L’enciclica di papa Bergoglio “Fratelli tutti” si rivela anche un atto di accusa verso le politiche neoliberiste e riafferma l’esigenza di «lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi». Insomma, per dirla con Faber: se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato
Non c’è più la teologia di una volta, con grande rimpianto dei pochi (me compreso) che se ne dilettavano. Vale sul versante reazionario per il Ratzinger epigono meschineddu di Urs von Balthasar, vale sul versante progressista per la teología del pueblo argentina (per averne un’idea, si veda Juan Carlos Scannone, La teologia del popolo. Radici teologiche di papa Francesco, Queriniana 2019), fonte principale di papa Bergoglio, rispetto alla teologia della liberazione di Boff, Gutiérrez e Camilo Torres. Quindi accontentiamoci e non pretendiamo di misurarci con grandi sistemi teorici – cosa del resto cui abbiamo rinunciato anche nella valutazione delle forze politiche di sinistra, di cui andiamo a vedere i programmi e le azioni concrete, senza indagare troppo sulle abborracciate teorie che ne sarebbero cornice e presupposto.
Giudichiamo quindi l’Enciclica “Fratelli tutti” – che è un testo della tradizione gesuitica argentina, non francescano o di teologia della liberazione – sulla sua base ideologica reale, allo stesso modo in cui valutiamo un centro sociale per quello che fa e non per il grado di marxismo desumibile dalla sua storia o dai suoi dirigenti e militanti.
In tale prospettiva, la “spiritualità del popolo” e la “religione del popolo”, intendendo per tale la tradizione dei poveri, degli ultimi e dei “popoli originari”, le evidenti implicazioni con il populismo peronista post-Perón (e neppur sempre con quello di sinistra, come dimostra la tormentata storia personale di Bergoglio durante la dittatura) e i limiti posti alla conflittualità sono elementi reali ma secondari del giudizio: conta piuttosto la pratica effettiva che è espressa da quella teologia scadente e compromissoria, contano le proposte politiche, se coerenti con le azioni reale della Chiesa di cui Bergoglio è capo politico, per quanto contrastato.
Cioè prendo sul serio Bergoglio quando parla dei migranti, perché si adopera in concreto in quella direzione, quando elogia gli sfrattati perché manda qualcuno a riallacciare la luce, mentre diffido di chi si impegna a stabilire lo ius soli e poi rinuncia, di chi si dichiara contro la speculazione edilizia e poi manda la polizia a sgomberare le occupazioni.
Assumiamo il punto di vista degli oppressi e degli “scartati” che ne traggono beneficio e di chi si batte per aiutarli e organizzarli, il punto di vista delle “zecche” – noi siamo “le zecche”, gli eredi, con lo stesso rovesciamento polemico dell’epiteto diffamatorio, dei gueux che si ribellavano all’Impero spagnolo, dei laceri sanculotti, dei refrattari e delle pétroleuses della Commune parigina. Tutto qui, visto che non siamo in una facoltà di teologia o a una scuola di marxismo – due luoghi, peraltro indispensabili per capire la genealogia di concetti quali sovranità, mandato e carisma.
Del resto, anche l’anti-teologia pragmatica di Bergoglio è un approccio teologico non standard, fu l’opzione di Paolo contro la filosofia greca e il principio di non contraddizione, la scelta della kénosis contro il potere giuridico romano. Dopo di che non staremo a discutere le posizioni di Paolo sul capo coperto delle donne o di Bergoglio sull’aborto e sulla famiglia, ma ci soffermeremo sugli elementi di rottura che offrono in altri campi. Neppure ci soffermiamo troppo sui luoghi comuni, ormai, delle encicliche: la condanna della guerra, della pena di morte, del consumismo, l’effetto nefasto del mercato globale sulle comunità e sulle identità originarie, il ruolo dell’amicizia e dell’amore. Né stiamo a rimarcare la sottintesa denuncia della concorrenza, cioè delle chiese evangeliche che si stanno rapidamente diffondendo in tutta l’America latina incrementando l’individualismo selvaggio e fungendo da cavallo di Troia dell’egemonia statunitense più reazionaria, come in Brasile.
Veniamo a una critica più pertinente del neoliberismo: «Prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci. Spesso le voci che si levano a difesa dell’ambiente sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando di razionalità quelli che sono solo interessi particolari.
In questa cultura che stiamo producendo, vuota, protesa all’immediato e priva di un progetto comune, è prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni» (17). Secco, preciso.
Come specificato in 20. Riduzione del costo del lavoro, disoccupazione, razzismo contro i poveri e fra i poveri. Ci sono regole economiche efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano integrale (21), così da generare «nuove povertà». Altro che riduzione della povertà, lo è solo adattando le statistiche a vecchi parametri, per esempio non calcolando nella soglia di povertà l’accesso all’acqua, all’elettricità o al wi-fi, che invece sono ormai necessari. Capito perché ha fatto riallacciare le utenze allo stabile occupato Spin Time?
E adesso migranti. Certo, l’ideale sarebbe che nessuno fosse costretto a emigrare e che gli abitanti del Terzo Mondo fossero aiutati a casa propria ma, «finché non ci sono seri progressi in questa direzione, è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua famiglia» ma anche realizzarsi pienamente come persona. Inoltre, «tanto da alcuni regimi politici populisti quanto da posizioni economiche liberali, si sostiene che occorre evitare ad ogni costo l’arrivo di persone migranti» e allo stesso tempo che «convenga limitare l’aiuto ai Paesi poveri, così che tocchino il fondo e decidano di adottare misure di austerità» (37). Non ci si rende conto che, dietro queste «affermazioni astratte difficili da sostenere» (eufemismo per le orride cazzate del Fmi), ci sono tante vite lacerate. Vite non separabili per categorie – profughi politici o climatici e migranti economici.
L’Enciclica neppure prende in considerazione questa distinzione, che è corrente presso la governance europea e italiana (anche di sinistra): «Molti fuggono dalla guerra, da persecuzioni, da catastrofi naturali. Altri, con pieno diritto, sono alla ricerca di opportunità per sé e per la propria famiglia».
Con pieno diritto di varcare la frontiera e di essere accolti. Come recita un capoverso dell’Enciclica: Diritti senza frontiere. «Nessuno dunque può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi» (121). Dunque, visto che comunque arrivano e a giusto titolo, i nostri sforzi nei confronti delle persone migranti, dopo varcato il confine o una volta sbarcati o salvati in mare, si possono riassumere in quattro verbi: «accogliere, proteggere, promuovere e integrare». Non calando dall’alto programmi assistenziali, ma facendo insieme un cammino che conservi le rispettive identità culturali e religiose e valorizzando le differenze nel segno della fratellanza umana (129).
Premesso, secondo una tradizione ecclesiale non particolarmente nuova, che «lo sviluppo non dev’essere orientato all’accumulazione crescente di pochi […] e Il diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri» e neppure al di sopra del rispetto dell’ambiente, poiché chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti» (122), si passa alle proposte concrete e qui sta la ciccia, ovvero si delinea un programma molto più radicale delle proposte correnti della sinistra riflessiva – e non parliamo del teppismo organico della destra e dell’idiozia pentastellata dei malfamati “taxi del mare”.
Elenchiamo: «Incrementare e semplificare la concessione di visti; adottare programmi di patrocinio privato e comunitario; aprire corridoi umanitari per i rifugiati più vulnerabili; offrire un alloggio adeguato e decoroso; garantire la sicurezza personale e l’accesso ai servizi essenziali; assicurare un’adeguata assistenza consolare, il diritto ad avere sempre con sé i documenti personali di identità, un accesso imparziale alla giustizia, la possibilità di aprire conti bancari e la garanzia del necessario per la sussistenza vitale; dare loro libertà di movimento e possibilità di lavorare; proteggere i minorenni e assicurare ad essi l’accesso regolare all’educazione; prevedere programmi di custodia temporanea o di accoglienza; garantire la libertà religiosa; promuovere il loro inserimento sociale; favorire il ricongiungimento familiare e preparare le comunità locali ai processi di integrazione» (130). Indicazioni congruenti con quelle dell’Onu, non della Ue o di Minniti e Salvini.
È di vivo interesse che ciò comporti un cambiamento lessicale e giuridico per gli immigrati soggiornanti.
«Stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli» (131). La stessa identità ne risulta trasformata in «una nuova sintesi», che supera ogni tentazione “indigenista” statica mediante l’apertura ad altre culture e che faccia tesoro – qui cade la parola magica – del «meticciato» (148). Gli altri sono costitutivamente necessari per la costruzione di una vita piena e la parzialità non è una minaccia ma la chiave di ogni progetto comune, dato che (con una sorprendente citazione di Simmel) «l’uomo è l’essere-limite che non ha limite» (150).
Come ci si poteva attendere, largo spazio è concesso a temi consueti nella storia dell’istituzione ecclesiastica fin dalle origini ma su cui papa Francesco ha riportato l’attenzione: l’attenzione pastorale a chi rimane indietro, ai poveri, ai deboli, ai “malriusciti” (avrebbe detto Nietzsche), oggi enfatizziamo i “vulnerabili”. Tuttavia il contesto effettuale è quello della critica al neoliberalismo che taglia ogni investimento in materia e all’invito, soprattutto in tempi di pandemia, al “ritorno della Stato” (108), con il ragguardevole distinguo, in termini di classe, fra coloro che «nascono in famiglie di buone condizioni economiche, ricevono una buona educazione, crescono ben nutriti, o possiedono naturalmente capacità notevoli [e che] sicuramente non avranno bisogno di uno Stato attivo e chiederanno solo libertà» e «per una persona disabile, per chi è nato in una casa misera, per chi è cresciuto con un’educazione di bassa qualità e con scarse possibilità di curare come si deve le proprie malattie». In società fondata su criteri della libertà di mercato e dell’efficienza «non c’è posto per costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica» (109). Giudizio duro e pertinente, che associa per sempre il neoliberalismo alla “cultura dello scarto”.
L’appello, non certo inedito, alla solidarietà e il rilievo sulla sua scarsa popolarità presso l’opinione mainstream che la taccia di “buonismo” prendono però un colore più forte nel riferimento specifico al fatto che la solidarietà resti un valore fra «gli ultimi» e la loro espressione politica che sono «i movimenti popolari» che «fanno la storia». Per chi ha praticato durante la pandemia il mutualismo sociale dal basso non è poco.
Chiaro che Bergoglio sta giocandosi una partita per l’egemonia culturale in Argentina e nel mondo, ma non è un approccio disprezzabile il fatto di nominare, sia pure con intenti riformistici (ma buttali via), l’esigenza di «lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi» (116). Che questo comporti, da un lato, la lotta contro la povertà generata dal neoliberalismo, dall’altro il tentativo di ridurre lo spazio di una trasformazione di classe e del ruolo crescente svolto in essa dal femminismo, la lotta contro Macri e però la difesa sostanziale del patriarcato – beh, questa è una contraddizione che nel medio periodo ci sembra insormontabile ma non si riversa con peso eccessivo sul terreno dell’azione.
Così come non è mera retorica affermare che Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti».
Il tutto corredato da una precisa smentita della dottrina del trickle down: «Il neoliberismo riproduce se stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” o del “gocciolamento” – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale (168). Certo, subito dopo si tessono le lodi di politiche economiche proattive che promuovano la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale e strutturino un mercato più “sano”, per cui, tuttavia, si constata esser venuta meno una fiducia dal basso in tempi di pandemia. E di nuovo vengono chiamati in gioco, sempre come sostegno a un mercato riformato, «i movimenti popolari che aggregano disoccupati, lavoratori precari e informali e tanti altri che non rientrano facilmente nei canali già stabiliti […] con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune» (169). Che il loro incontro sia «poesia sociale» è un abbellimento armonizzante, noi però abbiamo gli editti della Confindustria di Bonomi e le faticose mediazioni di Conte, quindi non ci sputiamo subito sopra. Anche l’idea, per altri aspetti ovvia, dell’erroneità di politiche sociali «concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri» si unisce al riconoscimento – retaggio del populismo di sinistra latino-americano – che senza i movimenti dal basso «la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino». A metà fra le reducciones gesuitiche sei-settecentesche e Laclau.
Insomma, per dirla con Faber: «Se non del tutto giusto / quasi niente sbagliato».
Molte cose sono articolate meglio nei testi della nostra tradizione, marxista e operaista, ma tempo e luogo delle enunciazioni contano. Sui fogliacci della destra italiana e nelle sedi internazionali ed ecclesiali del pensiero conservatore il Papa è accusato apertamente di comunismo. Questa lode è immeritata, sorvola sulle differenze di struttura, a cominciare dal materialismo. Ma una cosa possiamo dirla: su alcuni temi non secondari, Bergoglio non è comunista ma è una zecca come noi.