Wiphala

La prima pretesa, razzista e paternalista, del golpe di un anno fa in Bolivia era dimostrare che i popoli indigeni, gli Aymara, i Quechua, non fossero capaci di governare e autogovernarsi, e che dovessero per forza affidarsi all’elemento bianco per andare avanti. Si sbagliavano e con le elezioni di oggi e il trionfo di dimensioni perfino impreviste della sinistra indigenista del MAS è stato definitivamente dimostrato. Così la Bolivia può riprendere il cammino dei successi sociali, politici e anche macroeconomici e della pace e stabilità politica e monetaria dei 13 anni di Evo Morales e Álvaro García Linera. Con loro c’erano i due ministri Luís Arce all’Economia e David Choquehuanca agli Esteri, che oggi ne prendono il rilievo a Palazzo Quemado a La Paz.

La delegittimazione, la demolizione sistematica dell’uomo e del personaggio pubblico, l’odio razzista, che in tutti questi anni hanno versato a piene mani contro Evo Morales, l’indio non sottomesso che prende in mano il proprio destino, si sono dunque completamente ritorti contro chi organizzò quel colpo di stato. Quelle elezioni videro il limpido trionfo di Evo con l’11% di vantaggio sul più diretto avversario. Dicono che sia in questo momento accusato di più di 150 reati, ma l’Interpol (lo stesso accade per Rafael Correa in Ecuador) ha rifiutato di eseguire i mandati di cattura in quanto considera quelle accuse come palesemente politiche. Una volta di più il “lawfare”, la guerra giudiziaria contro i leader progressisti latinoamericani, che ha impedito a Lula di battere Bolsonaro, si dimostra per quello che è: un progetto eversivo. Con le elezioni del 18 ottobre 2020 è così innanzitutto restituito l’onore a Evo Morales come dirigente politico specchiato (il che non vuol dire infallibile) e uomo centrale nella sintesi di un paese così complesso da proclamare se stesso come “stato plurinazionale”, con un ammirevole processo costituente che ha messo fine a un regime di apartheid più che secolare.

Cade oggi anche la rappresentazione falsa della presunta polarizzazione della Bolivia, che ha fatto comodo per giustificare il golpe. La realtà è che c’è un gruppo di potere, economicamente dominante ma che si dimostra una volta di più minoritario nel paese, che ha fatto il colpo di stato e che ha privato la nazione andina di un anno di democrazia, un crimine imperdonabile. Hanno agganci internazionali, in particolare in paesi chiave come Brasile e USA e sono alleati di personaggi come Elon Mask con i suoi interessi strategici nel litio (nel salar di Uyuni si concentrano le maggiori riserve del mondo), le multinazionali dell’energia, il complesso agroindustriale. Tali gruppi di potere hanno un sostanziale monopolio sui e dei media locali e internazionali. In questi anni hanno condotto la demonizzazione di Evo Morales con gli stessi cliché razzisti che costruiscono perfino un’estetica che attribuisce agli indigeni la bruttezza, o considera riti satanici le culture precolombiane, o sputano su simboli del pluralismo culturale come la Wiphala, la bandiera indigena.

Intorno a tali cliché razzisti, sui quali è costruita l’intera storia della Bolivia dalla Colonia a noi, hanno costruito consenso, in particolare in pezzi delle classi medie bianche, e sono sempre disposti a usare la violenza. Spacciare, come accadde un anno fa, per “società civile” l’estrema destra e i suoi gruppi paramilitari che, per denunciare presunti (falsi) brogli, bruciavano le schede elettorali che avrebbero dovuto far controllare, è uno dei capolavori criminali del mondo mediatico mainstream. A questo si aggiunga il pezzo chiave, l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA) con a capo Luís Almagro, l’anima nera dell’America latina dell’ultimo lustro, instancabile lottatore contro qualunque governo progressista. Fu quest’ultimo a tessere la tela costruendo il rapporto infedele dei suoi stessi osservatori internazionali, che denunciarono brogli che non c’erano mai stati, per indurre i militari boliviani al golpe che costrinse Evo alle dimissioni e all’esilio, e legittimare l’autoproclamato governo di Jeanine Áñez. In contesti dissimili lo schema non era diverso da quello che aveva inventato lo stesso Almagro con Guaidó in Venezuela pochi mesi prima, delegittimare un potere sgradito e contrapporgliene uno a sua immagine. Oggi, proprio Almagro e Áñez devono prendere atto del trionfo del MAS. Lo fanno con due Tweet senza ambiguità che sono innanzitutto la loro sconfitta. Sono un nemico potentissimo, ma erano, sono e restano minoranza.

Il MAS invece resta maggioranza ed è sempre stato maggioranza. Il Movimento Al Socialismo, ha impalcato una costruzione ammirevole e raffinata. Ha tenuto insieme il mondo indigeno, la sinistra classista tradizionale, ma anche quella dei diritti, con un elemento femminista fondamentale. Hanno provato a coniugare lo sviluppo necessario di un paese con pochissime infrastrutture, con la difesa della Pachamama, la Madre Terra. Lo è oggi come lo era un anno fa, quando il legittimo governo Morales fu rovesciato dal complotto golpista.

Resta da dire che quel clima mediatico che narra di un’America Latina finalmente restituita al suo destino liberal-conservatore, dopo una scapricciata progressista (loro dicono populista) durata un decennio, è perlomeno imprudente. Le ultime due elezioni importanti, in Argentina e Bolivia, hanno attestato la sconfitta delle destre e la prosecuzione dei progetti intestati comunque ai Kirchner e a Morales. Solo in Uruguay i conservatori del Partito Nazionale sono tornati al governo col giovane Lacalle. La crisi venezuelana può risolversi solo con le urne, ma all’oggi è l’opposizione a frenare, anche qui mal consigliata da Almagro. La strategia di favorire i “regime change”, con le buone o con le cattive, in stallo in Venezuela, fallisce in Bolivia. Ancora lontana la scadenza del sexenio di Andrés Manuel López Obrador in Messico, il prossimo sarà l’anno elettorale del Cile, dell’Ecuador e del Perù. In tutti e tre paesi i governi di destra sono pesantemente in discussione facendo saltare quell’Alleanza del Pacifico, pezzo geopolitico dello scacchiere filostatunitense. E nel 2022, se non sarà fermato prima, nel suo estremismo e nella sua devastante incapacità di governare, sarà il turno di Bolsonaro. I tre grandi, Messico, Argentina e Brasile, potrebbero per la prima volta nella storia avere contemporaneamente un governo progressista. Insomma, la partita in America latina è più che aperta, piaccia o no agli Almagro o ai media monopolisti.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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