Sulle orme della campagna elettorale in Pennsylvania con Donald Trump, il candidato del centro commerciale abbandonato di una città siderurgica in decadenza famosa per essere stata devastata da un’alluvione, che nel 2003 è stata definita nel censimento degli Stati Uniti come «La città negli Stati Uniti con meno possibilità di attrarre nuovi residenti»

La Johnstown Galleria non è propriamente un centro commerciale morto, ma è la cosa che più ci si avvicina pur rimanendo ancora in vita. È un centro commerciale in terapia intensiva. I negozi vuoti si sono moltiplicati fino a superare quelli ancora operativi. Sulle vetrine di ognuno c’è un cartello che dice «Avviate la vostra attività qui!», che è un cattivo consiglio. Un’attività che ancora resiste è lo studio di un chiropratico che pubblicizza «Riceviamo senza appuntamento 25$ in contanti». Sembra l’ultima spiaggia sulla quale approdano i negozi prima di morire di disperazione.

Il centro commerciale si adatta a Johnstown stessa. Una città siderurgica sbiadita famosa per essere stata devastata da un’alluvione, che nel 2003 è stata definita nel censimento degli Stati Uniti come «La città negli Stati Uniti con meno possibilità di attrarre nuovi residenti».

Ha una forte somiglianza con le altrettanto sbiadite città carbonifere della West Virginia. Sono tutte circondate da ogni lato da colline che si stagliano con uguale bellezza e minacciosità. A Berkeley e Hollywood le colline possono essere promettenti, ma in posti come Johnstown, significano solo che alla fine tutto franerà verso il basso.

Quando si guida attraverso la Pennsylvania centrale verso Johnstown si passa per una serie di piccole città, con case ordinate, ampi vialetti e, puntualmente, segni di sostegno a Trump. Alcune hanno dei semplici cartelli nei cortili, altre hanno bandiere e altre ancora hanno grandi cartelli autoprodotti dipinti su compensato. A un certo punto, c’è persino un TRUMP tagliato nell’erba in una collina vicino all’autostrada. Fa sorridere immaginare Donald Trump in persona che passa del tempo qui, tra i suoi accoliti (che va in un chiesa luterana o beve una birra con i motociclisti a un Pub & Grub [“Pub & Cibo” espressione colloquiale per indicare bar in cui è possibile bere e mangiare – ndt] sulla strada per Altoona [città a nordovest di Johnstown e tappa successiva della campagna– ndt]).

Passare del tempo qui è l’ultima cosa che Trump vorrebbe fare, motivo per cui gli eventi della sua campagna in queste zone vengono inevitabilmente organizzati negli aeroporti, permettendogli di uscire dall’Air Force One, parlare a lungo alle folle adoranti e poi volare via senza doversi mai nemmeno sporcare con qualsivoglia esperienza reale con le persone. Anche guardare fuori dal finestrino della sua limousine sarebbe troppo per lui. Si limita solo a sbirciare nelle vite dei suoi sostenitori dai finestrini del suo aereo mentre se li lascia alle spalle. Eppure, accorrono ai piedi del loro bizzarro e tronfio campione.

In effetti, i sostenitori di Trump sembrano praticare collettivamente il masochismo. Vogliono avere la loro occasione di dire “vaffanculo” a questo mondo, e di fatto anche alle loro stesse vite. Per loro, votare contro i propri interessi economici non basta.

Martedì sera a Johnstown, non si poteva arrivare al raduno di Trump in macchina e posteggiare. Bisognava parcheggiare nell’inutilmente enorme parcheggio della Johnstown Galleria, dove decine di scuolabus gialli traghettavano la gente in dieci minuti all’aeroporto per l’evento, e così anche al ritorno. Secondo l’autista del mio autobus, la sua azienda aveva trasportato più di seimila persone quel giorno, tutte stipate in questi bus che respiravano i fumi del coronavirus filtrati dalle maschere MAGA [acronimo dello slogan di Trump “Make America Great Again”, “Rendiamo l’America Grande Ancora – ndt]. Poi si sono ammassati tutti per circa un’ora in un’altra immensa fila per partecipare all’evento, dove si affollavano spalla a spalla con circa una metà di loro che indossavano le mascherine

Questa sorta di festante disprezzo per gli standard di sicurezza di base è al centro dell’appello di Trump. A prima vista, i sostenitori di Trump sono variegati: gente con sigaro e Mercedes, motociclisti outlaw, donne bianche di mezza età con i loro figli, inoffensivi credenti praticanti con una maglietta pro-Life in piedi accanto all’uomo tracagnotto e arrabbiato con indosso la maglietta “Vote No For Joe and The Hoe” [“Vota NO per Joe e la Troia”, slogan elettorale contro il candidato democratico Joe Biden e la sua Vicepresidente Kamala Harris – ndt]. Sarebbe possibile dividere nettamente la folla di Trump tra chi sembra un poliziotto e chi un criminale sessuale. Che cosa li tiene uniti intorno a questo pallone gonfiato oggettivamente stupido?

Donald Trump è l’incarnazione vivente del “Fotti il Sistema” per chi non ha mai riflettuto a fondo su come il sistema funzioni davvero. È la versione Repubblicana di un fumetto che funziona in Democratico, il Jeff Dunham della politica [comico e ventriloquo americano – ndt]. È ribelle nello stesso senso in cui i Metallica o il wrestling professionista sono ribelli: per nulla ribelli quando conta, ma abbastanza rumorosi da dare l’impressione di esserlo. Sia che i suoi fan si sveglino il giorno successivo per andare a bere in un bar sia che vadano in chiesa, hanno tutti avuto la loro dose di cattiveria. I raduni di Trump sono un carrozzone di revival religioso per un’epoca profondamente cinica, che piomba dalla grande città per raggirare la gente del posto e lasciarla convinta di aver vinto qualcosa.

L’Air Force One è atterrato alle 19:15 incorniciato da un bellissimo imbrunire arancione: un trionfo telegenico. Il Presidente degli Stati Uniti, con terapie sperimentali che gli scorrevano nel sangue, è salito sul palco per riproporre i suoi più grandi successi. Anche se si annoia dopo aver letto appena due frasi dei suoi stessi discorsi, è a suo modo un professionista consumato e un uomo che conosce il proprio pubblico. Indirizza l’odio della folla e ne percepisce l’amore.

«Vorrei che i dispensatori di fake news mostrassero la folla: non la inquadrano mai». E tutti fischiano copiosamente, anche se i media erano tutti posizionati in un hangar alle spalle dell’evento e inquadravano direttamente la folla.

«Se vince Biden, vince la Cina». Buuh! «Perché Hunter ha ricevuto tre milioni e mezzo dal sindaco russo?» [in riferimento a un presunto versamento fatto dalla moglie dell’ex-sindaco di Mosca a favore di Hunter Biden, figlio di Joe Biden – ndt] Buuh! «Hanno voluto che mi scusassi per aver usato la parola ‘Pocahontas’, così ho fatto: a Pocahontas, quella vera». Risate! «Voglio che siate al sicuro. Non costruirò delle case popolari vicino alle vostre». Urrà! Bugie vergognose accompagnate dalla frase magica, «You know that», per lusingare gli scettici alla deriva. Siamo a un punto di svolta contro il virus, you know that. Una svolta davvero decisiva. Affollatevi ancora un po’, gente. Distribuiremo milioni di dosi di vaccino entro la fine dell’anno, you know that.

Alla fine, il riccone è risalito sul suo aereo e gli abitanti di Johnstown, tremanti per il freddo autunnale, sono risaliti su quegli scuolabus chiusi e stretti, respirando aria di libertà. Storditi, sono sciamati verso il parcheggio della Johnstown Galleria. Il centro commerciale era buio e vuoto, ma il parcheggio era pieno di auto e tende che vendevano merchandising di Trump. Per una notte, la città depressa era stata rianimata economicamente dalla grande espansione di vendita delle magliette “BITCH, I’M THE PRESIDENT”. Ora, immaginate che quel miracolo avvenga nel centro commerciale morto nella vostra sofferente città post-industriale, eh? Con Trump, i giorni migliori sono sempre dietro l’angolo. You know that.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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