi europei per un valore di 500 mila dollari, facendo segnare un aumento del 90% rispetto all’anno precedente. Tra il 2001 e il 2016, i progetti UE finiti in macerie in Palestina ammontavano a un totale di 74 milioni di dollari. Più recentemente, durante i mesi della pandemia, Israele ha cancellato opere costruite grazie al denaro proveniente dall’estero per oltre 90 mila dollari.
A Bruxelles, tuttavia, non si registrano particolari provvedimenti nei confronti di Israele. Anzi, sono talvolta gli esponenti del governo israeliano ad attaccare l’Europa per il contribuito limitato che essa offre ai palestinesi nei territori occupati. Lo scorso mese di luglio, il ministro degli Esteri, l’ex generale Gabi Ashkenazi, aveva criticato in parlamento (“Knesset”) i progetti finanziati dall’UE nell’Area C della Cisgiordania perché non rispettano “le procedure israeliane per il rilascio dei permessi di costruzione”.
Ashkenazi condannava inoltre “l’intervento dell’Europa per cercare di definire il confine” nei territori occupati, come se spettasse esclusivamente a Israele risolvere una questione che implica, da parte della potenza occupante, costanti violazioni del diritto internazionale. Il ministro avvertiva infine che le strutture costruite nell’Area C grazie al contributo di Bruxelles e senza il permesso di Israele sarebbero andate incontro a gravi conseguenze, così come respinte seccamente tutte le “richieste di risarcimento per i danni derivanti dalle demolizioni e dalle confische” decise da Tel Aviv
https://www.altrenotizie.org/primo-piano/9013-israele-demolizioni-e-apartheid.html