La complessità della sfida che si pone ai movimenti climatici è pari alla portata della posta in gioco. A questo livello dello scontro sulla “ricostruzione”, l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni entro il 2030 diventa infatti immediatamente anticapitalistico. Lo scontro politico tra la vita e il capitale si mostra, nella fase della pandemia, in tutta la sua violenza
Venerdì 9 ottobre molte piazze di tutta Italia sono tornate a riempirsi di giovanissime e giovanissimi per il sesto sciopero climatico, lanciato dal movimento Fridays for Future. FFF veniva da oltre sei mesi di iniziative online, difficili da valutare politicamente – quanto a partecipazione reale ed efficacia sul dibattito pubblico – per il carattere frammentario e poco palpabile di mobilitazioni digitali di quel tipo.
Ci si apprestava dunque all’appuntamento di venerdì 9 come a un momento estremamente importante per valutare la tenuta e le prospettive del movimento per la giustizia climatica, per lo meno nei suoi strati più spontanei e giovanili che tanto hanno sorpreso ed entusiasmato nel 2019, segnando una profonda rottura con la governance globale del clima e con l’illusione dei mercati “verdi”.
Le condizioni in cui lo sciopero climatico è stato preparato erano particolarmente avverse, peggiori di settimana in settimana: da un lato la quotidiana precarietà del mondo della scuola, di chi la vive e di chi vi lavora e l’impossibilità di costruire in quei luoghi percorsi e assemblee partecipate. Dall’altro, l’inesorabile aumento dei contagi e le nuove misure anti-covid, che hanno determinato il divieto ai cortei in molte città, reso impraticabili certe modalità di azione e scoraggiato senza dubbio la partecipazione.
Al contempo la pandemia ha riproposto con forza la necessità di mobilitazioni radicali per la giustizia climatica, mostrando la fragilità e la precarietà a cui il capitalismo ha esposto la sopravvivenza della specie umana e il legame che sussiste tra la salute di tutto l’ecosistema mondo e la nostra.
È stato quindi fondamentale riprendere parola e spazio contro i giganti dei combustibili fossili, la deforestazione, la distruzione della biodiversità, le monocolture intensive e le emissioni climalteranti delle filiere globali. Nonostante le difficoltà quella che abbiamo attraversato a Torino è stata una piazza vivace, sentita e partecipata da chi aveva deciso di essere presente. A fronte di numeri senza dubbio modesti rispetto ai precedenti scioperi climatici – circa un migliaio le persone in piazza – la consapevolezza diffusa del carattere sistemico e strutturale della crisi in corso mantiene viva la speranza che questa generazione possa animare un processo di trasformazione radicale della nostra società.
Il tema centrale della mobilitazione individua la “ricostruzione” post Covid come terreno di lotta politica fondamentale: l’industria del fossile e del cemento da un lato e il vivente dall’altro, inteso anzitutto come quel sentimento e desiderio di difendere la vita di tutte le specie dalle logiche mortifere e autodistruttive del capitalismo. Tra i due poli, i governi locali e nazionali, schiacciati dalle pressioni del sistema industriale e dalle speculazioni finanziarie, che, come ci ha brutalmente mostrato la gestione della pandemia, sono in fondo disposti a sacrificare intere fette di popolazione pur di tutelare i loro profitti.
“We are the nature defending itself” era forse lo slogan più ricorrente sulle mascherine delle persone in piazza, e più che mai sembra oggi tracciare una spinta collettiva, una preoccupazione sempre più urgente, capace di aprirsi e mutare in contrattacco.
Uno slogan che segna nella storia recente dell’essere umano un cambio radicale di collocazione e percezione di sé: non siamo più la mente che regna e governa la natura, ma ci percepiamo sempre di più come una parte nell’ecosistema, corpi che partecipano della stessa vita del vivente non umano.
La piazza di Torino in particolare ha voluto puntare il dito contro la Regione Piemonte, guidata da una giunta leghista, negazionista climatica e protagonista di una profonda ed evidente incapacità nella gestione della crisi ambientale come di quella sanitaria. In una regione piegata da un decennio di tagli al sistema sanitario e da progetti di privatizzazione e aziendalizzazione (in Piemonte 7,3 posti letto in terapia intensiva ogni 100.000 abitanti, il dato pià basso del Nord Italia), nei mesi di marzo e aprile la media dei tamponi è stata di gran lunga la più bassa tra le regioni intensamente colpite dai contagi. Non a caso, l’inefficienza nel contenimento dei focolai ha portato a ripetute dimissioni e avvicendamenti ai vertici dell’unità di crisi regionale.
Ancora oggi il Piemonte risulta una delle regioni con il minor numero di tamponi tra quelle più colpite. Sebbene poco citata nelle cronache nazionali, anche durante questo nuovo picco pandemico si conferma tra le più fragili: nell’ultima settimana, nelle statistiche relative ai tamponi sui cosiddetti “casi testati” (dunque escludendo i tamponi ripetuti sulla stessa persona), il Piemonte si attesta tra le cifre più basse di tutta Italia, con 864 tamponi ogni milione di abitanti, a fronte di una media nazionale di oltre 1.200.
La stessa giunta regionale che per mesi ha rifiutato di dichiarare l’emergenza climatica, ridicolizzando le richieste dei Fridays for Future, ha dovuto fare i conti, la settimana precedente allo Strike, con terribili e devastanti fenomeni metereologici che hanno piegato interi territori del Piemonte (e non solo): in particolare la Valsesia, il biellese e il cuneese. Solo dopo questi fatti abbiamo sentito qualche assessore regionale riconoscere l’esigenza di interventi per la messa in sicurezza di territori, prevedibilmente scaricando sul governo centrale la responsabilità dei mancati interventi.
Il presidente della Regione Cirio, in una superficiale perlustrazione via elicottero delle zone colpite dalle violente alluvioni, ha dichiarato che il Piemonte ha bisogno di un intervento e un investimento da parte dello Stato e fatto cenno ad urgenti interventi di dragaggio dei fiumi: metodo più volte criticato, definito limitato e addirittura dannoso da tecnici ed esperti.
Restano inascoltate ancora una volta le richieste e le proposte sulle modalità di intervento delle comunità locali che si trovano ad affrontare lutti, perdite economiche e devastazione dei loro territori. Restano inascoltate le parole di chi parla di cambiamento climatico: si continua a farneticare di maltempo mentre gli eventi climatici estremi in Italia sono aumentati di quasi ottanta volte in soli ventun’anni.
Nell’intreccio di questi molteplici eventi catastrofici che hanno piegato il Piemonte, e nell’incapacità quasi farsesca con cui la giunta li ha affrontati, si spiega probabilmente la rabbia e la determinazione più forte espressa dalla composizione dei Fridays for Future contro l’istituzione regionale.
Mentre il presidio si avvicinava al Palazzo della Regione, diverse persone si sono incatenate, pretendendo di essere ricevute da un esponente del governo regionale, agitando le forze dell’ordine e aumentando la pressione sotto le finestre di amministratori con cori che ben ne sottolineavano l’intenzione di non fermarsi. Dopo alcune ore di pressione, una delegazione della piazza ha potuto presentare al vicepresidente della Regione un documento su alcuni temi fondamentali: dall’azzeramento di emissioni entro il 2030 ad un piano regionale straordinario per l’abbattimento dell’inquinamento atmosferico da polveri sottili, basato sul trasporto pubblico gratuito, su sistemi di riscaldamento a energia rinnovabile, sulla riqualificazione di edifici abbandonati per il contrasto al consumo del suolo e alla cementificazione, sull’abbandono di opere dannoso e climalteranti a favore di un’opera di messa in sicurezza dei territori.
CONFINDUSTRIA NEMICA DEL CLIMA: RECOVERY FOR THE PLANET!
La contesa epocale per la “ricostruzione” traccia senza dubbio un campo di lotta che va ben oltre quello regionale. Su questo probabilmente la capacità di incidere da parte delle mobilitazioni climatiche dei Fridays dovrà urgentemente mettersi in discussione, avanzare e connettersi con quanto si muove all’interno delle altre reti climatiche, ambientali, transfemministe e sindacali. L’inversione del cosiddetto “modello di sviluppo” e la costruzione di nuovi rapporti di forza nella società dipenderà, in buona parte, da quanto i movimenti sapranno determinare e conquistare intorno ai fondi per il Recovery Plan. Forte dei 209 miliardi in arrivo dall’Europa, il Recovery Plan è probabilmente l’ultima possibile chiamata per la trasformazione ecologica dell’economia. Tuttavia, per come finora è stato presentato, pur facendo continui riferimenti alla sostenibilità, alla riconversione ecologica, alla parità di genere, alla scuola, alla sanità, in realtà le proposte del “piano di riconversione” risultano interamente fondate sull’ampliamento dell’industria fossile e bellica.
In questo senso è stato fondamentale l’incontro cui abbiamo assistito nelle scorse settimane di Eni ed Enel alla Camera dei Deputati, in cui le due aziende italiane leader dell’energia hanno rilanciato le loro proposte per dirigere il Recovery Plan nella direzione del gas metano.
I dirigenti delle due multinazionali fossili spingono affinché i fondi straordinari siano impiegati per accelerare e completare la conversione a gas delle centrali di carbone di Enel ancora presenti in Italia, la realizzazione del TAP in Puglia (a cui è appena stata concessa una proroga da parte delle autorità italiane, con la scusa della pandemia), la costruzione dei metanodotti lungo la Costa Adriatica e in Sardegna e per il finanziamento dell’enorme nuovo hub di Ravenna che darà vita al più grande centro al mondo di cattura e stoccaggio di anidride carbonica. Con la dicitura “gas naturale ” l’industria energetica italiana tenta di dipingere di verde il metano, che è un’energia fossile, inquinante e altamente climalterante. Il metano, infatti non solo produce CO2 al consumo ma viene anche disperso in enormi quantità durante l’estrazione, il trasporto e il consumo, e una volta in atmosfera trattiene 84 volte più calore della CO2 nei primi due decenni dal rilascio. Considerando che per invertire drasticamente la rotta del riscaldamento globale abbiamo sette anni, i conti sono presto fatti: l’operazione di greenwashing e il tentativo di confondere l’opinione pubblica è lampante e il profitto resta al primo posto nella piramide delle loro priorità.
Il progetto di conversione al gas metano non è l’unico investimento del Recovery Plan altamente dannoso da un punto di vista ecologico.
È ormai noto che oltre un miliardo di euro dei fondi europei dovrebbe, secondo i progetti del Governo, essere destinato al TAV: un’opera che ancora recentemente (non che ce ne fosse bisogno) la Corte dei Conti Europea ha ricordato essere del tutto incompatibile con gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030, poiché alla sua realizzazione corrisponderanno l’emissione di circa 10 milioni di tonnellate di CO2, impossibili da riassorbire nel breve periodo.
Ma il “decreto Semplificazioni” ci ha offerto l’immagine di una cantierizzazione dell’Italia che va ben oltre la Valsusa e che vorrebbe velocizzare la realizzazione di nuove autostrade profondamente impattanti (come la Gronda di Genova), nuove linee aereoportuali (come l’ampliamento di Fiumicino, nel pieno di una riserva naturale), velocizzando e destrutturando le valutazioni di impatto ambientale, mentre si torna addirittura a evocare il Ponte, o forse il tunnel, sullo Stretto di Messina. TAV e TAP confermano non solo l’arroganza e la violenza dello Stato sulle comunità che vivono e difendono i territori ma anche l’insistenza capitalistica sulle grandi opere inutili, dannose e insostenibili da un punto di vista ambientale, sanitario e climatico.
Come se non bastasse, dal ministero della Difesa e da quello per lo Sviluppo Economico sono dettati, all’interno del Recovery Plan, nuovi investimenti tra i 17 e 30 miliardi di euro per l’industria bellica, destinati alla produzione di aerei da guerra, intelligenze artificiali, sicurezza cyber, innovazione missilistica e sottomarini da guerra tecnologicamente avanzati. Industria altamente inquinante, incompatibile con le promesse di decarbonizzazione, ma soprattutto industria della morte, dell’assoggettamento di popoli e territori per motivi economici, spesso indissolubilmente legata all’energia fossile, come nel caso di Eni. E intanto i fondi pensati per i ministeri di Istruzione, Sanità e Politiche sociali sono appena un quinto di quelli promessi al Ministero dell’Economia per investire sulla “crescita” e sulle imprese.
In questo quadro di lotta per la destinazione dei fondi del Recovery Fund, Confindustria si presenta come un agguerrito nemico del clima e delle nostre vite. Dopo aver reclamato (e in larga parte ottenuto) l’apertura delle attività industriali, anteponendo i profitti padronali alla salute di lavoratrici e lavoratori, l’associazione degli industriali dà battaglia per escludere la contrattazione nazionale dai rinnovi dei contratti previsti in autunno e mantenere così quanto più bassi possibili i salari; eliminare il reddito di cittadinanza; sbloccare i licenziamenti; ridurre la pressione fiscale sulle imprese; distribuire ulteriori fondi alle imprese. Confindustria ha già ottenuto il taglio della rata di giugno dell’IRAP, un grande regalo per tutte le aziende comprese quelle miliardarie: l’IRAP infatti è un’imposta progressiva sui fatturati e finanzia direttamente il sistema sanitario a livello regionale. Ha inoltre ottenuto la garanzia statale sui prestiti bancari: se le cose vanno bene profitti per le imprese, se le cose vanno male paga lo Stato.
Dall’inizio della pandemia, il neopresidente di Confindustria Bonomi ha mosso una serie di durissimi attacchi di classe; ora Confindustria si sta mobilitando per accaparrarsi i miliardi in arrivo dal Recovery Fund, trasformando la crisi pandemica in un’opportunità da cogliere a mani basse per accaparrarsi fondi pubblici e smtanellare le strutture già precarie del welfare italiano. Nella recente assemblea del 29 settembre, Bonomi ha presentato al governo un patto per il rilancio dell’economia, che propone di destinare i fondi del Recovery a ulteriori sgravi fiscali per le imprese, nuove infrastrutture e cancellazione del reddito di cittadinanza.
La violenza di cui Confindustria si dimostra capace, prima costringendo milioni di persone sul posto di lavoro, ora portando avanti un attacco di classe spietato contro persone e riconversione ecologica, è una violenza contro tutta la dimensione del vivente. Per puntare ad una riconversione economica ed energetica in un’ottica di giustizia climatica e di uguaglianza sociale, i movimenti dovranno dunque inevitabilmente identificare in modo esplicito Confindustria come propria antagonista.
LA GIUSTIZIA CLIMATICA COME CAMPO DELLA CONVERGENZA
La complessità della sfida che si pone ai movimenti climatici è pari alla portata della posta in gioco. A questo livello dello scontro sulla “ricostruzione”, l’obiettivo dell’azzeramento delle emissioni entro il 2030 diventa infatti immediatamente anticapitalistico. La questione climatica traccia un campo che ci pare sottrarsi a ogni tipo di mediazione e riformabilità – se non quei miseri tentativi di recupero retorico che si celano dietro le evocazioni di “sostenibilità” da parte dei documenti del Governo e di Confindustria, di ENI e dei grandi gruppi finanziari. Lo scontro politico tra la vita e il capitale si mostra, nella fase della pandemia, in tutta la sua violenza.
Se i mesi di pandemia hanno certamente messo a dura prova i movimenti, in particolare quelli più giovani e meno organizzati, le mobilitazioni di venerdì hanno dimostrato alcuni segnali di tenuta e di prospettiva.
Gli studenti e le studentesse medie, ora magari ai primi anni di università, che hanno prodotto durante il 2019 mobilitazioni di massa intorno alla giustizia climatica, hanno ripopolato le piazze, con vivacità, con una partecipazione diffusamente attiva che si percepiva in piazza, con una piattaforma politica (“Recovery for the planet”) radicale e ben consapevole delle ipocrisie dei governi locali e nazionale.
Le tante e tanti giovani che hanno riempito le piazze dei Fridays for Future sono confluite in buona parte nell’ampia composizione studentesca delle mobilitazioni transfemministe, e ancor più nella marea che si è riversata in strada contro la violenza razziale, in particolare quella della polizia, reclamando giustizia e facendo proprio il richiamo dei roghi che incendiavano gli Stati Uniti. Questi intrecci imprevisti si materializzano in cori e cartelli che spesso si replicano e riprendono da una manifestazione all’altra. Di questi intrecci siamo state parte e al tempo stesso ci hanno contaminato e interrogato. L’intersezionalità delle lotte è probabilmente qualcosa di meno “teorico” di come spesso viene affrontato.
In molti frangenti abbiamo notato e problematizzato, intorno agli scioperi climatici, una sconnessione tra la composizione delle piazze e quella delle assemblee. Le assemblee, prevalentemente frequentate da universitari, hanno saputo ospitare una convergenza generazionale e politica indubbiamente interessante, ma non riescono a raccogliere la partecipazione delle e degli studenti medi. La disponibilità a mobilitarsi con entusiasmo nelle piazze non è corrisposta, finora, alla presenza nelle assemblee per preparare i presidi e i Global Strike.
Questo ci pone di fronte ad alcune questioni. Da un lato sarà interessante se le mobilitazioni climatiche riusciranno a radicarsi nelle scuole in forme nuove e più o meno stabili, per esempio attorno a collettivi che sappiano raccogliere e accendere queste spinte. La maggiore organizzazione a livello scolastico potrebbe segnare nel movimento climatico, ma non solo, un salto di qualità fondamentale in termini di continuità temporale e approfondimento politico.
Dall’altro lato, ai movimenti per la giustizia climatica si pone tuttavia l’esigenza di uno spazio di convergenza attraverso cui, in ogni singolo territorio, si possano incontrare – nelle assemblee, nelle piazze e nelle azioni – tanto la partecipazione studentesca, quanto le realtà che intorno alle lotte climatiche vecchie o nuove sono sorte, le reti, i comitati territoriali, sindacati conflittuali, ma soprattutto persone disponibili a opporsi e a sollevarsi nel riconoscimento di una parola d’ordine comune: giustizia climatica.
Chi ha inquinato e ucciso deve pagare i costi della transizione ecologica e ora non ha diritto ad accedere al Recovery Fund e non potrà aver alcun ruolo nella “ricostruzione” del nuovo mondo.
Questa convergenza potrà essere praticata soltanto attraverso discussioni aperte e pubbliche sulle pratiche e sulle modalità della lotta e dell’assemblea, attraverso un’invenzione collettiva delle forme del conflitto climatico, dei blocchi, delle performance teatrali, delle azioni dirette. Di fronte a un governo proiettao sul gas fossile, sui cantieri delle grandi opere, sul settore bellico e sul cemento, incidere con la forza sulle scelte di chi non intende accogliere le istanze della decarbonizzazione e della giustizia climatica sarà un passaggio di maturazione decisivo all’interno dei movimenti climatici.
Dallo slancio delle giovanissime e dei giovanissimi e dai luoghi di convergenza e di allargamento inter-generazionali, eterogenei ed ospitali ci servirà accumulare tanta forza nella contesa epocale per la ricostruzione post Covid. Scuola per scuola, quartiere per quartiere, territorio per territorio, occorre connettere tutte le forze in una prospettiva di convergenza rivoluzionaria.
Il tempo della ricostruzione è ora, il tempo della ribellione climatica è ora.