Donald Trump verrà sconfitto oggi, forse domani, da Joe Biden. La divisione verticale dell’elettorato americano però non permette di affermare che abbia perso del tutto il primo, né che abbia completamente vinto il secondo.
Non è una questione legata alla presunzione di brogli, evocati dal magnate che siede ancora alla Casa Bianca: è tutt’al più la proclamazione di un nuovo presidente della repubblica stellata che si porta appresso uno strascico di divisioni soprattutto economiche e sociali, che risente di una turbolenza intestina di un grande paese che rimane la prima democrazia imperfetta al mondo.
Da un lato, è vera l’affermazione secondo cui la maggioranza degli elettori di Trump somiglia ad una schera di incolti, privi di empatia, sociopatici di svariati tipi: odiatori di professione, classici yankee stereotipati con cappelli a larghe falde, mandrie da gestire, puledri da domare e sonnacchiose case del Sud, perse in lande desolate, con l’immancabile “stars and strips” appesa all’uscio.
Clint Eastwood in “Gran Torino” ne è la raffigurazione più benevola, visto che dietro allo scorbutico umano, che pare nutrire affeto solo per il proprio cane, si cela una coscienza che salta a galla quando la solitudine si rompe come un vetro infranto da un sasso. E non c’è modo di rimediare.
Eppure sarebbe davvero riduttivo pensare che l’elettorato di Trump sia riconducibile esclusivamente ai nostalgici del Ku Klux Klan, del Terzo Reich, dell’ordine superiore bianco, al suprematismo paroliao o a quello armato. Nei 68 milioni di persone che lo hanno votato, Trump ha riunito grandi miliardari, finanzieri con o senza scrupoli, convinti assertori del primato statunitense nel mondo sotto ogni profilo possibile, la cosiddetta “middle class” formata da una borghesia da tempo surclassata dai grandi tycoon che gestiscono aziende globali e non mere filiali di ristoranti e casinò nei soli cinquanta Stati dell’Unione.
In quei 68 milioni di trumpiani c’è larghissima parte del movimento religioso cristiano, cattolico ma soprattutto protestante: niente a che fare con i padri pellegrini delle origini, ma eredi di un puritanesimo che va oltre il moralismo, diventa fede politica e si aggrappa al presidente sovranista per contrastare la deriva dei costumi, la rivoluzione amorosa e sessuale, la liberazione delle donne, l’autodeterminazione dei corpi rispetto alla legge di domeniddio.
Questa volta, almeno, pare che i lavoratori della zona industriale del paese abbiano voltato le spalle al trumpismo, preferendo un voto per una stabilità sociale che unisca economia a diritti, tanto sul lavoro quanto per la salute. La pandemia, visto l’esiguo scarto di voti con cui Biden prevarrà, si può dire che sia stata quella cavalleria di Blucher che ha permesso a Wellington di battere Napoleone. Micheal Moore ha twittato poche ore fa proprio così: la vittoria “blu“in Michigan e Wisconsin viene letta come una rivolta della classe operaia, ma in questo presupposto vi è troppa enfasi e poca analisi critica.
L’affascinante dilemma resterà questo per molti indagatori dell’incubo elettorale: milioni di lavoratori americani hanno abbandonato il liberismo sovranista spinto di Trump per seguire il liberismo di Biden o invece sono stati semplicemente indotti al voto democratico da una contrapposizione tra pericolo fascista interno e svalutazione degli USA nel resto del mondo?
E’ probabile che non esista una unica risposta netta, precisa e senza intepretazioni a questa domanda. Come in ogni realtà veramente complicata – e gli Stati Uniti d’America lo sono in tutto e per tutto – le ragioni sono plurali e sono anche le più disparate (oltre a quelle più disperate…). La timidezza bideniana verso la diminuzione delle tasse ha tarpato le ali al grande balzo contro un trumpismo che rimane, nel sottosuolo di una società barbarizzata dall’evocazione di ricorsi legali alla Corte Suprema e ricorsi illegali alle armi («Stand back, stand by»), l’ideologia posticcia e bislacca di metà del popolo americano.
Esiste un elemento ulteriore che non va cantucizzato: il rischio di un secondo successo di Donald Trump nelle presidenziali è legato a programmi politici, divisioni tattiche e strategiche, impostazioni delle campagne elettorali e condizionamenti dei grandi poteri economici. Ma il consenso popolare di base è frutto di una trasformazione fisica del personaggio che si atteggia ogni volta che è in pubblico.
Le mutazioni facciali, il gesticolare puntanto in aria l’indice dalla mano destra che viene fatta avanzare rispetto al resto del corpo, l’apertura alare dei palmi delle mani che mostra rassegnazione e difesa unitamenta ma che è in realtà un continuo contrattacco condito con sagace ironia, ebbene tutto questo è la plastica costruzione del leader massimo, del capo indiscusso, del sovrano senza corona che si dispone all’adorazione da parte dei sudditi.
L’aggressività verbale è parte simbiotica di un sincretismo atto alla pruduzione di tante e tali sciocchezze e fuorvianze, da far impallidire quel campione di menzogne che è stato Adol Hitler. Nessun paragone può essere stabilito storicamente e nemmeno attualisticamente. Da un lato, la retorica vuota di Trump si avvicina ai discorsi muscolari del dittatore nazista; dall’altro la fuoriuscita di sé stesso dalle sue sembianze, il diventare maschera di sé stesso, permette di leggervi una somiglianza con Benito Mussolini.
Comunque vada, Trump non ricorda nessuna buona figura del passato anche recente. Del resto, nemmeno Biden che rispetto al suo competitore è una tavolozza di tinte smorte, deboli, senza il gran carattere della pennellata che distingue un muro da un altro. L’epiteto di “Pisolo“, rifilatogli dall’inquilino della Casa Bianca, almeno fa un po’ ridere ma è certamente ingeneroso.
Mancano 17 voti al raggiungimento del numero magico: 270. Ma l’America non sarà migliore nelle sue politiche estere e interne; né gli americani diventeranno più anglosassoni e meno yankee. L’impudenza che li contraddistingue per loro sarà sempre precocità (come suggeriva un nobile Alec Guiness ne “Il piccolo lord“).
E tuttavia sarebbe piacevole poter un giorno scoprire che in questo grande paese, che non è soltanto una grande democrazia ma pure un conglomerato di ingiustizie, imperialismo ed elevazione alla massima potenza delle peggiori pulsioni dis-umane, l’impudenza torni ad essere voglia di ribellione sociale, civile e morale insieme ad una precocità che ne disveli la coscienza di classe.
E’ un sogno… Un sogno americano.