Siamo un Paese serio? Per non farci scoppiare il fegato dalla rabbia, rispondiamo con un pizzico di ironia: serissimo. Un Paese con una sanità che, prima di essere investita dall’onda della furia privatistica, era immune (o quasi) dagli attacchi del profitto e che, tuttavia, già Alberto Sordi sfotteva in quanto preda alle pulsioni predatorie di una concorrenza tra medici della mutua, lupi tra greggi di pazienti. L’istinto storicizzabile di una Italia a metà tra lo sviluppo dei beni comuni e la tentazione di farvisi largo per rampantismo, quindi per voglia, di eccellere, di emergere pur rimanendo apparentemente legati ai fondamentali della democrazia e del patto sociale costituzionale, nobile virtù da mantenere intatta.
Eppure i medici della mutua, i medici di base, quelli di famiglia sono stati per tanti anni, almeno fino a quando noi quasi cinquantenni s’era bimbi o ragazzi, non solo dei dottori che ti ascoltavano e ti osservavano clinicamente a lungo, ma pure dei consiglieri, persone cui poggiarsi per avere anche un sostegno morale.
Tempo fa una dottoressa, vedendomi turbato per un esame che avrei dovuto fare, mi rimbrottò redarguendomi: «Guardi che io non sono mica qui per consolarla!». Stetti zitto, presi la ricetta e la prescrizione e non sbattei nemmeno la porta. Ma cambiai medico e consigliai di farlo ad altri che le erano pazienti. Fin troppo. Funzione del medico dovrebbe essere quella di informare il proprio assistito e non di liquidarlo su due piedi, a male parole pure, con un atteggiamento tutto tranne che rassicurante, mettendolo davanti alle proprie paure non come fa un terapeuta che ha una laurea in psicoanalisi, ma come fa un medico della mutua che ha troppe persone da gestire e che deve sbrigarsela in qualche modo.
Quella dottoressa non aveva tempo da perdere con me: cosa avevo, cosa mi sentivo, due occhiate al computer e una veloce stampa di due foglietti di carta. Arrivederci e grazie. Chiederle di misurarti la pressione era una impresa: il meglio che potesse accadere era un volteggiare delle orbite oculare dal basso all’alto, ma senza sbuffare. Quello mai. Sia detto per onestà e carità di patria.
Da medici veramente di famiglia, i dottori e le dottoresse ambulatoriali e di base sono stati fatti divenire nel corso degli ultimi trent’anni dei veri e propri ricettifici, delle protesi di stampanti che sputano fuori prescrizioni di ogni tipo, ti guardano in viso e deducono se sei ancora in grado di traballare sulle tue gambe prima di uscire dallo studio. La privatizzazione del sistema sanitario li ha ridotti a questo e ne ha fatto delle vittime, più o meno consapevoli, di un sistema competitivo che nulla dovrebbe avere a che vedere con l’ufficio prezioso del medico, cui non si possono accollare duemila e più pazienti e pretendere che svolga ogni giorno il suo mestiere con quella dovizia e quella perizia che gli sono certamente proprie.
Oggi, mentre la pandemia si sviluppa e non dà tregua ad un servizio sanitario regionalizzato e arlecchinizzato, difficile da coordinare persino quando si parla di raccolta dei dati sui contagi da Covid-19, un po’ tutti riscoprono il grande valore che aveva la medicina territoriale, quella che ti era più prossima, il primo anello della catena sanitaria cui ci si rivolgeva nel momento in cui ci si sentiva poco bene.
La tecnologia, che avrebbe dovuto supportare uno sviluppo capillare e sempre più sensibile alle esigenze dei cittadini in tema di aiuto diretto, veloce e quindi altamente preventivo, ha finito per sostituire delle qualità necessarie che non potranno mai essere proprie di un sistema digitale e dell’informatizzazione. Prima ancora che il Covid-19 facesse calcasse le scene di ogni teatro pandemico nazionale, ai medici di famiglia si telefonava senza andare nemmeno in studio: «Pronto, dottore… Buongiorno, mi può segnare queste medicine?»; «Certo, gliele mando con la ricetta elettronica, un messaggio sul telefonino». Grazie, buongiorno, arrivederci e grazie.
Col coronavirus tutto s’è complicato ulteriormente e il ricorso alle visite telefoniche da pochi secondi, in vero e proprio stile dottor Guido Tersilli, sono divenute purtroppo un rapporto ormai costante: la diagnosi viene abbozzata e si va oltre la prescrizione accurata, si suggerisce, si consiglia. Ciò costringe ad una mortificazione duplice: per il medico che vede scarnificata e deteriorata la sua competenza, da poter esprimere mediante un esame personale e diretto con l’assistito; per il paziente che non può fare altrimenti se non ascoltare, prendere nota ed andare in farmacia, il più delle volte, ripetendo quello che gli è stato detto e cercando conforto nella conferma da parte di un altro medico. Uno che sta dietro ad un bancone e che, nel perfetto circuito commerciale lo include a tutto tondo, è ridotto (si fa per dire, senza alcun intento riduzionistico) a venditore di prodotti di grandi case farmaceutiche.
Vi sono farmacie che somigliano sempre più a supermercati, che vendono addirittura i libri di fiabe per i bambini, mentre edicole e librerie guadagnano maggiormente dalla vendita di giocattoli e gadgets, di dvd e matite colorate piuttosto che di giornali e novità editoriali dell’ultim’ora.
Il mercato sovraintende tutto e tutti, ma le scelte politiche in materia di sanità sono complici delle forzature verso le privatizzazioni fatte dal grande ammodernamento del sistema economico globale. Se la sanità italiana fosse stata preservata dall’ingresso dell’interesse non pubblico nella gestione dei nosocomi fino alla regolamentazione della medicina di base, sostenendola con una autonomia regionalistica in materia che è stata promossa proprio a tale scopo, oggi non ci troveremmo a discutere della necessità di riportare i servizi sanitari “regionali” ad un unico rinnovato “Servizio Sanitario Nazionale” guidato dal governo.
Se è vero l’adagio secondo cui «Non tutto il male vien per nuocere», forse l’unico pregio del maledetto coronavirus è stato quello di rendere nudo il re, di mostrare a tutti che le privatizzazioni dei diritti fondamentali dei cittadini si pagano due volte: come flusso di profitti a chi si sostituisce al ruolo pubblico dello Stato e come sacrifici ulteriori quando si sbatte contro un’emergenza e il privato se ne tira fuori lasciando alle istituzioni disfunzioni, incongruenze e oneri di ogni tipo cui mettere mano.
Qualcuno profetizza, nemmeno tanto incautamente, che alla prossima pandemia saremo nuovamente presi alla sprovvista e grideremo all’inadeguatezza del sistema sanitario se non si metterà mano ad una riforma (anche) politico-amministrativo-istituzionale delle competenze in materia di tutela della salute pubblica. E’ un allarme lanciato dai medici di base, dagli scienziati, dagli anestesisti e dagli infermieri. Persino dagli operatori del 118 che sono stremati.
Compito della Repubblica dovrebbe essere la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Ad ogni costo: al costo di estromettere il privato da ogni interesse pubblico. Come è giusto, ragionevole, logico che sia. D’ora in poi.