Una soddisfazione, nessuna illusione. Questo forse potrebbe essere il titolo molto pragmatico di un giornale comunista, di un quotidiano o settimanale libertario, che volessero commentare veramente da sinistra il risultato finale delle presidenziali statunitensi.
Una settimana lunga, fatta di colpi di scena, di conteggi e riconteggi di schede, di frastuoni fragorosi dalla Casa Bianca e dalle piazze. Ma anche di silenzi o di parole misurate, ben disposte l’una dietro l’altra per dare la giusta legittimità ad un voto che, oggettivamente, nemmeno i governatori repubblicani degli Stati in cui Trump ha perso osano mettere in discussione.
Joe Biden e Kamala Harris, dunque: presidente e prima vicepresidente donna nei due secoli e mezzo di storia della Repubblica stellata. Un evento che scuote il mondo, che enfaticamente qualche liberale un po’ sopra le righe e su di giri arriva a definire “il 25 aprile dell’America“. E’ una liberazione, è vero: un uomo autoritario, sprezzante tanto i diritti sociali quanto quelli civili, pronto a sostenere le più facinorose frange di destra degli Stati Uniti, autarchico, tutto ripiegato sul suo ego e sulla sua endemica spregiudicatezza, è stato messo da parte da un voto popolare.
Un voto difficile da esprimere che, mano a mano che si forma il quadro della sua composizione federale, ha valore se contribuisce alla vittoria del presidente nel singolo Stato, altrimenti non si fa motrice del treno che porta il candidato alla Casa Bianca. Nonostante tutto, nonostante anche sé stesso, il suo liberalismo e il suo appoggio alla guerra in Iraq, il poco carisma e l’età avanzata, Biden vince e ristabilisce quell”onda blu” di cui, ancora pochi giorni fa, avevamo tutti affermato l’inesistenza.
Non la si vedeva proprio e pareva, dai primi dati, che la forza del trumpismo fosse ancora così titanica da permettere al magnate delle costruzioni di fare un secondo mandato alla Casa Bianca. Un incubo. Sarebbe stato proprio questo: per l’America e per il mondo.
Il fronte di salvezza nazionale, che si è coagulato intorno alla proposta alternativa Biden – Harris, ha messo da parte per un momento le enormi differenze che passano tra i comunisti americani del CPUSA e la destra del Partito democratico, tra Bernie Sanders e Pete Buttigieg, tra Alexandria Ocasio-Ortez e repubblicani delusi come Colin Powell. Tutto nel nome di quella “salvezza della repubblica” insolitamente citata da Nancy Pelosi al momento della “chiamata” massmediatica di Biden a presidente eletto.
Che la Repubblica degli Stati Uniti d’America abbia corso un gran pericolo nel ritrovarsi nuovamente Trump alla Casa Bianca per altri quattro anni, è indubbiamente verità sotto gli occhi di tutti. Che la vittoria di Biden e Harris rappresenti la salvezza di quella che viene definita pomposamente la più grande democrazia al mondo, è tutto da dimostrare.
Chiaramente, partendo da un punto di osservazione prettamente liberale, di difesa della più classica delle declinazioni del regime democratico, Biden rassicura tanto i difensori dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione quanto gli operatori di borsa e di alta finanza. L’enfasi spropositata, con cui anche una certa sinistra italiana si spertica le mani nel plaudire al ritorno dei democratici nella sala ovale, non fa che mostrare l’infantilismo del progressismo che pretende di mantenere tratti di critica al capitalismo e, allo stesso tempo, affiancarsi al riformismo più docile.
Non bisogna cadere nell’errore della sopravvalutazione da campagna elettorale, nel fascinoso trasporto del carnevale colorato delle strade e delle piazze d’America, tra canti, balli e bandiere sventolanti, ritenendo che, una volta sconfitto Trump, gli Stati Uniti e il mondo si avviino verso una riforma sociale degna di questo nome. Non si pensi nemmeno lontanamente che sia reale una equazione tra difesa liberale dei diritti fondamentali dell’essere umano e espansione costante dei diritti sociali.
L’eguaglianza civile e quella sociale sono interconnesse e devono poter essere la base di una lotta anticapitalista vera, che neghi qualunque possibilità di salvezza di questo sistema economico, dimostrando ancora una volta come non faccia altro se non arricchire sempre meno persone – proprietarie di immani fortune finanziarie e detentrici della proprietà privata dei mezzi di produzione – e impoverirne di contro miliardi e miliardi.
La democrazia liberale è Biden: eguaglianza sul piano civile nella diseguaglianza sul piano sociale. Nessun cambiamento radicale è all’orizzonte. Pensare al nuovo presidente eletto come ad un liberatore dalle disparità antisociali che attraversano l’America è fargli torto: ma sarebbe anche ingiusto minimizzare così la sconfitta di Trump.
In quattro anni di presidenza sovranista, il miliardario che voleva farsi re ha lacerato anche quel minimo sindacale di regime formalmente egualitario che sopravviveva negli USA. Ha isolato gli Stati Uniti, ne ha fatto un paese rigidamente contrapposto in fazioni, esasperando la visione delle differenze da valore aggiunto per la società a pernicioso elemento ingombrante, ridando fiato ad estremisti di destra degni eredi del Ku Klux Klan, negando la scienza in tempo di pandemia globale, deridendo le minime misure precauzionali contro il Covid-19 e provocando così un rilassamento comportamentale che ha contribuito ad aumentare esponenzialmente il numero dei contagi e, conseguentemente, dei morti.
Da un liberale moderato come Biden ci si aspetta, questo sì, una inversione a centottanta gradi in merito: tanto nella gestione dell’emergenza sanitaria quanto nel ricacciare nei loro cantucci rancorosi tutti gli odiatori seriali, patetici protagonisti dell’acronimo “M.A.G.A” (“Make America Great Again“) ben impresso sulle poche mascherine presenti ai comizi di Trump. Da Biden si attende oltremodo una revisione della teoria dell’”America first“, riportando così gli Stati Uniti al confronto con tutte le altre nazioni, smorzando gli alibi sovranisti tanto in Europa quanto in Russia, ripercorrendo la via della condivisione di grandi decisioni da cui passa davvero il destino esistenziale dell’umanità.
Ma non possiamo chiedere a Biden, dopo aver liberalmente sconfitto Trump, di farsi socialista per noi. Non è un uomo di sinistra: è un progressista di centro, un moderato prestato al ruolo di contraltare di un megalomane che pretende tutt’ora di essere il vincitore delle presidenziali e di poterlo dimostrare. Ha preso 71 milioni di voti. Tanto basta. Ma non basta affatto.
Il punto, dunque, non riguarda tanto Biden che sa bene chi è che cosa vuol fare. Il punto riguarda noi comunisti, noi libertari, noi gente di questo mondo che non possiamo accontentarci della vittoria di un democratico per affidarci alla speranza del cambiamento sociale. L’America sarà diversa, ma sarà sempre il paese imperialista che conosciamo: pronto a stabilire l’ordine mondiale che esige con le armi, esportando la “sua” democrazia in ogni parte del globo dove sia necessario bilanciare gli equilibri con le altre potenze emergenti. Prima fra tutte la Cina.
Ora l’ubriacatura di gioia può finire: dall’ebbrezza al ritorno alla realtà. Dopo che abbiamo applaudito Biden abbastanza (almeno si spera) per la cacciata di Trump dalla Casa Bianca, possiamo rimetterci al lavoro per considerare il modo migliore per unirci e lottare contro Biden, contro il regime di conservazione dei privilegi e del capitale tutto intero.
Ora possiamo tornare ad essere quello che eravamo: espressione della coscienza di classe, parte della società che non si ferma sotto il palco a stelle e strisce del vincitore pensando che da oggi tutto cambierà.
MARCO SFERINI