Dopo il referendum del 20 e 21 settembre dobbiamo avere ben chiaro un fatto: non solo la Costituzione non sarà più come prima ma non lo sarà prima di tutto il Parlamento che nella Carta viene descritto minuziosamente e che risulta essere la specifica condizione democratica per la Repubblica. L’equilibrio tra i poteri dello Stato è, fuori di dubbio, altra condizione sine qua non per evitare che il Paese ceda a tentazioni che richiamino la prevalenza del Governo sulle Camere, quella di queste sull’Esecutivo o quella della Magistratura nei confronti degli altri due appena citati.

A rischiare sempre di più, a dire il vero, sono Parlamento e Magistratura, visto che i governi incarnarno il potere propriamente detto, ossia quello di cui se ne può avvertire la presenza nella vita quotidiana frutto degli ordini che vengono dati da Roma e che sono direttamente eseguibili dalle prefetture, dalle forze dell’ordine e dai tanti uffici decentrati che fanno capo ai singoli ministeri.

Mentre il rapporto tra cittadini e Parlamento è un rapporto “rappresentativo” (non “diretto” come pretenderebbe Grillo) e diviene particolarmente sensibile nell’atto del voto, quindi nell’espressione della delega che esprime la sovranità della popolazione rispetto a tutte le istituzioni dello Stato, il rapporto con Magistratura e Governo è di subordinazione: il Presidente del Consiglio e i ministri possono emanare decreti che si riversano – soprattutto se hanno carattere di urgenza come i DPCM che abbiamo imparato a conoscere in questo anno di pandemia – con immediatezza nella nostra quotidianità di vita e ne modificano non solo lo stile legato a tempi, situazioni, abitudini ma soprattutto i rapporti sociali ed economici che intercorrono, lo si voglia o meno, tra tutte e tutti noi.

Quindi, essere intervenuti nella modifica sostanziale (e sostanziosa) del Parlamento, averne diminuito il numero significa aver agito nei confronti dell’unico potere dello Stato che ha un rapporto diretto con la popolazione e che da essa dipende nella misura in cui i cittadini riescono ad interagire con i rispettivi deputati e senatori frutto dell’elezione nei rispettivi collegi circoscrizionali. Nella populistica tensione emotiva dell’isteria di massa contro le istituzioni, figlia del calcolo politico dei Cinquestelle, risiede purtroppo oggi la incontrovertibile decisione sul taglio del Parlamento.

Non vi è nulla di politicamente nobile, di istituzionalmente degno nell’aver spinto 17 milioni di italiani ad amputare l’organo vitale della democrazia repubblicana nel nome di un presunto risparmio per le casse dello Stato che ha nascosto invece i motivi fondanti dell’apertura di una nuova fase istituzionale.

Una fase votata alla valorizzazione (negativa per l’assetto democratico del Paese) del Governo come organo “rifondante” la Repubblica, da parlamentare a semi-parlamentare. Non sono la Camera dei Deputati e il Senato ad essere percepiti dai cittadini come risolutori delle crisi del Paese: del resto chi ha gestito e gestisce il potere esecutivo non ha fatto del suo meglio per esaltare il ruolo del Parlamento nella elaborazione delle leggi secondo i bisogni civili e sociali.

Ha anzi messo sé stesso al centro di una attenzione non soltanto frutto dell’effetto megafono causasto dal Covid-19 ma dall’esigenza, fin troppo rimandata (grazie anche ai referendum) da parte delle forze politiche populiste, sovraniste e variamente conservatrici, di ridefinire i rapporti istituzionali della Repubblica e avviarla ad una transizione molto pericolosa che già contempla, per quei moderati di centrodestra che conservano un certo aplomb da pubblica virtù (e dai tanti vizi privati), un modello semi-presidenzialista, mentre i più estremisti si lanciano nella voglia di maggioritario spinto e di presidenzialismo a tutto tondo.

Ad una settimana dalla consultazione referendaria, dopo la fiumana di parole che si sono incrociate dai giornali alle televisioni, su Internet senza alcuna morale ma con tanti moralismi fuori luogo, è possibile trarre almeno questa conclusione: gli effetti del taglio al Parlamento li vedremo alla fine di questa legislatura e saranno devastanti per la tenuta sociale del Paese che è legata a quella di una stabilità minimamente formale dei valori costituzionali immessi nei diversi apparati dello Stato.

L’Italia non diventerà una dittatura, un regime autoritario. Queste sono, almeno al momento, scempiaggini che si possono dire candidamente, ma che altrettanto oggettivamente non si possono considerare realistiche, visti i rapporti politici, economici e sociali che viviamo. Ma il nostro Paese rischia di aver sdoganato, dopo la possibilità per i neofascisti di presentarsi al voto, dopo la tolleranza incomprensibile che tutt’ora esiste nei confronti di chi propaganda odio, razzismo, xenofobia, omofobia, a patto che lo faccia sotto forma di “idee da rispettare” (!), anche un’altra possibilità: quella di addurre delle motivazioni tutt’altro che ordine veramente costituzionale per modificare la Costituzione stessa.

Diventare i sacerdoti degli dei dell’Onestà e del Risparmio, sorella e fratello di un dio maggiore del Qualunquismo divenuto bussola della considerazione che molte persone, vilipese da politiche di depredazione dei loro stipendi, delle pensioni, di vite precarie mai reste un briciolo stabili, non ci ha portato a scoprire una nuova era democratica che amplierà la sovranità popolare. Al contrario: la vittoria del SI’, che va contestualizzata comunque nella fase di estrema difficoltà in cui viviamo a causa dell’emergenza sanitaria, ma che non ci esime comunque dalla considerazione sull’astensione della metà del corpo elettorale dal recarsi alle urne, è più di un passo indietro rispetto al ruolo del Parlamento e a tutto l’indotto istituzionale che gli gravita intorno.

Attaccare il Parlamento oggi, riuscirci grazie ad un patto scellerato di governo che includeva una clausola come quella accettata dal PD dopo (e dalla Lega prima), è aprire la possibilità per altri attacchi mascherati – si intende – da riforme benefiche per la democrazia, per la nostra società, per il benessere comune.

Adesso, almeno noi che abbiamo riconosciuto questo pericolo e lo abbiamo combattuto schierandoci per il NO, abbiamo il dovere di fare qualunque cosa sia possibile perché la rappresentanza nelle Camere avvenga su base proporzionale e pura. Senza sbarramenti, senza altri trucchetti messi lì per escludere alcuni e privilegiare altri.

Se la logica del maggioritario deve avere termine, deve averlo in tutti i campi della vita sociale e politica: non ha ragione chi è maggiore rispetto ad altri, ma ha ragione chi porta avanti delle idee che rientrano nei valori fondanti la Repubblica. Dall’antifascismo alla laicità, dal lavoro come garanzia sociale e individuale della vita di ognuno, dal ruolo pubblico di ogni ambito di tutela e di crescita della popolazione: scuola, previdenza, sanità, cultura, ambiente, differenze.

Solo estirpando la logica del maggioritario anche la maggioranza potrà dire di essere veramente tale e di non essere più abusiva grazie alla distorsione non solo del suo nome, ma soprattutto del suo ruolo tanto sociale quanto politico e istituzionale al tempo stesso.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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