Quando tante sciagure ci si avventano contro, anche una certa dose di vittimismo è più che comprensibile: si maledicono gli dei, si impreca contro la natura che si definisce “matrigna” piuttosto che “madre” e si inanellano una serie di giaculatorie che servono magari a calmare la rabbia, a lenirla temporaneamente ma che non risolvono i problemi che stanno alla base delle tragedie meteorologiche che investono ormai con chirurgica precisione i territori in cui viviamo e in cui pensiamo di essere al sicuro da tutto e da tutti.
Non è così. Non siamo più certi di nulla, ammesso che lo si sia stati anche nel passato, con le tante piccole disperazioni che nel corso del dopoguerra si sono affacciate sulla vita degli italiani ma, sarebbe meglio dire, delle popolazioni mondiali, vista la globalizzazione che ha investito il Pianeta nel corso di pochi decenni di sviluppo tecnologico e scientifico e di espansione del capitalismo a tutto tondo in ogni continente.
626 millimetri di pioggia e tre regioni del Paese vanno letteralmente a bagno: crollano ponti appena costruiti, rovinano negli alvei dei fiumi case in costruzione su fondamenta che tanto fondanti – come si può vedere dalle foto rimbalzate su tutti gli organi di informazione – alla fine non erano; persino una fabbrica viene spazzata via dalla furia delle acque, franando anch’essa nel sottostante torrente, trascinata via dalla potenza dell’acqua.
Un vigile del fuoco muore travolto da un albero mentre alcune persone sono date per disperse: le frane montagnose che precipitano a valle investono i piccoli centri e ne fanno un composto melmoso che penetra in ogni abitazione, garage, negozio. Non risparmia nulla la naturale ricerca del fiume di una via dove prendere nuova forma, seguire tutti gli spazi dove può incanalarsi e arrivare a sfogarsi in altri corsi d’acqua o, addirittura, fino al mare.
E’ un punto di vera e propria “naturalità“: gli elementi si riprendono i loro spazi e lo fanno non con spietatezza, durezza, disumanità. Non c’è volontà, premeditazione o chissà cosa d’altro nella potenza dei corsi d’acqua. C’è solo la pendenza e la forza di gravità che spinge sempre più in basso, che non può lasciare tregua tanto alla casa che si trova lì da tantissimo tempo quanto a quella frutto di un abuso edilizio, condonata e poi maledetta dall’uomo stesso perché crollata o invasa fino al tetto da una fanghiglia che fa presto ad irrigidirsi e a divenire una muraglia impenetrabile.
Il punto di naturalità ha una sua etica nella primogenitura, in una sorta di “ius soli” che non è questa volta disputa tra chi della specie umana è nato prima o dopo in un determinato paese; semmai la questione riguarda se è venuta prima la natura o l’uomo. L’antropocentrismo, che nel corso dei secoli si è consolidato e ha reso il Pianeta schiavo del principio deleterio che proclama il dominio umano su tutte le altre specie e sull’ecosistema, deve essere superato se si vuole rimettere mano ad una conversione ecologica, ad un rinnovamento ambientale che contempli l’umano nel naturale ma non quest’ultimo a disposizione esclusiva del primo.
Il sistema capitalistico è irriformabile e, pertanto, non ci si può attendere una rivoluzione egualitaria in questo senso, visto che nemmeno è possibile aspettarsi un riconoscimento di pari diritti tra tutti gli esseri umani, ma sempre e soltanto la divisione in classi sociali che si frappongono, visto che chi possiede i mezzi di produzioni e le leve economico-finanziarie domina sul resto dell’umanità che ne – direttamente o meno – alle dipendenze e a cui non si sfugge.
Ritenere che dentro il sistema della proprietà privata delle industrie, dell’accumulazione dei profitti prodotti dai lavoratori per i padroni, della spinta finanziaria dettata dall’altalenante mercato borsistico si possa giungere anche soltanto ad un accenno di volontà in chiave ambientalista, vorrebbe dire illudersi sapendo di farlo; quasi crescere un alibi dentro noi per poterci reciprocamente dire: «Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, ma il sistema non ci permette di andare oltre, di fare di più».
Invece dobbiamo andare alla radice del problema, sapendo che oggi percepiamo tutto l’attacco che la natura ci rivolge contro come tale è perché non vediamo fino in fondo la consistenza e le fattezze del tema ci si pone innanzi: quello della trasformazione sociale inserito nel più ampio e complesso tema della trasformazione ambientale.
Il che significa prendere coscienza tanto delle ingiustizie che gli esseri umani mettono in essere fra loro stessi, con le differenze consolidate di classe, da secoli e secoli, con culture della sopraffazione e della prevaricazione che prendono origine dalla superiorità di un popolo su altri, nel nome dell’intelligenza, della forza, della potenza militare, economica e della religione (qualora non fossero sufficienti tutti i precedenti motivi…); quanto significa prendere coscienza delle differenze di specie, quelle più rigidamente sedimentate nel corso dei millenni.
Il dominio dell’uomo sulla natura, quell’antropocentrismo di cui si parlava pochi paragrafi sopra, prende spunto ampiamente dalla visione religiosa dell’uomo creato da qualunque dio e messo sulla terra per farne la sua casa esclusiva, il suo dominio. Tutte le altre creature viventi devono essere, pertanto, al suo servizio.
La moderna lotta per la riconversione ecologica del Pianeta non può prescindere dalla lotta di classe tra gli esseri umani; ma nemmeno può la lotta di classe prescindere dalla lotta antispecista: liberazione umana dallo sfruttamento umano e liberazione animale dallo sfruttamento umano, così come liberazione della natura dall’antropocentrismo, sono tutte e tre lotte necessarie ad una costruzione di un nuovo rapporto tra noi e il resto del mondo.
Una senza l’altra, finirebbero per essere parziali riforme di un sistema di dominio che continuerebbe ad esistere in forme differenti, ma comunque esisterebbe. Si può abolire il profitto, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la proprietà privata dei mezzi di produzione, arrivare ad una società di federati che producano per i propri bisogni e non per l’accumulazione del capitale a vantaggio di pochi, ma si persevererà nel dominare gli animali e la natura considerando entrambi ad esclusivo servizio dell’essere umano, non si potrà parlare di vera liberazione, di vera rivoluzione.
Il nuovo millennio deve rimettere in discussione i parametri sino ad ora considerati della lotta di classe ed includere tutte le forme di liberazione da qualunque pregiudizio impositivo, da qualunque volontà apparentemente positiva che pretende di migliorare la vita degli esseri umani sfruttando le vite degli altri esseri viventi e le loro sofferenze: sia per il piacere del palato o per esperimenti scientifici. Quanto meno, in questa fase ancora capitalistica della vita di tutti, si può lottare affinché tutto questo conosca un minore impatto possibile sulla natura, sulla grande varietà di un ecosistema in cui sempre più specie animali e vegetali vengono a scomparire, estinguendosi sotto la morale della vita sempre più bella e degna di essere vissuta.
Una morale tutta umana, anzi: tutta imprenditoriale, borghese e fintamente universale. Una morale che per esistere deve schiacciare sotto il suo tallone altre morali, altre etiche: per cui se la morale umana antropocentrista e specista c’è, giorno per giorno, vuol dire che tanti esseri viventi, tanti ambienti naturali non ci possono essere.
Dalla pandemia al dissesto idrogeologico, il filo conduttore delle sciagure che ci piombano addosso è facilmente individuabile: è lo sfruttamento. Del suolo, delle risorse naturali, degli animali, degli esseri umani stessi. Solo se lo si vuole vedere e tirare un poco questo filo, per capire dove va a finire, è possibile che si intuisca quale sia la via d’uscita alla distruzione di una casa che ci comprende tutti ma che gli esseri umani ritengano di poter abitare a scapito di tutti gli altri esseri viventi.
La via d’uscita è la fine dello sfruttamento che coincide ineluttabilmente con la nuova coscienza: esseri umani e animali hanno gli stessi diritti e l’intelligenza maggiore che noi possediamo non ci consegna nessuno scettro in mano e non ci consente di essere i padroni di niente e di nessuno.
Fino ad oggi, padroni dei nostri simili, degli animali, dei boschi, dei mari e dei cieli, abbiamo distrutto piuttosto che costruire; abbiamo disarmonizzato invece che rendere vivibile il Pianeta da parte di tutti. Abbiamo impoverito tre quarti dell’umanità e depredato ogni specie che non ci somigliasse.
Il minimo che ci può capitare è che 626 millimetri di pioggia provochino disastri immani, uccidano e non lascino traccia di interi comuni italiani. Non è la vendetta della natura. E’ il ristabilimento naturale di un equilibrio perversamente distorto. Da noi. Non certo dai cinghiali o dai tronchi d’albero che piombano a valle come siluri nei fiumi ingrossati dalle precipitazioni ormai tropicali.
Senza trastullarsi su ipotesi rivoluzionarie oggi impraticabili, ma avendo ben presente l’origine del problema globale, per agire localmente si può lottare unendo le lotte stesse: l’anticapitalismo moderno deve poter comprendere l’antispecismo, la lotta ecologista a fronte delle più dure e ostinate obiezioni che vengono e verranno fatte dai costruttori di grandi palazzi e di mega-opere ingegneristiche, così come dai cacciatori e dai pescatori.
L’assunto per cui dall’origine dell’umanità si è sempre proceduto in tal senso e siamo innanzi a consuetudini consolidate è soltanto l’ennesimo alibi per alcuni e la motivazione interessata di altri per non assistere alla mutazione degli eventi, al cambiamento sociale, civile, animale ed ecologico.
I tabù vanno infranti. Anche progressivamente. Ma l’unica via da imboccare è questa, altrimenti anche la lotta anticapitalista, per un comunismo libertario, per una società priva di sfruttamento finirà per conservare in sé i germi di una recrudescenza, di un revanchismo padronale, se non includerà la fine di qualunque idea di dominio di un essere su un altro, di un umano – in questo caso – sul resto della natura, su Gaia per intero.
MARCO SFERINI
Foto di Ryan McGuire da Pixabay