Il voto per le presidenziali di martedì prossimo negli Stati Uniti si preannuncia come uno dei più caotici della storia di questo paese e probabilmente il primo su cui grava la minaccia concreta di un colpo di mano autoritario. La grandissima maggioranza dei sondaggi indica da tempo un successo più o meno netto del candidato democratico, Joe Biden, ma una serie di fattori – non tutti riconducibili all’alveo della legalità – sembrano prospettare una sfida equilibrata, se non addirittura una nuova inaspettata vittoria del presidente Trump o, quanto meno, la sua permanenza alla Casa Bianca qualsiasi cosa dovesse succedere alla chiusura delle urne.
Come quasi sempre accade per le presidenziali americane, a risultare decisivo sarà il comportamento dei votanti in quella manciata di stati che sulla mappa elettorale sono perennemente in bilico tra democratici e repubblicani. Dal Michigan alla Florida, dal Wisconsin alla North Carolina, dalla Pennsylvania al Nevada, dall’Ohio alla Florida, le presidenziali dell’era moderna si sono quasi sempre combattute attorno agli equilibri nella distribuzione dei “voti elettorali” in dotazione di questi e pochissimi altri stati.
In una normale tornata elettorale, per assicurarsi un secondo mandato Trump sarebbe chiamato al difficile compito di difendere le vittorie di misura del 2016 soprattutto negli stati (ex-)industriali del “Midwest”: Michigan, Ohio, Pennsylvania, Wisconsin. Qui, Trump fu in grado di capitalizzare la repulsione diffusa nei confronti di Hillary Clinton, intercettando un numero appena sufficiente di elettori generalmente riconducibili alla categoria della “working-class” bianca, di solito inclini a votare per il Partito Democratico.
Trump mise a segno il suo capolavoro politico proponendosi come una sorta di paladino dei lavoratori, capace di interrompere decenni di assalti alle loro condizioni di vita e di far tornare magicamente centinaia di migliaia di posti di lavoro distrutti dalla globalizzazione. Definire fallimentare il bilancio della sua amministrazione in questo senso è poco. I colossali tagli alle tasse dei super-ricchi, l’erosione dei programmi e della spesa sociale, i dazi doganali contro le importazioni cinesi pagate in definitiva dai consumatori e la disastrosa gestione dell’epidemia di Coronavirus sono inoltre alcuni degli altri “risultati” conseguiti dall’attuale presidente, da sommare a quelli che hanno alla fine contribuito a peggiorare la situazione dei lavoratori americani.
Dalle analisi e dalle indagini dei media d’oltreoceano si riscontra perciò una prevedibile inversione di rotta di questa fetta importantissima dell’elettorato. La testata on-line Vox ha citato ad esempio alcuni dirigenti sindacali del “Midwest” che spiegano come molti loro iscritti, dopo la relativa sbornia per Trump del 2016, siano orientati quest’anno a votare per Biden e i democratici.
Un altro elemento a favore dell’ex vice di Obama è il voto femminile e, forse in misura minore, quello della borghesia suburbana di tendenze conservatrici, in altre occasioni naturalmente inquadrabile nella base elettorale del Partito Repubblicano. Questi possibili spostamenti negli equilibri del voto potrebbero essere dunque decisivi anche nel caso dovessero verificarsi in maniera trascurabile in alcuni dei cosiddetti “swing states”. In Michigan, ad esempio, nel 2016 Trump prevalse su Hillary per meno di 11 mila voti, pari a 0,2 punti percentuali.
Uno degli ultimi sondaggi pubblicati in America è quello commissionato dal New York Times al Siena College e pubblicato giovedì. L’indagine è in linea con quasi tutte le rilevazioni pubblicate dai media “mainstream” nelle ultime settimane e mostra un vantaggio di circa 8 punti per Biden nello stato del Michigan e un margine ancora maggiore in Wisconsin, mentre in fase di restringimento sarebbe il divario tra i due rivali in Pennsylvania. In Ohio, invece, Trump sembra tenere ed è dato alla pari o in leggero vantaggio su Biden, così come in Florida.
Su scala nazionale, per quello che può valere questo dato alla luce del sistema elettorale americano, Biden dovrebbe avere un vantaggio su Trump tra l’8% e il 12%, ma non mancano le indicazioni in controtendenza. Anche un istituto autorevole come Rasmussen suggerisce una situazione decisamente più equilibrata, tanto che nell’aggiornamento quotidiano sulle intenzioni di voto diffuso giovedì ha dato Trump in vantaggio di un punto su Biden a livello nazionale (48% a 47%).
Se si esce dalla galassia dei giornali principali, quasi tutti schierati a favore di Biden, non sembra essere dunque esclusa un’altra clamorosa sconfitta per i democratici. Il principale fattore di rischio è d’altra parte lo stesso candidato alla Casa Bianca per questi ultimi. Anche se non impopolare come Hillary Clinton, soprattutto tra i “bianchi non laureati del Midwest”, Biden è anch’egli la personificazione del sistema politico ultra-corrotto di Washington, con un curriculum di oltre quarant’anni per molti versi reazionario.
La scelta di Biden ha raffreddato gli entusiasmi di quanti avevano intravisto una qualche alternativa progressista nelle prime fasi delle primarie con le candidature di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Alcune scelte fatte da Biden e dai vertici della sua campagna elettorale sono anch’esse oggetto di critiche perché rischiano di costargli non pochi consensi. Ad esempio, non sembrano essere state messe in atto strategie efficaci per mobilitare a suo favore gli elettori afro-americani e ispanici, molti dei quali, anche se in larga misura non opteranno per Trump, potrebbero scegliere l’astensionismo.
Forse ancora più preoccupanti sono poi le poche risorse dedicate alla campagna sul campo affidata agli attivisti del partito. I democratici hanno limitato queste operazioni “porta a porta” a causa della pandemia, mentre Trump vi ha invece puntato moltissimo, in particolare negli stati in bilico. Grazie a questo lavoro, i repubblicani sono riusciti insolitamente a far registrare un numero molto più alto di nuovi elettori per il loro partito rispetto a quello democratico. Negli Stati Uniti, per poter votare, gli aventi diritto devono registrarsi indicando l’affiliazione a un partito oppure come “indipendenti”, anche se poi hanno ovviamente facoltà di esprimere il proprio voto per qualsiasi partito o candidato.
Un altro aspetto da tenere in considerazione per quanto riguarda l’attendibilità dei sondaggi è il grado di sincerità degli intervistati riguardo le loro intenzioni di voto per Donald Trump. Basandosi anche sui dati del 2016, che davano la Clinton vincente, in molti ritengono che i potenziali elettori di Trump sono tendenzialmente meno inclini a rivelare la loro scelta. Uno studio di Rasmussen ha a questo proposito rilevato che il 17% di potenziali votanti che “approvano convintamente” l’operato di Trump è meno propenso a far sapere ad altri la sua intenzione di voto, contro appena l’8% di coloro che ne disapprovano la performance.
A giudicare dalla stampa vicina ai democratici, Biden avrebbe ad ogni modo nel mirino anche stati considerati solidamente repubblicani. Tra questi la Georgia e addirittura il Texas, stati i cui “voti elettorali” sono andati per l’ultima volta al candidato democratico alla presidenza rispettivamente nel 1992 e nel 1976. Sulla spinta della presunta ondata che dovrebbe travolgere i repubblicani grazie a Joe Biden, il Partito Democratico viene dato in avanzamento anche al Congresso. Alla Camera dei Rappresentanti la maggioranza democratica potrebbe allargarsi ulteriormente, mentre al Senato sarebbe possibile un ribaltamento degli equilibri, oggi favorevoli ai repubblicani.
Queste previsioni sono da prendere con le molle, visto anche che ricordano in modo inquietante quelle che precedettero il voto del novembre 2016. Tutti gli elementi che sembrano almeno in parte poter contraddire la versione prevalente di un Biden favorito, potrebbero comunque non essere sufficienti a Trump per ribaltare la situazione, come dimostrano anche i dati sull’altissimo numero di americani che hanno già votato per posta o di persona nei seggi che consentono di farlo anticipatamente. Chi ricorre a queste modalità di voto è infatti molto più frequentemente un elettore democratico piuttosto che repubblicano.
Esistono tuttavia altre questioni che prospettano un esito a dir poco controverso delle presidenziali e sono da collegare alle manovre non esattamente legali in atto alla Casa Bianca per arrivare a imporre, se ce ne fosse bisogno, un esito favorevole a Trump nel voto del 3 novembre. Questi temi saranno al centro dell’analisi delle elezioni americane che pubblicheremo domani.