È arrivato un nuovo dpcm per arginare l’aumento del numero dei contagi nel nostro paese, ma molte delle misure che potevano essere intraprese durante la situazione estiva di relativa stabilità sono state portate avanti solo parzialmente

Oltre diecimila casi di contagio giornalieri. Stiamo tornando ai numeri di marzo?

La situazione è in netto peggioramento. La curva dei contagi sta crescendo in maniera ormai esponenziale e il cosiddetto parametro del “tempo di raddoppio” dei nuovi casi si è ridotto al punto che nel giro di una settimana potremmo sfiorare quota ventimila. Con questi dati, non è difficile azzardare delle previsioni: in assenza di efficaci misure di contenimento, verso la prima settimana di novembre dovremmo arrivare a circa 1500 posti occupati nelle terapie intensive ovvero molto vicini a quella soglia del 30% che il Governo ha stabilito come soglia critica.

Detto questo, ci sono chiaramente delle differenze con la situazione di marzo: allora il virus della Covid-19 stava circolando indisturbato già da mesi e noi osservavamo solo una piccola porzione del contagio, quella più grave. L’indagine sierologica condotta dal Ministero della Salute e dall’ISTAT ha mostrato come in Italia si siano contagiate almeno un milione e mezzo di persone: questo significa che i nostri primi rilevamenti “fotografassero” solo un quinto o un sesto dell’insieme più grande dei positivi totali. Ciò non toglie, però, che ai ritmi attuali potremmo arrivare a una situazione ancora peggiore.

È arrivato ieri un nuovo decreto…

Si tratta di un altro buco nell’acqua. Le misure sono insufficienti e poco mirate, mentre occorrono una serie di interventi diffusi, a diversi livelli e in diversi settori della società: lavoro agile obbligatorio al 100% per pubblico e privato,  didattica a distanza al 50% per le superiori e ore spalmate su mattina e pomeriggio, classi di massimo 15 studenti con ampia assunzione di docenti, dimezzamento della capienza mezzi pubblici e raddoppio dei mezzi in circolazione, chiusura palestre e piscine, chiusura dei bar alle 21 e dei ristoranti alle 22 e coprifuoco nelle città più colpite. Il tutto ovviamente prevedendo ingenti aiuti economici per le persone e le attività che subiscono danni.

Il problema è che il nostro sistema di tracciamento dei contatti, semplicemente, non funziona: non c’è abbastanza personale. Lo Stato italiano ha deciso di puntare sul meccanismo delle chiamate telefoniche, ma senza assumere un gran numero di dipendenti che potesse occuparsene. In Corea del Sud sono state messe a contratto circa 10.000 persone per la sola gestione dell’emergenza Covid-19, mentre da noi tutto grava sulle spalle del già oberato personale Asl.

Eppure durante l’estate la curva dei contagi è rimasta pressoché stabile. Cosa è andato storto?

È vero che durante il periodo estivo nel nostro paese pare essersi verificata una sorta di “tregua”. Questo può essere dovuto ad alcune variabili, come il fatto che la natura influenzale del virus di Covid-19 lo renda più debole col caldo (anche se di questo non abbiamo alcuna evidenza scientifica, ma ci si basa solo su osservazioni empiriche), che nei mesi centrali dell’anno abbiamo modificato tutta una serie di abitudini che ci hanno portato a evitare di più i luoghi chiusi e che, infine, il precedente lockdown avesse circoscritto fortemente la presenza del virus.

Era il momento di intraprendere una serie di azioni per trovarci più preparati in seguito, ma non si è realizzato molto: oltre al già citato malfunzionamento del sistema di tracciamento, la stessa applicazione Immuni, su cui si è puntato tanto, si sta rivelando poco efficace visto che anche in questo caso le segnalazioni e la conseguente ricostruzione della catena di contagio passano comunque dalle Asl. Inoltre, se è vero che i posti in terapia intensiva sono aumentati rispetto alla situazione pre-Covid, siamo ben lungi dall’aver raggiunto un livello sufficiente a gestire una nuova ondata.

Potrebbe servire un nuovo lockdown?

Nella valutazione di quanto siano efficaci le misure intraprese nei diversi contesti per contenere la diffusione di Covid-19, occorre considerare un così ampio numero di fattori che risulta impossibile fornire una risposta univoca. Quello che si può dire è che la stragrande maggioranza dei paesi ha adottato un lockdown pressoché totale per contenere la curva dei contagi. Generalmente, quanto più lungo e rigido è stato il lockdown, tanto più si è riuscito ad arginare il problema: lo dimostra il caso dell’Italia, per esempio, e in negativo lo dimostra la situazione disastrosa di Stati Uniti e Brasile dove invece non si sono verificate misure di questo tipo.

In questo momento, però, nessuno vuole il lockdown. Occorrerebbe allora capire quali misure è possibile mettere in campo senza dover ricorrere alla chiusura totale. Dobbiamo agire chirurgicamente, capendo il più possibile quali sono i luoghi e i contesti maggiormente a rischio, cosa che implica intervistare in maniera approfondita un grande numero di contagiati e da lì elaborare delle statistiche. Inoltre, secondo me, potrebbe essere molto proficuo osservare quanto viene messo in pratica nei paesi asiatici in cui si è riusciti a contenere l’epidemia senza bisogno di lockdown, come la Corea del Sud o Taiwan.

Quanto conta una corretta informazione?

Con la pagina Facebook “Coronavirus – Dati e Analisi Scientifiche” abbiamo provato a realizzare un progetto di informazione scientifica indipendente e “dal basso” sull’andamento della pandemia di Covid-19. Credo che iniziative di questo tipo siano importanti e vadano valorizzate ma, allo stesso tempo, rappresentano un’arma a doppio taglio: non dimentichiamoci che nella libertà di pubblicazione e di comunicazione cosiddette indipendenti pullulano anche notizie false, complottismi, etc. Occorre dunque occuparsi sempre degli argomenti in maniera rigorosa e a partire da argomenti solidi.

Ma, più che altro, credo si debba prestare attenzione a non “mitizzare” oltremodo le esperienze dal basso, nella misura in cui questo potrebbe condurre a non pretendere più che le istituzioni facciano il proprio lavoro. Il livello ufficiale è fondamentale: in situazioni di emergenza diventa necessario coordinare diversi attori, fare comunicazione istituzionale e del rischio, essere il più possibile inclusivi. Invece, all’inizio della pandemia, le informazioni sul sito del Ministero erano solo in italiano e c’erano solo associazioni, collettivi e Ong a tradurre per i migranti e le migranti o per chi non conosce la lingua. Ecco, ricordiamoci sempre che gli errori di informazione vanno quasi sempre a discapito delle fasce più deboli.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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