Il governo italiano è riuscito a fermare tutte le navi umanitarie. Intanto le persone continuano a morire: 190 tra il 14 e il 25 settembre in cinque naufragi davanti alle coste libiche

Alla fine se la sono presa anche con Mediterranea: dopo aver bloccato le navi delle altre Ong, giovedì scorso la guardia costiera ha vietato l’imbarco sulla Mare Jonio di due figure fondamentali per i soccorsi in mare. Nel frattempo le persone continuano a morire. Questa mattina Alarm Phone ha pubblicato un rapporto in cui documenta 190 morti in cinque naufragi avvenuti tra il 14 e il 25 settembre.

Il cambio di colore nel governo italiano, avvenuto nel settembre scorso, aveva annunciato una discontinuità in materia di politiche migratorie che nei fatti è difficile, a un anno di distanza, ravvisare. I decreti sicurezza non sono stati modificati e il Memorandum Italia-Libia è stato invece rinnovato tacitamente, la delega delle operazioni SAR alla Libia non si è fermata e nell’aprile di quest’anno è stato disposto un nuovo stanziamento di 1,6 milioni di euro per sei nuove imbarcazioni per il «servizio navale della polizia libica». Sono proseguite le pratiche di criminalizzazione del soccorso in mare delle organizzazioni non governative e della “civil fleet”, così come gli episodi di non intervento e mancata attivazione dei servizi di ricerca e soccorso da parte delle autorità italiane.

Nell’autunno del 2019 la nave Ocean Viking ha dovuto vagare per dieci giorni, con a bordo donne incinte e minori, prima che le venisse assegnato un porto di sbarco dal governo italiano, mentre per la Alan Kurdi ci son voluti 8 giorni di navigazione ad aprile prima di poter trasferire le persone soccorse sulla “nave quarantena” Rubattino. Lo stesso è accaduto alle altre navi civili come la Sea Watch 3, la Aita Mari e di nuovo nel corso del 2020, alla Ocean Viking. L’ultimo standoff è stato quello della Open Arms, con a bordo 276 naufraghi, molti dei quali si erano lanciati in acqua solo pochi giorni fa davanti al porto di Palermo.

Oggi, dopo la vergognosa vicenda della Marsk Etienne, che è rimasta in acque internazionali con 27 naufraghi a bordo per 38 giorni, vengono impedite le operazioni di imbarco del Rescue Team di Mediterranea Saving Humans, bloccando, di fatto, la missione.

Le novità sono dunque da ricercare su altri fronti, a partire dal timido accordo di Malta di ottobre 2019, passando per le “navi quarantena” fino ad arrivare alle più sofisticate forme di criminalizzazione e blocco delle attività delle navi civili che operano nel Mediterraneo centrale, documentando quanto accade e soccorrendo chi si trova in pericolo.

A Malta si ipotizzava, dopo una stagione di accuse all’Europa da parte del fronte populista euroscettico, un meccanismo di solidarietà su base volontaria relativo alla redistribuzione dei migranti tratti in salvo nel Mar Mediterraneo. L’obiettivo era quello di costruire un dispositivo di ricollocamento più strutturato rispetto alle soluzioni ad hoc adottate nei quattordici mesi del governo precedente. Forse l’unico timido cambiamento impercettibile sulla pelle di chi ha continuato a morire in mare è stato il rafforzamento delle relazioni europee nella direzione di una maggior armonizzazione che in questi giorni ha preso le sembianze del bizzarro concetto di solidarietà espresso da Ursula Von Der Layen: più soldi alle operazioni di rimpatrio nei paesi di provenienza, da dove chi si è messo in viaggio è coraggiosamente venuto via, affermando il proprio diritto a muoversi, a vivere e a essere liber*.

La pandemia ha contribuito al rinnovamento  della sintonia tra le forze (e le coalizioni) europee anti sovraniste che tra le altre misure urgenti e necessarie per limitare il disastro economico, sanitario e sociale causato da Covid-19, ha messo in campo strumenti sempre più raffinati per il controllo dei flussi migratori, additati ovviamente come i “veri responsabili” del virus, altro che movida e discoteche.

Proviamo dunque a ripercorrere brevemente le preoccupanti vicende relative al soccorso in mare che decisamente ancora non vedono la centralità della dignità delle persone che sono in mare, della determinazione e del coraggio di chi spostandosi lotta per la libertà di movimento propria e di tutt* e per il ripristino del rispetto dei fondamentali diritti umani, del valore politico delle azioni di salvataggio che sempre più, si configurano come azioni di disobbedienza civile a fronte di norme che producono gravi violazioni dei diritti fondamentali e si pongono in contrasto con la più elementare delle norme etiche: chi è in pericolo in mare va salvato, mettendo fine al paradossale dilemma sulla giustezza o meno del salvataggio in mare.

Innanzitutto il 7 aprile 2020 il governo italiano ha emanato un decreto interministeriale – in vigore per tutta la durata dell’emergenza sanitaria – nel quale viene disposto che nessun porto italiano può considerarsi “sicuro” per lo sbarco di migranti soccorsi in zone Sar non italiane da navi battenti bandiera straniera. Una settimana dopo, il 12 aprile, è stato invece pubblicato un Decreto del Capo Dipartimento della Protezione civile con cui è stato affidata al Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero dell’interno la gestione delle procedure legate alla quarantena dei cittadini stranieri soccorsi o arrivati autonomamente via mare. Sulla base di questo decreto il governo può utilizzare navi per lo svolgimento del periodo di sorveglianza sanitaria, le cosiddette “navi quarantena”. Circa le contraddizioni implicite in questo dispositivo si riporta una nota dell’ASGI: «innanzitutto si tratta di un dispositivo privativo della libertà personale che differisce in maniera lampante dalle misure a cui sono stati sottoposti i cittadini stranieri giunti in Italia con altri mezzi. Il Decreto interministeriale del 17 marzo prevedeva infatti che le persone in arrivo dall’estero, in assenza di sintomi, dovessero comunicare il proprio rientro al dipartimento di prevenzione della ASL e sottoporsi a isolamento fiduciario e sorveglianza sanitaria per un periodo di 14 giorni. Si tratta quindi di una formula dai marcati caratteri discriminatori».

È importante interrogarsi su quale sarà il futuro di questa pratica adottata in tempi di emergenza, se come è accaduto per altri dispositivi di governo della migrazione, fra tutti gli hotspot, non sarà normalizzata e utilizzata anche fuori dall’urgenza. Si tratta di una pratica non solo discriminatoria ma anche fortemente connotata dal punto di vista simbolico: i migranti soccorsi non sbarcano veramente in Italia, la conoscenza di quello che accade a bordo è limitata così come può essere arbitrariamente limitato l’accesso ai diritti, fra tutti il diritto a chiedere asilo. Nel corso di questi mesi un cittadino tunisino di 22 anni, Bilal Ben Messaud, si è tolto la vita gettandosi dalla nave Moby Zaza e sono stati registrati altri atti di autolesionismo tra le persone in quarantena sulle navi.

Un elemento di “discontinuità” lo troviamo poi nel metodo utilizzato dall’attuale governo per bloccare o ritardare le attività delle navi civili che attraversano il Mediterraneo documentando i respingimenti, molto più “efficace” di quello del governo “giallo-verde”, piuttosto silenzioso, la cui legittimità è ancora tutta da verificare. A partire da aprile, infatti, gli equipaggi delle navi delle ONG sono tenuti a svolgere la quarantena a bordo delle navi stesse e successivamente la Guardia Costiera italiana ha sistematicamente disposto il loro fermo sulla base di una discutibile interpretazione delle norme sulla sicurezza della navigazione. Fino a oggi sono state sottoposte a questa misura Aita Mari, Alan Kurdi, Sea Watch 3, Sea Watch 4 e Ocean Viking). La Alan Kurdi ha potuto riprendere le proprie attività solo cinque mesi dopo il fermo, le altre sono ancora bloccate. Stesso destino per l’aereo Moonbird, a cui viene impedito di volare sulla base di un provvedimento amministrativo che contesta il suo utilizzo e l’attività di documentazione svolta.

Tutto ciò avviene in un contesto in cui la stagione estiva, la diffusione del virus in Africa, la situazione libica hanno reso ancora più frequenti rispetto all’anno precedente le partenze e ciononostante appare sempre più collaudato il meccanismo di scaricabarile tra l’Mrcc Roma, Malta e la cosiddetta Guardia Costiera Libica. Molte partenze, nessuno Stato che si sia assunto la responsabilità di intervenire, naufragi e respingimenti verso la Libia sono costantemente riportati da Alarmphone e dalla stampa. Il meccanismo si presenta con poche variazioni sul tema se non una rinnovata e subdola aggressività delle autorità maltesi in aperto accordo con le “autorità libiche”. Il modus operandi delle autorità maltesi si è fatto da allora sempre più spregiudicato, dalla “strage di Pasquetta” ai lunghi standoff delle navi commerciali Thalia e Maersk Etienne, all’utilizzo di traghetti turistici per detenere illegittimamente centinaia di naufraghi al largo delle coste maltesi.

In questo clima il divieto di imbarco da parte della capitaneria di porto di Pozzallo per le due figure “tecniche” legate al soccorso in mare sulla Mare Jonio (Mediterranea Saving Humans) va letta come una provocazione. Tecnicamente la questione riguarda un conflitto tra il RINA (registro italiano navale) e la Guardia Costiera: il primo ha certificato che la nave può svolgere attività Sar (di ricerca e soccorso), mentre la seconda ne ha contestato tale decisione. Un conflitto squisitamente politico, tassello del puzzle precedentemente disegnato che, anche se ben camuffato da tecnicismi marittimi, blocca in porto la Mare Jonio. Insomma per il nuovo governo soccorrere è vietato, morire in mare è concesso. All’orizzonte non si vede nessuna discontinuità con Salvini.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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